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La mia corsa contro il tempo

di Mauro Mazzetti

Sono passati parecchi anni da quando ho cominciato a salire le cascate di ghiaccio. 
Attività entusiasmante, pratica sportiva, falesie di ghiaccio, adrenalina a buon mercato, pericolo garantito, rischio mortale: tanti hanno avuto (ed hanno tutt’ora) qualcosa da dire in proposito. 
Non sono certo questi il luogo ed il tempo per analizzare sentimenti e moti dell’animo, né per disquisire su tecniche di progressione e sviluppo dei materiali.
Preferisco piuttosto vivere alla giornata, salire ogni tanto qualche flusso – sempre meno, in verità, perché la “scimmia” è un po’ calata con il passare delle stagioni a favore di qualche salita di più in montagna.  
Appassionato sì, ma certamente non uno con il “manico”; quindi cascate moderatamente impegnative, che adesso vengono a ragione declassate e surclassate da quelli “buoni”.  
Ogni tanto torno a sfogliare un Alpidoc di qualche anno fa, dove Fulvio Scotto metteva ordine su numeri arabi e romani, pendenze e salite, comparando cascate e couloirs delle nostre parti con prestigiose ascensioni di tutto l’arco alpino occidentale.
Oppure riprendo in mano un mai dimenticato e sempre vivo Ghiaccio dell’Ovest, censimento catastale con cui il folletto Gian Carlo Grassi aveva dato forma, carta e vita ai suoi (ed anche un po’ nostri) “magici ponti di cristallo”. Per farla breve: basta cascate per i miei livelli impegnative, sia per una perdita di carica motivazionale e di giusta tensione emotiva, sia per la scelta di una nuova e diversa stagione di vita alpinistica. 
Forse non ci starebbe male anche un bel richiamo alla volpe ed all’uva, ma passiamo oltre.  
Solito appuntamento al casello di Genova Voltri al solito infame orario. 
Questa volta il mio socio mi ha tirato un pacco, peraltro da me paternamente benedetto, considerato che intende sfruttare un’occasione forse irripetibile per questa stagione; il couloir cascata delle Barricate in Valle Stura è fiore effimero da cogliere senza avere pudore e ritegno di amici tecnicamente meno bravi ed atleticamente meno preparati. Eppure Alessandro si presenta all’appuntamento con un sorrisino mefistofelico; mi comunica rapidamente che il mio compagno di riserva ha dato forfait, e che quindi a me non resta che dirigere su Pontebernardo assieme anche a Luciano, che ci sta aspettando a Borgo S. Dalmazzo.  
Lui sa che io sono un inguaribile brontolone di mezza età, e quindi fa orecchio da mercante alle mie lamentele ed ai miei distinguo, che spaziano concettualmente ed abbracciano ogni e qualsiasi motivo – plausibile e no – per convincerlo che quella salita non fa per me, che è superiore alle mie forze.  
Fatto sta che, un paio d’ore dopo e sempre ben prima dell’aurora, mi trovo a caracollare dietro ai due forsennati che stanno risalendo di gran passo la scarpata che porta all’attacco delle “Barricate”.  

G. Ghigo/G. C. Grassi, 29 gennaio 1984: coppia e data storica per quello che allora fu definito cascatismo. La colata a sud del Monte Bianco più alta d’Italia, 500 metri di dislivello su altissime difficoltà (almeno per quei tempi), una valutazione di tutto rispetto (ED inf), la precarietà della struttura, l’effemerità come la chiamava Grassi, la corsa dei primi salitori non “incontro” ma “contro” al sole, per poi accorgersi al ritorno che la parte bassa era crollata, diventando impraticabile.

Ed io, piccolo, acciaccato, attempato ed impreparato, ventun anni ed un giorno dopo la prima salita, che mi sto fissando i ramponi alla base del primo salto, scrutando nel buio le sottili lame luminose prodotte dalle frontali delle cordate che già ci stanno precedendo, come in una brutta ed onirica copia di Guerre stellari.  
Di questa cascata ho raccolto tanta letteratura, tanti libri che ne riportavano la relazione tecnica e le considerazioni “filosofiche”, ma adesso ho rimosso tutto dalla memoria, vivendo l’avventura come in un sogno – e speriamo che non ne venga fuori un incubo.  
Comincia così il viaggio sulle “Barricate”, un viaggio di fatica e di impegno, di sforzo e di tensione. 

 

E’ un viaggio importante, almeno per me che certe salite le ho sempre viste lontano e da lontano, a nutrire un immaginario di sogni proibiti più che di aspettative non soddisfatte.  
Primo tiro, secondo tiro, poi il sole arriva puntuale ed implacabile a riscaldare ed a sciogliere. Ghiaccio morbido, senza dubbio; fin troppo, per i miei gusti. Ghiaccio lavorato, a candeline e spaccature, dove puoi e devi incastrare la piccozza cercando di non smantellare questo simulacro di architettura glaciale, dove cerchi di farti piccolo per strisciare tra le pieghe riscaldate di una rigorosa e severa verticalità.  
Si cerca di far presto, velocizzando le manovre ed applicando ferree strategie accuratamente elaborate “a terra”. Ci portiamo sotto il terzo tiro, una candela già danneggiata ed estremamente lavorata, che cola acqua copiosa e fastidiosa; se avessi più tempo e più voglia, ci starebbe bene una bella foto, da scattare proprio nello stesso punto di quella che c’è su Ghiaccio dell’Ovest. Le altre cordate hanno intanto completato la prima parte della salita; mettono le corde negli zaini e cominciano tutti a spiccozzare in libertà nei tratti “camminabili”.  
Anche noi facciamo così, e procediamo slegati dentro questa spaccatura del grande castello roccioso, una fenditura che si allarga e si stringe con il respiro della montagna. Ecco lì, ci sono ricaduto in queste concezioni animistiche della natura; ma lascia ben perdere, e guarda dove metti picche e ramponi sui pezzi “pedonabili” ed “appoggiati” (che a mio parere sono comunque su pendenze importanti, spesso muretti verticali). 
A turno i miei soci schizzano via verso l’alto; quello dei due che non corre si mette pazientemente e silenziosamente dietro di me, più lento ed impacciato; forse per amicizia, forse per rispetto, forse per compassione, segue le mie a volte incerte evoluzioni sul ghiaccio di fusione, finalmente buono da scalare.  
Ancora un paio di centinaia di metri di dislivello con questo andare, sempre con la pressione psicologica del sole sulle spalle, poi si comincia a vedere una fetta man mano più ampia di cielo, sino a quando il canale ormai bonario spiana. Negli occhi e nella voce di Alessandro c’è la contentezza per la salita effettuata, mentre Luciano nel frattempo si è sbragato e si gode il sole senza più patemi d’animo.  

Ecco la differenza tra me e loro. Io non sento niente, almeno per ora, anestetizzato dall’emozione, neutralizzato dall’aver vissuto a posteriori un piccolo pezzo di storia alpinistica; loro stanno già discutendo delle difficoltà della via, difficoltà che ritengono inferiori a quanto evidenziato nella relazione originale.
Non sono sbruffoni, tutt’altro: giunge infatti doverosa la riverente precisazione di come le condizioni siano cambiate quanto a materiali ed equipaggiamento rispetto ai tempi di Ghigo e Grassi.  
Sull’asfalto della strada statale mi tocca quasi correre per non perdere contatto visivo con i miei compagni di cordata, finalmente liberi di muoversi e di parlare allo stesso passo e con lo stesso ritmo.  
Ma loro sono di un altro mondo, in senso buono. Sono di ben altro livello, tecnico e fisico; per loro due “le Barricate” diventerà tra breve un’altra importante e storica salita che hanno compiuto, una delle tante.  
Per me invece sarà cosa diversa; per me sarà stata veramente la mia corsa contro il tempo, un tempo che passa dentro e fuori.


Mauro Mazzetti  
Febbraio 2005