Nel labirinto del Minotauro
di Roberto Belletti
“Presto, venite a tirare anche voi!!!”
Attimi concitati.
Il capo della cordata che ci precede è aggrappato alla corda, tesa.
I miei compagni ed io ci mettiamo una vita a raggiungerlo (in realtà
sono solo pochi secondi, ma la percezione del tempo è andata
improvvisamente in vacanza).
Finalmente iniziamo a tirare…
Ma andiamo per ordine.
E’ la mia prima gita alpinistica sociale: la Presanella.
Pensare che ho sempre detto:
“Io sulla neve no, non mi piace. Preferisco
sapere cosa c’è sotto a dove metto i piedi”.
E invece, “forte” del corso di Alpinismo Base appena concluso [Fatto con
la Scuola di alpinismo del CAI di Bologna N.d.R.] e della
bella salita sul ghiacciaio del Gran Paradiso fatta durante il corso,
decido di iscrivermi all’alpinistica.
Già questa, da sola, è una bella soddisfazione.
La gita si svolge in due giorni: il primo prevede la salita da Stavel al
rifugio Denza (*) e il secondo la salita alla cima della Presanella
attraverso il ghiacciaio della via normale Ovest (Passo Cercen e
Forcella Freshfield), oltre, naturalmente, al ritorno a Stavel.
Poco prima dell’arrivo del pullman a Stavel, vengono annunciate le
composizioni delle cordate, così come sono state decise dal “gran
consiglio dei direttori”.
Io sono in cordata con Donatella e Claudio.
Donatella, la mia capocordata, mi assegna il “posto della foca”, quello
in mezzo, cioè del più inesperto, ed è giusto così, dopotutto sono solo
al mio secondo ghiacciaio.
La salita al rifugio Denza è tutta su sentiero facile nel bosco.
Portiamo a turno la corda fra compagni di cordata lungo tutti i 1030
metri di dislivello fino al rifugio, con l’unico pensiero di risparmiare
energie per l’impegnativa salita del giorno successivo.
Il rifugio è ristrutturato da poco, è molto accogliente e sorge in una
posizione stupenda.
La vista della parete nord della Presanella è emozionante: se tutto va
bene, domani saremo là in cima.
Quasi non riesco a crederci…
Dopo cena, preparo lo zaino e l’attrezzatura e poi vado a nanna,
sperando di dormire almeno un po’ per recuperare quante più energie
possibile.
Complici l’alzataccia della mattina, un po’ di stanchezza e il fatto che
sorprendentemente nessuno russi in camerata (una rarissima combinazione
astrale, questa) o forse, finalmente comincio ad abituarmi ai rifugi,
riesco a dormire fino al trillo di un cellulare che qualcuno ha usato
come sveglia.
Veloce colazione e, sono le quattro e mezza del mattino, si parte per la
conquista della cima.
Alla luce delle frontali risaliamo la morena fino all’inizio del
ghiacciaio, dove ci fermiamo per indossare l'attrezzatura e legarci in
cordata.
Albeggia e fa un freddo cane. Ho indossato tutto quello che avevo nello
zaino ma ho ancora freddo.
“Quando si riparte? Almeno muovendosi ci si scalda…”
Un passo e siamo sul ghiaccio.
Il primo tratto è ghiacciaio secco, ed è una novità per me, dato che al
Gran Paradiso la neve era tanta e il ghiaccio non l’ho quasi visto.
Incominciamo la salita.
Dal ghiaccio affiorano pezzi di legno ormai marcito, spezzoni di filo di
ferro arrugginito e persino un intero proiettile inesploso. Detriti che
ci parlano di ciò che è avvenuto da queste parti durante la guerra del
15/18. Pensarci fa venire davvero i brividi.
Il ghiaccio è duro e ci sono tratti abbastanza ripidi, ma la salita
procede bene, anche perché non sembrano esserci crepacci in vista,
benché ogni tanto qualche ondulazione della superficie del ghiaccio ne
faccia sospettare l’infida presenza.
Arriviamo così a Passo Cercen, una spianata nevosa a circa 3000 metri di
quota.
Facciamo una breve pausa per riprendere fiato, con lo sguardo che va
alla Forcella Freshfield e al tratto di ghiacciaio da percorrere per
raggiungerla.
Visto da Passo Cercen sembra abbastanza ripido, inoltre è tutto in ombra
e fa venire freddo solo a guardarlo.
Qualcuno lo chiama “il lato oscuro del frigorifero”. Ridiamo alla
battuta e riprendiamo la salita.
Qui il ghiacciaio è completamente coperto di neve.
Fortunatamente è una neve dura e molto compatta, il che agevola molto la
progressione.
Certi tratti sono veramente ripidi, procediamo un po’ a zig zag e un po’
dritto per dritto seguendo la traccia lasciata dalle altre cordate.
Accompagnati dai raggi di sole che spuntano dalla sella mano a mano che
la pendenza diminuisce, arriviamo a Forcella Freshfield a quota 3375.
La
forcella separa il monte Gabbiolo dal Vermiglio e costituisce il
“passaggio obbligato” (così lo definisce un simpatico alpinista veneto
incontrato proprio lì in forcella) per arrivare sulla vedretta di
Nardis.La discesa dalla forcella è all’interno di un canalino, su rocce e
detriti (soprattutto detriti), ed è parzialmente attrezzata con fittoni
e cavo metallico
E’ un tratto scomodo, che percorriamo prima assicurati dall’alto da
Donatella e poi agganciati al cavo metallico, dopo aver notevolmente
accorciato la distanza fra i componenti della cordata.
Alla fine del canalino, siamo di nuovo sulla neve sotto alla dorsale fra
il Vermiglio e la Presanella.
“Un tratto in piano, era ora!”.
Finalmente si vede anche la cima, il nostro obbiettivo, e il resto del
percorso da fare per raggiungerla.
Una traversata su neve sotto tutta la dorsale, seguita da un pendio
roccioso.
La vista della cima aiuta psicologicamente, dato che la fatica comincia
ormai a farsi sentire.
Valuto che mancano ancora “solo” 200, massimo 300 metri di dislivello e,
tirando le somme, sento che ce la posso fare. La traversata, paragonata
ai tratti precedenti di ghiacciaio, è quasi rilassante, su una traccia
comoda e ben marcata che taglia un pendio relativamente dolce.
Terminata rapidamente la traversata, lasciamo la neve per percorrere un
pendio roccioso formato da grossi blocchi di granito. Qui la traccia non
c’è, né ci sono segnavia. C’è solo qualche debole segno di passaggio qua
e là.
E’ il nostro capocordata che deve trovare la via attraverso un
guazzabuglio di massi e piccoli nevai.
Procediamo “in conserva corta” tenendo i ramponi ai piedi, “per fare
un po’ di didattica”, ci spiega Donatella.
Anche la progressione su roccia con i ramponi per me è quasi una novità,
e approfitto della buona occasione per far pratica. Mano a mano che ci
avviciniamo alla cima, sotto di questa appare una sottile cresta nevosa.
“Non dovremo mica passare per di là? Speriamo che traversi in
orizzontale, lungo quella lingua di neve e che si salga alla cima per
rocce, da dietro”.
E invece no, si passa proprio per la cresta nevosa, che si rivela come
il punto più bello dell’intera salita.
La cresta non è eccessivamente ripida e abbastanza larga, ma con una
pendenza che aumenta progressivamente verso il lato sinistro di chi
sale, lasciando immaginare che razza di scivolo possa esserci dall’altra
parte.
“Vi rendete conto? Siamo sopra alla parete Nord, quella che si vedeva
dal rifugio!”
Alla fine della cresta rimane solo un breve tratto su rocce e detriti e
finalmente appare la croce di vetta.
“Dai che ci siamo!”, ci incitiamo a vicenda.
Ancora pochi passi e finalmente siamo sulla cima della Presanella, a
quota 3558.
La visibilità è ottima e il panorama dalla cima ripaga ampiamente la
fatica fatta per raggiungerla.
Ci congratuliamo fra di noi e con gli amici delle altre cordate. La
soddisfazione generale è evidente: nonostante la fatica, tutti hanno
sorrisi che vanno da un orecchio all’altro.
L’arrivo su una cima, non importa se salendo per un facile sentiero, al
termine di una impegnativa via ferrata, oppure, come in questo caso,
attraverso un ghiacciaio, per me è sempre un momento speciale.
C’è il sollievo per la fine della fatica (in realtà manca ancora tutto
il ritorno, ma ci sarà tempo dopo per pensarci), c’è la soddisfazione
per aver realizzato quello che ci si era prefissati e la consapevolezza
di poter dire: “io sono stato là”.
Ci rilassiamo, mangiamo qualcosa e posiamo per l’immancabile foto di
gruppo, e arriva il momento di prendere la via del ritorno.
Mentre iniziamo a scendere, vado indietro col pensiero al percorso che
ci aspetta, l’inverso dell’andata, con in più la discesa dal rifugio
Denza fino a Stavel: un totale di 2300 metri di dislivello.
Cerco di individuare quale potrà essere il punto più impegnativo: la
cresta nevosa sotto la cima, le rocce, i tratti ripidi tra la Forcella
Freshfield e Passo Cercen oppure il ghiacciaio secco?
Voto per quest’ultimo, pensando a com’era duro e ripido il ghiaccio
durante la salita, e mi chiedo come sarà a scendere.
In effetti il tratto più pericoloso si rivela proprio quello, ma non per
la ragione che avevo immaginato.
Arrivati lì, il ghiaccio è molle, sembra una granita. I ramponi fanno
bene il loro dovere e si vede la morena, là in fondo che ci aspetta non
troppo lontana.
Il problema è che il ghiacciaio è completamente diverso da quello che
abbiamo salito al mattino.
Con il sole e il caldo della giornata, i ponti di neve si sono sciolti e
hanno iniziato il lungo viaggio verso il mare, trasformando il
ghiacciaio in un labirinto di crepacci: il labirinto del Minotauro.
E noi, novelli Tèseo, legati al filo di Arianna delle nostre cordate,
dobbiamo attraversarlo.
Dopo un po’ smetto di contare i crepacci che abbiamo saltato (“Da
dove sono usciti fuori? Stamattina non si vedevano…”) e mi concentro
su quello che devo fare e su quello che sta facendo Claudio, là davanti,
assecondandone il passo per tenere la corda sempre tesa.
Poi, improvvisamente, accade.
Un urlo davanti a noi, una frazione di secondo, e Cristina, nella
cordata che ci precede, è sparita.
E’ caduta in un crepaccio.
E’ un attimo surreale, fatico a realizzare cosa è successo.
Il capo della cordata di Cristina, aggrappato alla corda, ci urla: “Presto,
venite a tirare anche voi!!!”.
I miei compagni ed io lo raggiungiamo, piantiamo bene i ramponi nel
ghiaccio e iniziamo a tirare.
Altrettanto fanno i componenti della cordata che precedeva quella di
Cristina, e comincia così una sorta di tiro alla fune, noi da una parte
e loro dall’altra. A un osservatore casuale potrebbe anche sembrare che
stiamo davvero giocando al tiro alla fune, se non fosse per quella corda
che sparisce all’interno del crepaccio e per il fatto che, nel mezzo,
non c’è legato un fazzoletto, bensì una persona in pericolo.
“Accidenti, come pesa!!!”. “Sarà mica incastrata?!?”.
Forse è l’attrito sul bordo del crepaccio, tuttavia, tirando, la corda
pian piano viene.
“Ma si sarà allungata la corda o starà venendo su?”
E poi, finalmente, eccola.
Aiutata da Stefano, che intanto ha raggiunto il bordo del crepaccio,
Cristina finalmente spunta fuori.
“Tiratela su di là, voi smettete di tirare!”. Il capocordata dice
a noi.
Ha ragione, noi siamo ancora “di qua”, non ha senso farle saltare di
nuovo il crepaccio.
Allora smettiamo di tirare, ma quasi con riluttanza, come se, così
facendo, la abbandonassimo.
E, chiaramente, non lo vogliamo.
Cristina però ormai è fuori, in piedi, al sicuro.
E’ incredibile come sia così calma, e che non si sia fatta nulla.
Ma che spavento ci ha fatto prendere!. E’ un sollievo vederla lì di
nuovo con noi, illesa.
Ora però non c’è molto tempo per ragionare su quanto è successo, bisogna
riprendere la discesa e cercare di uscire senza altri incidenti dal
labirinto.
Il che avviene spostandoci sul margine sinistro del ghiacciaio, su
consiglio delle altre cordate che, nel frattempo, hanno già raggiunto la
morena.
Finalmente anche noi siamo fuori dal ghiacciaio.
Dopo quello che è successo non mi pare vero di essere di nuovo sul
“terreno solido”.
Ora non rimane che scendere fino al Denza e poi altri mille metri fino a
Stavel.
Tutta discesa, è vero. Però, stanchi come siamo, non sarà di certo una
passeggiata.
La “passeggiata” in effetti si concluderà alle ultime luci del giorno,
intorno alle 21, dopo ben 16 ore di escursione.
Nel labirinto, il filo di Arianna ha funzionato e il Minotauro ci ha
restituito Cristina.
E’ stata la dimostrazione pratica, se ce ne fosse stato bisogno, che non
si deve mai percorrere un ghiacciaio senza essere legati in cordata.
Ai corsi ti insegnano sempre che cosa fare quando le cose vanno bene,
manovre, tecniche di progressione, eccetera. Ma quando invece le cose
vanno male, ad esempio se qualcuno cade in un crepaccio, che succede?
Siamo sicuri di essere in grado di gestire la situazione?
In effetti, al corso, prima dell’uscita al Gran Paradiso, l’avevo
chiesto: “Cosa succede se qualcuno cade in un crepaccio ?”
E la risposta è stata: “Siamo lì in tanti. Ci mettiamo tutti a tirare
e lo recuperiamo. Voi allievi, però, dovete stare attenti, perché se un
componente della cordata cade, gli altri devono subito trattenerlo”.
Ed è quello che è successo questa volta, grazie alla prontezza dei
componenti della cordata di Cristina che ne hanno trattenuto la caduta
permettendoci di intervenire per recuperarla.
Credo che, ogni volta che tornerò su un ghiacciaio, non potrò fare a
meno di pensare a quanto è successo alla Presanella. Un’esperienza che
mi aiuterà a mantenere tesa la corda e alta l’attenzione, ne sono
sicuro.
Roberto Belletti
Bologna /
San Vito di Cadore, Settembre 2010
(*) Nota della redazione.
Il rifugio Denza è stato eretto nel 1898 e inaugurato il 21 agosto 1899,
diventando il punto d’appoggio per gli alpinisti che volevano salire
l’ardita Presanella, percorrendone il versante settentrionale. Si trova
alla quota di 2298 metri su di un terrazzo poco sotto un piccolo lago e
ai piedi della morena del ghiacciaio della Presanella.
Il rifugio è intitolato a padre Francesco Denza, barnabita, astronomo e
meteorologo.
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