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Incontro con Lucio Calderone, il “galantuomo”
(ovvero … un’intervista lunga due anni …)

a cura di Gabriele Villa 

 

Questo è stato un incontro sviluppato e scritto … a puntate.
Comincia in un pomeriggio di un inizio luglio del 2006, al rifugio Ventina alle pendici del Monte Disgrazia, in Val Malenco, in un momento di pausa (causa pioggia) del 9° Corso ghiaccio della Scuola di alpinismo “Bruno Dodi” di Piacenza.

Prosegue in un sabato pomeriggio di giugno del 2007, al rifugio Pian Fiacconi, alla vigilia della salita della Marmolada di Penìa, uscita conclusiva del 27° Corso di alpinismo e nello stesso rifugio si conclude, nel giugno 2008, all’uscita conclusiva del 28° Corso di alpinismo della stessa Scuola “Bruno Dodi” di cui Lucio Calderone è il direttore.

Personalmente l’ho conosciuto in un aggiornamento ghiaccio riservato agli Istruttori Sezionali, svoltosi sul ghiacciaio della Marmolada in un oramai lontano fine settembre del 1980.

Da quell’incontro e da quelli periodici degli anni successivi, in occasione di aggiornamenti istruttori o di congressi degli stessi, è nata fra noi una bella e salda amicizia nonostante le città in cui abitiamo siano poste a 200 chilometri esatti di distanza una dall’altra.

Lucio Calderone è una persona “vecchio stampo”, uno di quelli che nel buon vecchio e indimenticato libro Cuore di Edmondo De Amicis venivano definiti con una semplice e significativa parola: “galantuomo”.

E’ anche un valente alpinista, uno di quelli che si è fatto da solo la propria esperienza, anche pagando qualche scotto a questo apprendistato da autodidatta, ma proprio per questo il suo bagaglio di conoscenze ed esperienze è ancora più ricco e prezioso.
Proprio questo è ciò che abbiamo cercato di conoscere meglio in questa “intervista” a puntate.


La prima domanda è la più scontata e la risposta è essenziale, come un telegramma.

Sono nato a Piacenza il 30 maggio 1942.

Gli chiedo come è nata la sua passione per la montagna e l’alpinismo.

E’ un istinto che ho avuto fin da bambino. Ricordo che mi arrampicavo sulle piante, un po' come tutti i bambini, ma a me piaceva veramente tanto, era proprio un istinto innato.
Poi, frequentando la parrocchia, sentivo il Curato che parlava di montagna e, vedendomi interessato, mi prestò un manuale. Era di Carletto Negri, mi ricordo bene.


Trascrivo sul moleskine il discorrere del mio amico ed ogni tanto lo sbircio vedendone gli occhi che rivelano il piacevole viaggio della mente nel passato.

La nostra casa aveva quello che veniva chiamato “bassocomodo”, un deposito in cui si tenevano gli attrezzi e nel quale mi rifugiavo a fare i miei esperimenti di arrampicata: piantavo i chiodi da roccia nei muri e sperimentavo le tecniche, anche quella di arrampicata artificiale.
Ho fatto da solo la mia prima formazione, da autentico autodidatta.
Successivamente, assieme ad un amico, andammo sulle mura della città che sono alte una decina di metri e lì arrampicavamo in cordata.
Ricordo che l’amico una volta è volato ed io ho tenuto il volo e pure il chiodo che avevamo piantato ha tenuto. Non ricordo esattamente quando fu, ma di certo prima del 1957.


Gli chiedo come mai è certo di quell’anno, il 1957.

Perché proprio quell’anno partecipai ad un campeggio in Val Nure, sull’Appennino piacentino.
Ricordo che la spedizione italiana al K2 del 1954 mi aveva molto incuriosito verso l’alpinismo o meglio sarebbe dire verso il CAI, anche perché il Curato mi dava le riviste del CAI e da queste imparai a conoscere l’associazione.


Poi iniziasti ad arrampicare, immagino…

Fu nel 1958 o 1959. Andammo con due motorini a salire una via nuova al Dente del Groppo delle Ali (Groppo in gergo locale sta per monte). Era una via di 80 metri di lunghezza con difficoltà sul quarto grado che si trovava sulla parete nord. A due terzi della via si ruppe il manico del martello, ma io andai avanti lo stesso.
Sono anche sceso per la stessa via perché al mio compagno era caduto un sasso sulla spalla ed in conseguenza non era salito; la discesa fu in arrampicata e, parte in corda doppia, ma se devo essere sincero, adesso mica ricordo bene come ho fatto a scendere.


Gli chiedo informazioni sull’attrezzatura di cui disponevano in quegli anni.

Avevamo una corda di canapa che ci aveva imprestato il prete e la legavamo attorno alla vita. Io avevo fatto le prove appendendomi ad un gancio che c’era in cantina.
Inoltre avevamo moschettoni di ferro e, naturalmente, si faceva la sicurezza a spalla.
Un passo avanti l’ho fatto nel 1962, quando mi sono iscritto al CAI, dove ho trovato nuovi amici con cui andare ed un socio anziano che aveva fatto alpinismo che ci ha introdotto.
Dopo abbiamo fatto altre arrampicate in Appennino ed erano vie nuove perché allora ancora non si arrampicava in Appennino; ci andavamo noi perché mancavano i soldi per poterci permettere di andare più lontano.
Si andava al Ciapa Liscia (una parete di 80metri) e al Groppo delle Ali.
Sul Ciapa Liscia abbiamo aperto una via di 5°/5°+ classico ed un tratto di A1 in origine, per via degli scarponi e della scarsa sicurezza dell’arrampicata.

Posso immaginare che tu abbia fatto il servizio militare negli Alpini?

Ero a Cividale del Friuli, nell’Artiglieria da montagna della Julia, negli anni 1964 e 1965.
Nell’agosto del 1964 sono andato ad un corso di roccia in sostituzione di un mio superiore che non ne aveva mica voglia di andare e per questo motivo feci l’allievo e non l’istruttore.
Devo dire che quel corso non aggiunse conoscenze a quelle che già sapevo in base alle esperienze fatte arrampicando sull’Appennino.


Continua a raccontare Lucio, senza attendere altre domande da me, anche perché ben si immagina ciò che gli chiederei, cioè conoscere la sua intera esperienza di alpinista.

Nel 1966 sono stato assunto all’ENEL di La Spezia ed ho conosciuto un ragazzo del CAI di Carrara che mi ha fatto conoscere le Alpi Apuane.
Abbiamo fatto arrampicate nella zona sopra Vinca (Garnerone) e, sempre con lui, abbiamo aperto una via su di un torrione che per un certo periodo è stata la più difficile della zona.
Poi c’è stato l’incidente… sai cosa mi è successo vero?


Si è rabbuiato in volto Lucio e mi guarda interrogativo.
Gli rispondo che sapevo che gli era successo qualcosa in arrampicata, ma che non conoscevo né dinamiche nè dettagli di quanto gli era accaduto.


E’ stato sempre nelle Alpi Apuane, nel 1967, nel tentativo di aprire una via nuova su un altro torrione che c’è stato l’incidente: avevamo fatto due tiri, eravamo in sosta su di un chiodo piantato dall’amico.
Mentre lui cambiava la sicura a spalla si è sfilato il chiodo ed io sono caduto a terra.
L’amico si è spellato mani e schiena, ma senza riuscire ad arrestare la caduta.
Io sono arrivato fino a terra, tant’è che la sosta che era su di un pilastrino di roccia non è stata sollecitata, così che l’amico è rimasto su, altrimenti sarebbe stato trascinato nella caduta.


Ora parla più lentamente Lucio, il tono si è fatto un po’ greve, ma continua a raccontare quello che sembra essere stato come un viaggio di andata e ritorno dall’aldilà.

Sono stato in coma tre giorni in seguito ad un’emorragia interna prodotta dall’imbrago che era fatto con un cinturone da elettricista modificato. Ho subito una prima operazione per fermare questa emorragia interna ed in seguito me ne hanno fatte altre due per sistemare un po’ le cose…
Devo dire che dell’incidente non ricordo assolutamente nulla e non so se abbia contribuito o meno ad aumentare in me un grande blocco psicologico.
Dopo questo incidente ho avuto un freno che mi ha bloccato e condizionato in maniera irreversibile, ma forse è stato meglio così, se no forse mi sarei ammazzato da qualche altra parte.
Sta di fatto che da allora ho sempre un po’ “tirato indietro”, salvo se sono allenato o preparato, o alla Rocca del Prete dove mi sento un po’ a casa e quindi arrampico più tranquillo.


Sembra che il suo raccontare si fermi, ma è per poco poi, quasi a reagire al dispiacere del ricordo, eccolo riprendere con nuova lena.

Nel 68 avevo già ripreso ad arrampicare e ho fatto la prima ripetizione della via Riccardo (la diretta) alla Rocca del Prete, con difficoltà do 4°, 5° e artificiale, rigorosamente da secondo.
Allora la diretta era l’unica via della Rocca del Prete, fu in seguito che cominciammo ad aprire delle varianti per migliorarne la linea, con Enrico Aspetti.
Era stato salito anche lo spigolo nord, ma non era conosciuto e quindi non era frequentato.
Fu nel 1982, con Carlo Peveri, che cominciammo ad aprire nuovi itinerari alla Rocca del Prete e mano a mano li pulivamo con autentici disgaggi ed a mettere le protezioni con spit artigianali che mi facevo costruire da amici artigiani. Negli anni successivi subentrò Angelo Anselmi, sia ad aprire vie che a lavorare ai disgaggi ed alla messa in sicurezza degli itinerari.


Via dopo via, disgaggio dopo disgaggio la Rocca del Prete è diventata quella che molti chiamano “il regno del Lucio”, descritto assieme a tante altre zone di arrampicata della provincia piacentina nella guida “AEMILIA”, edita dalla Sezione del Cai di Piacenza nel 1993, grazie al lavoro di Lucio Calderone ed Eugenio Pinotti.

Pensa che per realizzare la via Indiana Giones, che sono quattro tiri di corda per 120 metri di 3° con passaggi di 4° grado, sono servite 18 giornate di disgaggio e ripulitura della parete.
Su Rocca del Prete ho fatto anche vie di misto. Ho fatto anche l’invernale alla via diretta, in giornata, ma con un po’ di corde fisse posizionate sui primi tiri.
Ti dirò che le foto che ho fatto sono come quelle delle invernali di Bonatti che come alpinista è stato il mio mito.
Per me la salita “BELLA” è proprio quella di misto, indipendentemente dalle difficoltà.
Sul misto mi trovo bene e il richiamo viene dall’ambiente delle montagne.
Mi pare superfluo dire che mi sento Occidentalista (*) e non Orientalista.
Proprio per questo la via più bella per me è stata quella aperta nel 1995 al Mulkilà IX in Himalaya indiano (5736 metri). Ce la siamo fatta noi della “nostra” spedizione e la considero la più bella anche se io non sono arrivato in cima.

(*) [Tra le vie “occidentali" percorse da Lucio Calderone sono da segnalare lo “Sperone della Brenva” al Monte Bianco, la Cresta Signal a Punta Gnifetti e la cresta Rey a Punta Dufour nel Gruppo del Monte Rosa, la via Cretier alla nord del Gran Paradiso].

Brillano gli occhi a Lucio al ricordo di tante giornate di scalata che certo gli hanno dato molte soddisfazioni in questo angolo dell’Appennino piacentino che chi non è dei luoghi difficilmente immaginerebbe così ricco di possibilità escursionistiche ed anche alpinistiche.
Naturale che concluda il discorso con una frase che è di affetto e riconoscenza.


La Rocca del Prete è una piccola montagna, ma grande per quello che mi ha dato.



Avendolo conosciuto nell’ambiente dei corsi istruttori del Club Alpino Italiano gli chiedo di parlare della sua esperienza da istruttore.

Nel 1971, assieme ad altri amici e sotto la guida del Dottor Guido Pagani allora presidente della sezione di Piacenza abbiamo iniziato ad organizzare i primi corsi della sezione.
Pagani era INA e Accademico ed era stato il medico della famosa spedizione italiana al K2.
Allora esistevano solo le Scuole nazionali, ma devo dire che noi siamo nati “concettualmente” come scuola, che subito si è chiamata con il nome di Bruno Dodi, scomparso nel 1957.
Nel 1978 ho frequentato il corso per istruttore sezionale con Antonio Bernard alla Pietra di Bismantova e nel 1984 sono diventato IA, con l’apposito corso tenuto alle Alpi Apuane, ma questo lo sai bene perché eri presente anche tu.


Ora sorride e sembra più rilassato Lucio Calderone, forse perché ha raccontato quasi tutto e, come tutti i modesti, la cosa gli costa una certa fatica.
Gli chiedo solo di “concludere” con quella che è stata la sua intensa e multiforme attività istituzionale in seno alla Sezione di Piacenza ed anche negli organismi periferici e centrali del Club Alpino Italiano.


Beh, ho fatto il Consigliere di sezione tanti anni fa (erano gli anni ‘70), poi ero uscito alla scadenza del mandato perché c’era una gestione del Consiglio autoritaristica, tutto era già preordinato, del resto il presidente Guido Pagani era una persona molto carismatica, ma devo dire sinceramente con quei metodi “non mi ero trovato bene”.
Sono rientrato nel 95 perché mi proposero di fare il presidente: dicevano che ero carismatico.
Allora mandavo avanti la Scuola di alpinismo, ne ero l’eminenza grigia.
Il presidente uscente aveva indicato me come successore ed io avevo accettato con l’impegno di dare le dimissioni dopo un anno e fare così in modo che continuasse lui fino al completamento del mandato. Lui disse di sì, ma sapeva di avere un cancro e dopo sei mesi è morto lasciandomi la patata bollente in mano.
Così ho fatto il presidente per 6 anni e nel 2001 ero anche presidente della Commissione di alpinismo del TER, Istruttore della SIA (la Scuola interregionale di alpinismo), Consigliere Centrale del Cai, Segretario della Scuola di alpinismo “Bruno Dodi”.


 

Lucio in apertura su "Via del Tetto" al Dente delle Ali Appennino piacentino (anni '70)

Lucio Calderone al massimo punto raggiunto (6200m) nella spedizione al Devistan3, nel 1981

 

Gli chiedo cosa gli hanno lasciato le esperienze di queste importanti cariche sociali.


Come presidente di Sezione ho potuto notare come troppa gente ami malignare senza conoscere le cose con esattezza e come molti parlino per sentito dire senza mai andare a verificare la veridicità delle fonti. Tuttavia devo dire che è stata una bella esperienza.
In quanto alla carica di Consigliere Centrale ci tengo a dire che è un ruolo che non ho cercato, né voluto, oltretutto per diventare Consigliere Centrale ho dovuto abbandonare la carica di presidente della Commissione TER (per incompatibilità non si possono cumulare due cariche), che era un compito che mi dava notevoli gratificazioni.


Lo dice e ci tiene a ribadirlo che lui le “cariche” non le ha cercate.
Del resto è abbastanza evidente che se è stato individuato, proposto ed eletto a quelle cariche vuol dire implicitamente che è stato sempre stimato ed apprezzato per la sua serietà e l’impegno nell’attività a favore dell’associazione.


Posso dire che l’unica cosa che ho cercato veramente di fare è stato l’INA (Istruttore Nazionale di Alpinismo) ed è stata pure l’unica nella quale non sono riuscito.

 

Lo dice come fosse una battuta, ma per noi è semplicemente la conferma che il riferimento della sua attività nell’ambito del Club Alpino Italiano è sempre stata la passione, non certo l’ambizione.

Questo è ciò che ne fa un personaggio autentico e, per concludere là dove avevamo iniziato, quello che gli conferisce quell’aura di “galantuomo”, benvoluto e stimato da tutti.


A cura di Gabriele Villa
Ferrara, luglio 2008