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Incontro con Giuseppe (Beppe) Scuccimarra

a cura di Gabriele Villa 

Tutto nasce da una foto, un’immagine scattata dopo una scalata, in cima al Campanil Basso di Brenta.
Vi si vede a sinistra un giovanissimo e quasi irriconoscibile Cesare Maestri e lui, Beppe Scuccimarra, altrettanto giovane ed altrettanto irriconoscibile, in mezzo ad altri due compagni di scalata. 
Sul retro c'è pure una dedica firmata dallo stesso Cesare Maestri e datata 1 dicembre 2000.
Da quell’immagine che risale alla metà degli anni ’50, scaturisce la voglia di saperne di più, sia della persona che di quell’alpinismo di mezzo secolo fa, quando ancora scalare le montagne era certamente, se non eroico, quantomeno avventuroso.
Una specie d’intervista, più volte annunciata e sempre rimandata e, alla fine, concordata dopo un incontro casuale al supermercato e sancita da un semplice: “
Vieni in bottega da Chicco e mi fai tutte le interviste che vuoi”.
Ed è proprio lì, nel laboratorio da orafo del figlio Michele (detto Chicco) che nasce questa chiacchierata “al buio”, con la sola semplice motivazione di soddisfare una curiosità istintiva e la piacevole sensazione che ne scaturirà qualcosa di interessante.
Dietro ad un paravento che crea quella parvenza di ufficio dove “Scucci padre” lavora dando una mano al figlio, mi siedo, con carta e penna biro alla mano, e comincio a fare le mie domande per quell’intervista che vi proponiamo nella sua spontanea semplicità, così com’è nata.  

“Per prima cosa devo fare la tua scheda, Beppe… per presentarti ai lettori di Intraigiarùn. Classe?”

“1932”  

“Nato a …”

"Imperia, ma ci ho abitato solo tre anni, poi la famiglia si è trasferita a Bisceglie in Puglia, quindi a Napoli, successivamente a Bologna (dal 1941 al 1960) e infine sono finito a Ferrara".

“Ti senti quindi bolognese di adozione, o sbaglio?”

“Fondamentalmente mi sento un terrone, trapiantato, ma terrone”. E lo dice ridendo di gusto.

“Che attività sportive facevi o hai fatto da ragazzo?”

“Quando ero a Bologna andavo in bicicletta…” 

Interviene il figlio Michele: “Si, ma dilla tutta, che andavi con una bici da donna e facevi anche 120 chilometri al giorno” 

“Beh, sì – se la ride Beppe – Non c’era mica altro a quei tempi… Poi ho iniziato a sciare con il Cai di Bologna di cui mi ero fatto socio; andavamo al Corno alle Scale e frequentavo le gite estive che si facevano con il pullman”. 

Incalza ancora Chicco: “Si, ma al Corno ci andava quando non c’erano ancora gli impianti; salivano con gli sci in spalla e facevano una sola discesa e poi a casa perché la giornata era oramai spesa”. 

Beppe sorride divertito e conferma, forse senza rendersi conto che, in tempi di seggiovie carenate e di cabinovie a sganciamento automatico in cui già lo skilift è attrezzo preistorico, pensare di salire una montagna con gli sci in spalla per fare un’unica discesa appare agli sciatori di oggi pura fantascienza. Solo gli sci alpinisti potrebbero capire, e pur sempre avendo il vantaggio di salire con le pelli di foca sotto agli sci. 

“Avevo gli scarponi che imbarcavano acqua ed ero vestito da soldato. Erano tempi grami e si faceva quello che si poteva. e continua – Una volta mi vennero a prendere a casa per farmi partecipare ad una gara di sci di fondo perché si erano accorti che una persona in più avrebbe fatto vincere la coppa del gruppo più numeroso. 
Io avevo solo gli sci da discesa, ma loro mi dissero di non preoccuparmi e di pensare solo ad arrivare al traguardo. Dopo quei primi anni ho iniziato a lavorare e le cose pian piano sono migliorate”.
 

“Come ti sei avvicinato all’arrampicata?” 

“Mi portarono ai Gessi ad arrampicare, a Rastignano. Si tratta di una vecchia cava di gesso che presenta 8/10 metri di parete verticale con piccole prese e molto impegnativa, tanto che, la prima volta, con gli scarponi non riuscii a salire. Riuscii a farcela solo scalzo, dopo essermi tolto gli scarponi.  
Siccome mi piacque presi ad andarci tutti i giorni; allora lavoravo allo IACP ed il mio orario terminava alle 14, per cui prendevo la bicicletta e andavo, con un amico o con la “morosa” o anche da solo. 
Quando ero solo salivo slegato là dove ne ero capace. Era il 1953 ed io mi allenai tutto l’inverno e la primavera, poi, l’estate andai al Vajolet con il mio compagno d’allenamento. Lui era uno che non aveva problemi a salire, ma solo come secondo, per cui ero io che facevo il primo. Abbiamo fatto tutte le Torri, il Catinaccio e Punta Emma”. 

“Come eravate attrezzati a quei tempi?” 

“Ci si legava la corda in cintura perché ancora non c’erano imbragature, si faceva la sicura a spalla, sapevi di non trovare chiodi, ma si andava. Allora, fino al 4°+, non c’erano chiodi, neanche di sosta, c’erano quelli di calata e basta; ricordo di averne trovato solo uno sul passo di 4°+ della Torre Delago. Si faceva sicurezza a spalla e senza auto assicurazione. Ti mettevi su una cengia o dentro ad una nicchia, cercando la posizione più sicura per poter trattenere un eventuale volo. Ricordo la parete del Pissadù: andavamo là perché il rifugio Cavazza è del Cai di Bologna e su quella parete che sta sopra al rifugio non c’erano chiodi. Si andava con il treno e la corriera perché non c’era altro, per cui l’attività era molto limitata, mica come oggi che con l'auto si va e si torna in giornata”. 

Parla di getto, Beppe, e l’entusiasmo gli si legge ancora negli occhi ed è stampato sul suo sorriso. 

“L’inizio delle vacanze era così: minimo in due ma a volte anche quattro o cinque, si partiva da Bologna alle 5 del mattino con il treno fino a Ora, si prendeva il trenino della Val di Fiemme (era a carbone ed a scartamento ridotto), si proseguiva in corriera fino a Vigo di Fassa. Si saliva in seggiovia a Gardeccia e da lì si faceva una scarpinata fino al Vajolet e si andava dalla sorella di Tita Piaz. Lì mi mettevano nella dependance perché russavo troppo e non mi volevano in camerata. A quel punto era pomeriggio, gli altri andavano a letto a riposare ed io, da solo, salivo a Punta Emma. - Fa un sorrisino compiaciuto e aggiunge – io non ero stanco, avevo il fisico…”  

“Come sei finito sul Campanil Basso di Brenta con Cesare Maestri?” 

“Nel 1956 il mio secondo era militare per cui ho pensato di andare a frequentare il corso roccia con la Scuola Graffer. Nel 1957 mi sono sposato ed ho smesso di arrampicare e una volta trasferito a Ferrara sono diventato un “barcaiolo”. Qui non c’era molto e poi badavo soprattutto alla famiglia ed avevo due bambini. 
Quando Chicco è diventato grandino
– continua Beppe inseguendo i suoi ricordi – l’ho portato a Badolo e poi siamo andati a Teolo. Lì lui ha fatto tutto quello che c’era da fare ed ha messo insieme un pò di capacità ed un minimo d’esperienza. Infine siamo andati al Vajolet ed ho fatto da secondo a lui che aveva 17 anni: era il 1983. Esattamente trent’anni dopo la mia prima scalata”. 

Interviene Chicco, interrompendo per un momento il suo lavoro.

“Me lo ricordo bene. Dopo due anni di esperienze fra Badolo e Teolo siamo andati in montagna. Ricordo che abbiamo dormito in auto al campeggio di Pera di Fassa; eravamo io, lui e Daniele, il marito di mia sorella. Siamo arrivati all’attacco della Torre Delago e ci siamo guardati, poi io gli ho chiesto <allora?> e lui mi ha detto <vai!>. 
Avevamo un casco in tre, l’ho messo io e sono andato: ho iniziato così, subito da capocordata”. 

Poi è ancora Beppe che riprende il discorso.

“Ricordo anche che arrivato all’attacco dello spigolo Delago non riconobbi il terrazzino. In effetti, non c’era più e successivamente mi dissero che era crollato proprio mentre due persone c’erano sopra e si stavano preparando per la scalata. Precipitarono sul versante che guarda Bolzano con una caduta di oltre 600 metri. Impressionante”. 

Riportiamo il discorso su quella foto in vetta al Campanil Basso assieme a Cesare Maestri.

“Maestri quell’anno era il direttore della Scuola Graffer. Oltre a lui mi ricordo di Milo Navasa e di altri due istruttori, uno era del posto, l’altro era un fiorentino, ma non ne ricordo i nomi. 
In quattro gestivano venti allievi ed io ho fatto sempre da capocordata”.
 

Non nascondo una certa sorpresa: “Se eri allievo, come mai facesti sempre il capocordata?” 

“Quando arrivammo ci fecero scrivere la nostra attività personale. 
Ricordo che Maestri mi chiese con chi avessi

 fatto l’attività e quando seppe che era tutta da capocordata mi propose di farlo anche alle uscite del corso. Ovviamente prima verificò sul campo le mie reali capacità arrampicatorie ed evidentemente gli offrirono le garanzie sufficienti. Arrampicai sempre con due ragazze. Eravamo di stanza al rifugio Agostini e ci siamo stati una settimana.
L’uscita di fine corso la facemmo divisi in due gruppi, quelli più bravi al Campanil Basso con Cesare Maestri, un altro istruttore e quattro allievi (poi uno ha mollato); gli altri andarono alla normale al Campanil Alto, con Milo Navasa. Salimmo per la via normale e quando fummo in cima cominciarono ad arrivare segnali di cattivo tempo. 
Fu lì che Maestri mi affidò l’incarico di far scendere gli altri due allievi con le corde doppie e sempre assicurati, perché ovviamente non voleva rischiare <
rogne>”.
 

“Ti affidarono una bella responsabilità”. 

“Devi tenere conto del fatto che eravamo a fine corso e oramai mi conoscevano bene. C’era una grande fiducia e, del resto, io fui molto scrupoloso nel rispettare le consegne di Cesare Maestri. Lui e l’altro scesero slegati, arrampicando lungo la via normale e, ti assicuro, fu uno spettacolo incredibile vederli. Correvano al Campanil Alto a dar man forte a Navasa che aveva il gruppo più numeroso da controllare. Maestri lo ricordo molto giovane, quadrato ed enorme, con una forza fuori dall’ordinario. Lo vedevi arrampicare e ti dava proprio l’impressione della forza esplosiva. Milo Navasa dava meno quest’impressione: era più alto di Maestri e più longilineo”.  

Facesti il corso di roccia quell’anno, ma in pratica tu smettesti di arrampicare di lì a poco. 

“Come ti ho detto mi sono sposato nel 1957, l’anno successivo a quello del corso, ed ho smesso di arrampicare. 
Tieni conto che poi, nel 1963, ho cominciato ad andare in barca a vela.”
 

Hai ripreso ad arrampicare giusto trent’anni dopo, nel 1983. Volevi avviare il tuo figliolo alla montagna? 

“No, no – ci tiene a precisare Beppe – fu lui a chiedermelo”. 

Interviene Chicco che era rimasto in silenzio ad ascoltare il padre nel suo racconto:
“Un giorno ho visto le sue foto di arrampicata ed ho pensato che volevo provare anch’io”. 

“Era capitato di andare in montagna – riprende Beppe Scuccimarra – e di trovare dei roccioni nel bosco o lungo il sentiero che stavamo percorrendo. Allora io gli dicevo “vai” e lui saliva senza porsi tanti problemi: quello gli ha dato l’imput per arrampicare senza chiodi. Quando mi chiese di portarlo andammo a Badolo ed io gli feci sicura con una corda da barca, era un cordone a tre trefoli del diametro di 12 millimetri. 
Non c’era molta grana, allora, e noi per risparmiare si faceva con quello che avevamo”.
 

Se la ride anche Chicco, ricordando quei tempi. 
“Per farmi il primo imbrago comprai un cintino, l’ho imbastito e me lo sono cucito con il filo per cucire le vele. 
Lui da secondo andava con una cintura pettorale che si usa per andare sull’albero della barca o quando c’è burrasca. Il secondo imbrago me lo sono fatto in casa usando le cinture di sicurezza della Fiat 128 e me lo sono fatto cucire dalla Selleria Sandri.” 

“Dopo quella prima esperienza a Badolo siamo andati ai Gessi, a Bismantova e più avanti a Teolo. – riprende a ricordare Beppe – A Rocca Pendice ho fatto tutte le classiche della parete Est, tranne la Dorna. 
In montagna, invece, abbiamo fatto poco: lo spigolo Delago, la normale alla Torre Stabeler e quella della Grande delle 5 Torri, poi lui fece il primo tiro della Miriam, ma io non salii. 
Oramai è qualche anno che non arrampico, mi accontento di fare le mie traversate in barca, d’estate, con mia moglie e spero di continuare ad avere ancora la forza e la voglia per continuare a farlo”.
   

Lo dice con la serenità di chi ha sostituito una passione giovanile con un’altra, altrettanto forte ed appagante, come quella della barca a vela, ugualmente ricca d’avventura e di spazi aperti.  
E dell’arrampicata che cosa è rimasto?
I ricordi che ci ha raccontato? Certamente.  
L’orgoglio di un figlio che segue le sue tracce, anche là dove non ci sono chiodi? Indubbio.  
E forse anche il piacere di rimanere in un qualche modo legato, pur se in maniera labile ma concreta, al mondo dell’arrampicata, facendo da “Segretario amministrativo” nell’associazione sportiva “Il Monodito” che gestisce a Ferrara una palestra di arrampicata sportiva indoor. Là lo si può trovare, indaffarato a rilasciare ricevute ed a distribuire tessere d'ingresso magnetiche.



Gabriele Villa  

Ferrara, martedì 20 febbraio 2007