a "L'esperienza inglese di Renato Casarotto"

“I xe superiori! Qui bisogna imparar de novo a rampegàr”

di Eugenio Cipriani


“I xe superiori! Qui bisogna imparar de novo a rampegàr”
L’esperienza inglese di Renato Casarotto alla luce dei suoi successivi capolavori alpinistici.

Se si scorre l’elenco telefonico alla voce Arcugnano balza subito all’occhio la prevalenza di due cognomi sugli altri: Casarotto e Bedin. Chi conosce bene le Dolomiti collegherà immediatamente i due cognomi ad un luogo ben preciso: le Pale di San Lucano. All’escursionista verrà in mente il bivacco “Margherita Bedin”, realizzato nel 1975 dal Gruppo Alpinistico Vicentino in cima alla Prima Pala di San Lucano. Il pensiero di un alpinista, invece, correrà alle verticali pareti dello Spiz di Lagunaz ed allo spettacolare diedro sudoccidentale, scalato da Renato Casarotto e Piero Radin dal 7 all’11 giugno del 1975. Una salita che rappresenta una tappa fondamentale nella carriera alpinistica di Casarotto e nella storia dell’arrampicata in Dolomiti.

Ma a questi elementi se ne può aggiungere un altro: il Galles.
Che di primo acchito sembrerebbe non avere nulla a che vedere con le Pale di San Lucano. E invece c’entra, eccome!
La ripubblicazione del libro "Una vita tra le montagne” di Goretta Traverso Casarotto, moglie di Renato Casarotto, presentato recentemente a Vicenza, offre lo spunto per approfondire alcuni aspetti dell’eccezionale attività del grande alpinista di Arcugnano.
Tra questi, appunto, l’esperienza britannica, avvenuta poco prima di realizzare il suo capolavoro dolomitico.
Due mesi prima, infatti, in aprile, un gruppo di istruttori nazionali del Club Alpino Italiano venne invitato dal British Mountaineering Council (B.M.C.) nel Centro di Alpinismo di Plas y Brenin, nel nord-ovest del Galles.
Del gruppo facevano parte, oltre a Casarotto, alpinisti del calibro di Sergio Martini, Roberto Chiappa, Toni Gnoato, Carlo Zonta ed altri. Coordinatore del gruppo era Franco Alletto di Roma, accompagnato dal giornalista ed a sua volta alpinista, Gianni Battimelli. Fu quest’ultimo a raccontare la memorabile esperienza sullo speciale “Momenti di alpinismo” della “Rivista della Montagna”, pubblicato però molti anni dopo, nel 1987.

Per il B.M.C. scopo dell’incontro era far conoscere agli italiani le nuove tecniche di arrampicata che nella zona adiacenti il Centro avevano trovato la loro più alta espressione. Plas y Brenin è a poche miglia da luoghi-culto dei climbers inglesi come il LLanberry Pass nello Snowdown, Tremadog e le scogliere di Goghart.
A far da ciceroni ai nostri, gli inglesi avevano schierato il fior fiore degli scalatori nazionali.
Basti dire che fra loro c’erano personaggi già leggendari come Pete Livesey, Pete Boardman, Joe Tasker e la fortissima Jill Lawrence. Per gli italiani, almeno inizialmente, fu una Caporetto.
Anche Casarotto sbatté il muso contro l’indiscutibile superiorità tecnica degli anglosassoni tanto da pronunziare, come scrisse Gianni Battimelli, la celebre frase: “I xe superiori. Qui bisogna imparar de novo a rampegàr!
Parole che, dette da chi da pochi mesi si era aggiudicato le prime solitarie invernali della Simon-Rossi alla nord del Pelmo e della Andrich-Faè alla nord-ovest del Civetta, la dicono lunga sul trauma subito nel vedere gli inglesi salire come scoiattoli su pareti certamente brevi e quindi non paragonabili alle Dolomiti, ma molto più difficili e del tutto prive di chiodi. Perché il problema, al di là dello stile di arrampicata, era questo: gli inglesi sulle difficoltà estreme non “si tiravano su” afferrandosi ai chiodi come invece era abitudine fare sulle Alpi, ma salivano in completa arrampicata libera. Né avrebbero potuto fare altrimenti, perché la ferraglia su quelle pareti era tabù. E continua ad esserlo. A “tenere alta la bandiera italiana” (la frase è ripresa dal racconto di Battimelli) manco a dirlo fu Casarotto. Superato lo stupore iniziale, l’alpinista vicentino passò al contrattacco. Mise da parte gli scarponi rigidi, si comprò le scarpette a suola liscia (le celebri EB) ed affrontò da capocordata vie HVS e EVS, cioè “hard very severe” ed “extremely very severe”. Vie toste e tostissime, insomma. E fece onore al tricolore!
In altre parole seppe tradurre una iniziale sconfitta in rivincita. Altrettanto accadrà diversi anni dopo, quando il fallimento sulla “Magic line” del K2 e l’infelice collaborazione con Messner lo spingeranno a tornare su quello stesso itinerario, ma da solo. E ce l’avrebbe fatta, a dispetto delle opinioni di Messner e del maltempo, se solo la più nera malasorte non ci avesse messo lo zampino.

Ma torniamo a quel 1975. Rientrato in Italia Casarotto decise di trasferire le nuove conoscenze ed il nuovo entusiasmo maturati nella “perfida Albione” sulle montagne di casa.
E fece le cose in grande, come era nel suo stile. Scelse una parete selvaggia, altissima e repulsiva e la trovò nelle Pale di San Lucano.
Volle con sé un compagno all’altezza dell’impresa e lo trovò in Piero Radin.
Cercò una linea di salita ideale, logica, ineccepibile e la trovo nel gran diedro sud-ovest dello Spiz di Lagunaz.
Il risultato fu un capolavoro che ancora oggi, a quasi quarant’anni di distanza, è una delle mete più ambite e temuti dai dolomitisti. Non c’è dubbio: Casarotto in Galles aveva “imparato de novo a rampegàr”.

“Settimo grado in vetrina”.
Gli exploits di Casarotto ed il capolavoro di diplomazia di Gianni Pieropan


La via per il riconoscimento ufficiale del settimo grado e dell’apertura verso l’alto della scala delle difficoltà fu lunga e difficile, soprattutto da noi, nel nord-est. I primi a parlare sulle Alpi ufficialmente di settimo grado furono i tedeschi. Nel 1977 il fuoriclasse svevo Reinhard Karl assieme ad Helmut Kiene sale nel Wilder Kaiser le “Pumprisse”, micidiali fessure che solcano la parete est del Fleischbank. Ha il coraggio di dichiararle settimo grado.
La valutazione in seguito non verrà contestata, anzi. E’ la svolta verso l'alto per la scala UIAA delle difficoltà.
Nello stesso periodo anche Casarotto si azzarda a parlare di settimo grado (6b- scala francese).
Scrive di aver superato sulle Pale di San Lucano durante una nuova ascensione con Bruno De Donà un diedro che presenta un tratto lungo poco meno di dieci metri valutabile di settimo grado.
Invia la nota tecnica alla rivista “Le Alpi Venete”, ma la redazione gli suggerisce di essere cauto nei giudizi e non pubblica nulla per non suscitare scandalo e polemiche in seno all’ambiente alpinistico veneto.
Casarotto non molla, anche perché il suo livello tecnico continua a crescere.
E’ già proiettato verso l’alpinismo extraeuropeo ma non trascura certo le Dolomiti.
Fra il 15 ed il 20 agosto del 1981 con l’allora giovanissimo arrampicatore cadorino Maurizio (detto “Icio”) Dall’Omo realizza tre itinerari su altrettante pareti nel gruppo dell’Antelao: Cima Cariatide, Monte Ciaudierona e I Becett.
Di nuovo supera difficoltà di settimo grado. E di nuova spedisce le relazioni alle Alpi Venete.
Ormai Casarotto è una star internazionale ed il direttore della rivista, Gianni Pieropan, non può imboscare la notizia per amor del quieto vivere. Inoltre stima Casarotto. Intelligente, preparato e scrupoloso, Pieropan è però uno che, in campo alpinistico, di fronte alle novità ed ai facili entusiasmi si muove con i piedi di piombo.
Decide alla fine di rompere gli indugi e pubblica le relazioni anteponendo però ad esse una lunga presentazione che è un capolavoro di diplomazia. Arrampicandosi sugli specchi, Pieropan riesce in un settimo grado giornalistico che lo mette al riparo da eventuali critiche dei tradizionalisti ad oltranza lasciando aperto il campo al confronto ed al dialogo. Con classe ed eleganza, dopo averla mostrata a tutti, restituisce la patata bollente a Casarotto, giustamente confidando nella “solidità di spalle” dello scalatore arcugnanese.
La mossa si rivelerà perfetta e non seguiranno critiche. Cosa rara nel nord-est. E’ una pagina, quella n° 85 del semestre Estate-autunno 1982 delle Alpi Venete, che merita assolutamente di essere letta.

Plas y Brenin venti anni dopo.
Il ricordo di Casarotto ancora vivo nella memoria dei locals.


Verso la metà degli anni ’90 a mi capitò di vivere la medesima esperienza britannica vissuta da Casarotto.
Per meriti giornalistici e non certo alpinistici venni invitato dal B.M.C. a Plas y Brenin per un meeting di arrampicata. Anche in questo caso gli inglesi volevano, attraverso la testimonianza di giornalisti provenienti da diverse parti del mondo, diffondere il verbo del “clean climbing”, cioè dell’arrampicata libera senza l’uso di protezioni fisse.
Questo in realtà lo scoprii una volta messo piede in Galles. Per fortuna! Se l’avessi saputo prima, forse per timore non avrei partecipato e mi sarei perso un’esperienza alpinisticamente traumatizzante, questo è certo, ma nuova, diversa, formativa.
E tutto sommato pure divertente. Rispetto a Casarotto ero più preparato psicologicamente, non foss’altro perché avevo già letto il racconto di Gianni Battimelli ed alcuni interessanti articoli sui climbers inglesi scritti da Franco Perlotto.
Ad attendere il gruppo più eterogeneo di scalatori di cui avessi mai fatto parte ci fu, anche in quel caso come nel ’75, la crema del mondo dell’arrampicata inglese. Mancavano purtroppo Pete Boardman e Joe Tasker, morti nel 1982 sull’Everest e così pure Pete Livesey, da tempo lontano dalle pareti. Al loro posto c’erano i nuovi campioni dell’arrampicata, più orientati verso le “short walls” che verso l’alpinismo. Ma c’erano anche molti esponenti della vecchia guardia che ricordavano quell’italiano che vent’anni prima si era legato alla loro corda con ai piedi un paio di EB comprate nel negozio di Joe Brown.
Per me fu un privilegio toccare quegli appigli, sul Cenotaph Corner a LLanberry Pass, sui pungenti quarzi dello Snowdown e sulle impressionanti scogliere di Goghart, dove aveva appoggiato i suoi polpastrelli Renato Casarotto.


Nota della redazione. Il commento è apparso, come articolo, sul Giornale di Vicenza ed è pubblicato per gentile concessione della Redazione dello stesso giornale e dell'autore Eugenio Cipriani.