a "Misurazione e valutazione della performance del CAI"
di Alessandro Gogna
Ho avuto tempo di leggermi le quarantatre pagine del
documento (comprensivo di tabelle e modulistica) che stabilisce il
Sistema della misurazione e valutazione delle performance del CAI.
Non deve essere stata cosa breve, né per l’ottima redattrice Cristina
Reposi, OIV (Organo Indipendente di Valutazione) del CAI, che ci ha
lavorato da settembre a dicembre 2015, né per il CDC (Comitato Direttivo
Centrale) del CAI, che lo ha approvato con delibera il 18 dicembre 2015.
Dopo la lettura si avverte la sensazione che ci sia il pericolo di
eccessiva burocratizzazione del Sodalizio.
Beninteso hanno dovuto occuparsene per legge, ma l’arido panorama in cui
ci si muove fa sospettare che lì sia in ballo davvero l’efficienza di
un’associazione.
Come può giovare, e soprattutto a chi, tutta questa sorveglianza?
Dove ci porterà quest’aziendalizzazione trapiantata nel più puro filone
burocratico italico?
Il sistema di misurazione e valutazione è un’americanata ormai diffusasi
a macchia d’olio un po’ in tutte le aziende italiane: e si tende vieppiù
a coinvolgere aggregati associativi di ogni genere.
Accade pure che siano tali stessi aggregati a volervisi inquadrare
(senza percepirne le conseguenze).
E’ ovvio che il CAI, in quanto ente pubblico, sia tenuto a provvedervi:
il guaio è che il modello finisce per essere di fatto imposto anche a
realtà ben più limitate (basti pensare alle Sezioni del CAI, che invece
sono soggetti privati).
Si parla molto del “virtuoso circolo della performance” senza
comprendere l’inapplicabilità di certe iniziative, come a esempio le
cosiddette “giornate della trasparenza” che il CAI centrale deve
organizzare e che pubblicizza sul suo sito come aperte a tutti i soci. A
queste giornate, al di là degli impiegati e funzionari del CAI centrale
stesso, non presenzia alcun socio.
In pratica: sono modelli pensati per grandi aziende, già applicati nel
settore dell’amministrazione della giustizia, della scuola (ex
pubblica), delle professioni, ecc., che danno lavoro e posizioni a tanti
(purtroppo qui opera una trasversalità svergognata) ma finiscono per
impicciare i piccoli oltre a quelli che vorrebbero stare senza regole
inutili.
Mi auguro che l’attuale presidente Vincenzo Torti non si lasci
invischiare più di tanto da questi meccanismi, secondo i quali “E’
indispensabile garantire la misurabilità degli obiettivi al fine di
garantirne la controllabilità, e ciò tramite l’individuazione di
indicatori che diano informazioni sul grado di realizzazione
dell’obiettivo stesso.
La definizione degli obiettivi e l’individuazione degli indicatori non
possono essere considerati come azioni separate tra loro. Se ad un
obiettivo non è associabile un indicatore adeguato, è necessario
procedere alla riformulazione dell’obiettivo stesso.
I valori rilevati dagli indicatori si trasformano in informazioni utili
sulla Performance solo se essa viene messa a confronto con il valore
della performance attesa [1].
Il confronto tra risultati conseguiti e valore target permette di
stabilire il grado di raggiungimento dell’obiettivo.
NOTA [1]: La Performance attesa può alternativamente essere
rappresentata da un valore minimo oltre il quale non scendere; un valore
costante da mantenere nel tempo; un valore target che implica un
miglioramento rispetto alla performance consolidata”.
Chi fosse interessato ad avere ulteriori dettagli può consultare la
Relazione annuale 2016 sul funzionamento complessivo del sistema 2015 di
valutazione, trasparenza e integrità dei controlli interni del CLUB
ALPINO ITALIANO – CAI, sempre a firma di Cristina Reposi.
Chi invece non fosse interessato, e certamente stiamo parlando dei più,
può leggersi la reazione a caldo di un altro attento lettore, riportata
più sotto
[Tratto da GognaBlog del 23 dicembre 2016]
Alcuni commenti arrivati al GognaBlog, scelti dalla redazione di intraigiarùn
Stefano Michelazzi ha commentato
Indubbiamente la lingua italiana è per propria specificità, estremamente
esplicativa (una frase di venti parole in lingua italiana può essere
tradotta con cinque in inglese, dodici in tedesco, undici in francese e
così via…) e quindi nulla viene tralasciato. Può essere questo un grande
vantaggio, sia in termini di musicalità sia in termini di comprensione,
ma come credo tutti ormai ben sappiamo, il coltello dalla parte del
manico si utilizza senza conseguenze, dalla parte della lama invece…
Mescolando poi, italiano e inglese (quanto sono belli questi termini
tipo stakeholder…!) e mescolando pure ciò che sono gli obiettivi di
un’istituzione nata (come giustamente viene fatto notare nelle prime
righe) per la divulgazione e la valorizzazione dell’ambiente montano con
scopi passionali e non di lucro con ciò che riguarda invece le
conseguenze di un accrescimento evolutivo piuttosto naturale, e la
necessaria regolamentazione contrattuale dei dipendenti (obbligatorio
avere dei dipendenti a tempo pieno per un ente così massiccio) se ne
ottiene un pot-pourri nel quale riuscire a galleggiare, se non si
conoscono le diverse concettualità, diventa una “lotta per la vita”…
Aldilà degli aspetti sindacali sui quali avrei diverse cose da ridire
(sono stato per moltissimi anni dirigente sindacale “da trincea” sempre
in prima linea) ma che sono stati ratificati da sigle ufficiali e quindi
sarebbe o sarà, interesse dei dipendenti stessi, avallare o contestare i
termini contrattuali, si evince da questo documento che il CAI, se non
si fosse ancora capito, ha deviato da quella strada originaria di
associazione passionale e ha intrapreso un corso da società di capitali
(che nega ovviamente nella prefazione ma ratifica nelle quarantadue
pagine seguenti) trattando i suoi obiettivi (ma qualcuno potrebbe
obiettare che “target” faccia più figo… !) come “prodotto”, “servizio”
(e già qui non ci siamo… o l’uno o l’altro… a meno che la politica
economica non la cambi il club alpino che dovrebbe
essere ancora
inserito in quella antica e ahimè abbandonata, almeno in parte,
categoria di ente morale…) e i suoi risultati come “soddisfazioni” del
solito “stakeholder” (in economia con il termine “stakeholder” o italicamente “portatore di interesse”, si indica genericamente un
soggetto o un gruppo di soggetti, influente nei confronti di
un’iniziativa economica, che sia un’Azienda o un progetto).
Se un qualunque iscritto al CAI si legge ‘sto pippone … altro che tempo
di andare in montagna (alla faccia della semplificazione in ambito
pubblico per la quale siamo stati così intelligenti da creare pure un
ministero…)!
Si intuisce pertanto come mai gli ultimi presidenti dell’Alpine Club
inglese siano stati forti alpinisti, accreditati a livello
internazionale, mentre da noi la presidenza sia stata in mano a persone
ben differenti.
Il grosso del problema però, a mio avviso, sta nel fatto che senza
accorgercene, o quasi, stiamo accreditando (fare la tessera dà al CAI
modo di esistere) una realtà parallela incontrollabile (una scorsa ai
vari articoli di legge in apertura del testo e si capisce bene…) che
allo stato attuale non sappiamo dove approderà ma sicuramente non sulla
riva alla quale la maggior parte dei soci anela.
Roberto Galdini ha commentato
Lavorando in una multinazionale americana conosco bene benefici, rischi
e biechi trucchi legati ai sistemi di misurazione della prestazione e la
triste vacuità dei contenuti delle analisi consulenziali, o assessment
per chi tristemente ha perso la conoscenza della nostra lingua e non
riesce nemmeno a tradurre la parola “target”.
Anzi penso che proprio in questo abuso di terminologia inglese con la
sua presunzione di elevata tecnicità del metodo si sveli il trucco di
coprire l’ovvietà dall’analisi superficiale con l’approccio da “best
practice”.
Che nulla dice rispetto al risaputo, antico difetto della consulenza da
strapazzo.
Perché il CAI cada ormai in questi vizi penso non sia mistero ormai per
molti: la scarsa qualità di molti organi centrali e periferici è ormai
una cifra diffusa e imperante che quasi sempre nemmeno riesce a
nascondersi dietro a tali tronfie banalità ma si presenta in tutta la
sua triste nuda realtà.
Quando all’entusiasmo organizzativo si sostituisce il carrierismo e
protagonismo individuale di persone spesso di basso profilo il risultato
è quello che abbiamo sotto gli occhi.
Niente sarebbe meglio per il futuro del CAI di una sana competizione con
un club alternativo e dinamico che costringa al risveglio l’associazione
dal suo torpore autoreferenziale.
Invece vedo che stancamente, sia livello centrale che in molti casi
anche sezionale, il nostro CAI si trascina stancamente verso un lento
declino.
Da Facebook, 24 dicembre 2016
Salvatore Bragantini ha commentato
Io invece la tessera la rinnovo ancora per me, mia moglie e i miei
figli; forse, più che altro, per affetto verso la
storia personale mia (il mio primo bollino, ormai introvabile, credo
risalga ad oltre 60anni fa, sezione di Pieve Tesino della Sat) e di
tanti altri. Devo però ammettere che fa impressione l’evidente
“aziendalizzazione” del CAI.
C’è tutto un settore economico che campa di
questo: compliance; internal audit; sistema dei controlli: fissazione
degli obiettivi di qualche entità, pubblica o privata, economica o
sociale; misurazione del grado di raggiungimento di tali obiettivi e
della soddisfazione degli “stakeholder” (Michelazzi docet). Questa
sbronza di aziendalese soddisfa magari chi vuole scuotersi di dosso
certe polverose pratiche del passato e “riscattare” la propria natura di
ente d’interesse pubblico. L’effetto, tuttavia, pare piuttosto quello
del perpetuarsi di alcune prassi deteriori del pubblico, più burocratese
che aziendalese: forse, semplicemente, buro-aziendalese. Giustamente il
buon Michelazzi (che non avrei mai voluto aver davanti come controparte
sindacale…) lamenta che nel Regno Unito i presidenti sono spesso forti
alpinisti, mentre da noi dopo Chabod non se ne sono visti troppi. Ora
però speriamo che Torti, la “scopa nuova”, ridia alfine l’anima al
nostro vecchio CAI. Sarò un illuso, invece ci spero, anche perché
piangerci addosso ci piace un po’ troppo, e questo non è segno di una
società vitale…
Silvo ha commentato
In fondo le alternative sono già in atto soprattutto nel mondo
dell’arrampicata o del free Climbing, basta girare un attimo in rete e
trovi tanti gruppi che frequentano la montagna indipendentemente ed al
di fuori del CAI.
Conosco ragazzi che fanno parte del Soccorso, arrampicano ma non
frequentano assolutamente la Sezione.
La maggior parte dei Climbers che incontro nelle falesie non sanno
neanche il significato di CAI…
(forse…. Consorzio Agrario Interpoderale?)
Paolo Panzeri ha commentato
Mi spiego un po’.
Mi piaceva andare in montagna e nel ’71 mi iscrissi al CAI.
Nel '79 mi han fatto accademico, nell’80 segretario della commissione
extraeuropea (quando c’era), soccorritore, consigliere, INA e direttore
di una scuola.
Ora mi piace sempre andare in montagna, ma vedo che nel CAI non
interessa, le Scuole insegnano solo tecniche, l’accademico, (sono un
vicepresidente), è stato riempito di raccomandati, di pataccari e
fanfaroni, (sono stato censurato per averne smascherato qualcuno), che
poco hanno scalato di impegnativo se non da secondi o ripetendo roba
antica che ripeto a sessant'anni anni portando mio figlio.
Poi si parla di tutto tranne che di alpinismo che a me piace. Mi tolgo
dal CAI, non è il club per me, tornerò a pensare solo ad andare in
montagna con quelli che amano farlo.