Abeti rossi, pini mughi, larici, scandole, un prosciutto e altre storie
Diario flash di un'escursione per conoscere il bosco della bassa Val Zoldana
di Gabriele Villa
Poteva sembrare una domenica come tante altre, almeno nella sveglia (alle
04:55, perchè a volte anche cinque minuti fanno la differenza) e invece
no, è stata diversa, come tutte le giornate che ti regalano sensazioni
inaspettate, momenti la cui intensità non percepisci subito, ma che ti
cresce dentro con il piacere del ricordo.
Alle sei il pullman parte puntuale, con due autisti a bordo, perchè la
giornata sarà lunga, oltre le quindici ore di lavoro consentite ad un
autista nel corso di un singolo giorno, e non farà soste se non al
raggiungimento della meta, cioè Forno di Zoldo. La notizia per fortuna
non spaventa i determinati allievi del Corso "Boschi e Alberi".
La logistica è stata studiata nei dettagli per ridurre al minimo le
perdite di tempo, infatti, manca un pelo che perdo il primo turno di
pulmini che ci porteranno a Forcella Cibiana, da dove la nostra
escursione didattica avrà inizio, riuscendo a saltare al volo
sull'ultimo posto rimasto disponibile, dell'ultimo dei tre pulmini a
disposizione.
Sono le 08:57 quando scatto la prima foto girando la fotocamera all'indietro e il volto sorridente di Lidia esprime bene le aspettative per la giornata che ci attende. Un quarto d'ora dopo siamo al bar del Passo Cibiana; finalmente si fa colazione e la pausa in bagno, e non si sa quale dei due momenti risulti il più gradito.
Alle 10:00 il gruppo ricompattato è pronto ad iniziare l'escursione, dopo
duecento metri la prima sosta didattica e la presentazione al gruppo di
Pompeo de Pellegrin, estroso falegname/artista di Fornesighe, nostro
contatto sul posto: è lui che ci ha accompagnato nella ricognizione di
preparazione all'uscita circa un mese prima.
Oggi compirà l'escursione con noi, ma ha già organizzato una "sorpresa"
che ci attende nel pomeriggio.
Il mio compito in questa escursione sarà quello di "fare il passo",
soprattutto nella prima parte che da Forcella Cibiana ci porterà al Pian
d'Angiàs superando un dislivello di circa 350 metri, tratto in cui
abbiamo fissato una sola sosta didattica in modo da puntare sulla
regolarità per far prendere il ritmo ai nostri allievi.
Questo è un Corso "Boschi e Alberi" e parecchi sono neo iscritti al CAI e
non abituati a lunghe camminate, e nemmeno a grandi dislivelli; tuttavia
le nostre preoccupazioni già si erano attenuate al momento dell'appello,
una volta notate due o tre assenze di qualcuno che probabilmente, già da
solo, aveva capito di non avere allenamento e capacità di tenuta sulle
lunghezze e i dislivelli della nostra escursione.
Durante la salita mi scappa di brontolare per il fitto chiacchierare che
fanno quasi tutti, uno po' come se fossimo a "fare una vasca in piazza"
e non un'escursione che ci terrà impegnati per quasi tutta la
giornata.
Effetto ottenuto? Più o meno come parlare agli abeti rossi che stanno ai
lati del sentiero.
Questo è un Corso "Boschi e Alberi", per cui la prendo persa e mi
accontento di prendere atto del buon umore complessivo che caratterizza
la comitiva.
Comunque, eccoci, due minuti prima di mezzogiorno, aver superato tutto il
dislivello di giornata e arrivare sulla cresta nei pressi di resti di
costruzioni militari risalenti alla Prima Guerra Mondiale, al cospetto
del Pelmo che ci sta di fronte con un cappello di nuvole appoggiato
sulla testa.
Siamo in leggero anticipo sulla tabella e il morale è alto anche perchè
la pioggia pare volerci risparmiare.
La più fiduciosa è Valeria perchè "non pioverà oggi - dice
fissando un grosso formicaio - e io so dirvi il perchè."
Ci avviciniamo curiosi per scoprirne il segreto e lei ce lo spiega
prestamente: "Vedete i buchi nel formicaio? Sono tutti aperti perchè
le formiche sentono che non pioverà."
In effetti, gli operosi animaletti sono tutti infervorati e, in file
apparentemente disordinate, percorrono la montagnola di aghi in tutte le
direzioni, senza sosta e con percorsi a cui noi non riusciamo a dare
significato logico.
Ci affrettiamo per raggiungere gli altri, mentre si avvertono
microscopiche gocce, forse è solo umidità piuttosto che pioggia, ma è
sufficiente per attizzare una battuta: "Valeria, as sènt dil
gozz. Vag a dìr a il furmìg ad saràr il fnèstar che a tàca a piovar."
Si ride allegramente e chi ci vede, senza avere assistito alla scena, non riesce a
capire e forse ci prende per matti.
Sulla cresta ci guardiamo intorno e Pompeo elenca i nomi delle montagne
che fanno corona alla Val di Zoldo ed è un peccato che la visibilità non
sia ottimale; poi il giro deve riprendere come da programma.
Ritorniamo al sentiero principale dopo la divagazione e scendiamo al
Pian d'Angiàs alla ricerca del Larice che già avevamo notato nella
ricognizione di un mese prima come ideale per osservazioni sull'apparato
radicale e le spiegazioni sulle caratteristiche di questa pianta di
altura.
Giovanni, il nostro alberologo di fiducia, ne ha già individuato un
altro che si presta alla bisogna ma, trovato quello che avevamo
prescelto, chiamo il gruppo e mentre arrivano do un'estirpata alle erbe
e rimuovo i rametti perchè si possano osservare meglio le radici che
affondano nel terreno per sostenere la pianta.
Memore delle spiegazioni avute durante la ricognizione mi allontano per
poter fotografare il gruppo sotto il Larice, del quale Giovanni fa
notare la doppia curvatura del tronco, una specie di S, con la quale la
pianta è andata a compensare la prima curva verso valle per ritrovare il
proprio corretto baricentro esattamente sulla verticale delle radici; un
po' come fa l'arrampicatore quando ottiene il miglior equilibrio
portando il baricentro del proprio corpo sulla verticale del piede che
sta in appoggio sulla roccia.
Guardando da un po' distante vedo gesti che, a prima occhiata,
potrebbero essere male interpretati, ma riesco a capire che non sta
mandando qualcuno a quel paese, piuttosto spiega di fibre del legno
pretensionate, di stabilizzazione della pianta e di altre cose che mi
pare di avere capito ma non saprei spiegare ad altri.
Come direbbe un amico che ne capisce più o meno come me (ed era lì
presente tra gli accompagnatori), sta di fatto che "al Larice al sta
in piè anch se a tira al vent e a ghè poca tèra per afundàr con il radìs".
Terminata la spiegazione, l'escursione riprende e, lasciato il Pian d'Angiàs, ci attende una traversata in costa tra i mughi che ci porterà alla baita Darè Copada presso la quale ci fermeremo per un breve pranzo al sacco, oramai atteso da tutti. Molto bella la vista sulla valle sotto di noi, sul Sasso di Bosconero e sulla Rocchetta Alta.
La gente si spalma un po' dappertutto attorno alla baita e gli zaini si
aprono generosi con un campionario che più assortito non si può: si
rileva ampia prevalenza del classico "paninazzo", seguito dal
tramezzino, e a distanza le pizzette, senza che manchi anche l'insalata
di riso; scontatissima la cioccolata che hanno quasi tutti, mentre c'è
un'equa divisione tra i sostenitori della frutta e verdura fresca e
quelli che sono per la frutta secca.
Dopo avere mangiato la mia frutta, vado in giro a fare fotografie ai
vari gruppi e non rifiuto diversi assaggi che mi offrono in molti e
faccio un tremendo mescolone nello stomaco mettendo le papille gustative
sotto stress.
Alle 13:40 partiamo dalla baita, ma dopo dieci minuti siamo fermi per
approfondire la conoscenza con il pino mugo (i "mughi", come siamo
soliti chiamarli) che Giovanni spiega e illustra con l'abituale
precisione, ricchezza di particolari e anche leggerezza, che non guasta
mai, altrimenti sembrerebbe di essere a scuola e non ad un'escursione in
montagna con valenze didattiche.
Poi
riprendiamo, iniziando la discesa che ci porterà alla Casèra Castelìn
dove siamo attesi dalla "sorpresa" che ci ha preparato Pompeo e da un
momento conviviale assieme ad altre persone del luogo.
La didattica però non è finita perchè ci attende ben presto quella che
abbiamo chiamato la "pausa radici".
Si tratta di una zona nella quale si sono sradicate parecchie piante
durante lo scorso inverno, infatti, molte di queste sono cadute proprio
sulla traccia di sentiero e le dovremo scavalcare quando riprenderemo il
cammino.
Giovanni si scatena perchè lui è così, un entusiasta e, del resto,
quando ti capita di avere delle enormi piante rovesciate e poterne
osservare con dovizia di particolari l'intero apparato radicale?
Io temo che qualcuno possa sospettare che sia venuto lui nottetempo a
sradicarle per poter spiegarne bene le radici e rendere più efficace la
sua lezione.
Comunque la zona è davvero impressionante perchè vedere a terra un
albero di notevoli dimensioni sembra minare una delle nostre certezze di
fiducia verso la natura; qui gli alberi caduti sono tanti e, nonostante
le spiegazioni di Giovanni, in me la zona evoca paure quasi ancestrali.
Intanto il tempo scorre e ci rimane ancora un po' da camminare prima di
arrivare al nostro appuntamento. In alcuni affiora qualche segno di
stanchezza, ma al punto in cui siamo il più è fatto e possiamo stare
tranquilli. Intanto Pompeo è andato avanti per verificare che alla
Casèra sia tutto pronto ed avvisare che il gruppo sta per arrivare, cosa
che avviene alle 15:20; non siamo stati come orologi svizzeri, ma siamo
il linea con la tabella che avevamo stilato.
Qui facciamo la conoscenza con una persona "speciale" che si chiama
Pietro, un "maestro" nell'arte (perchè di arte si tratta) della
preparazione delle scandole, le listarelle di legno di larice con cui si
realizzavano (e ancora si realizzano) i tetti dei tabià e delle
casère di montagna, molti dei quali sono ancora in piedi e ben
conservati dopo più di un centinaio d'anni, proprio per l'efficienza e
affidabilità di questo tipo di copertura.
Il lavoro, come si può immaginare, inizia con la scelta della pianta,
come ci spiega Pietro, che cresca ad una quota sui 1.600 metri, in zona
ben ventilata; bisogna cioè capire che sia fatta del legno adatto alla
bisogna.
E' quello che hanno fatto i nostri amici di Fornesighe per offrirci
questa dimostrazione di antichi saperi, attraverso l'esperienza di
Pietro che, per prima cosa, ci mostra gli attrezzi del mestiere:
una strana mannaia e una mazza di legno con i quali si inizia a
sezionare in quattro parti le "rondelle" di tronco già segate a misura.
I quattro spicchi ricavati vanno scortecciati togliendo anche l'alburno,
la parte molle del tronco che sta subito sotto la corteccia e che tutti
oramai noi "allievi" del Corso "Boschi e Alberi", dovremmo conoscere; lui
che non sa che noi siamo così bravi e preparati ce lo indica con
precisione prima di eseguirne la rimozione.
Solo dopo si passa a tagliare le scandole, di norma individuando la
larghezza di quattro e poi dimezzando il pezzo fino ad ottenere le
quattro scandole a misura: un lavoro di pazienza, ma soprattutto di
precisione.
Di Pietro si può ammirare il colpo d'ascia preciso e risoluto e, nella
precisione del colpo, sta anche la forza.
Le scandole irregolari saranno rifinite con un normale "manaròt" e poi
saranno pronte per essere disposte con una tecnica ben precisa, secondo
la quale metà della loro superficie resterò scoperta e l'altra metà
sotto la scandola successiva. Ovviamente, Pietro mostra e spiega anche
questa tecnica, completando così la sua "lezione".
Quest'ultima parte sfugge a qualcuno, perchè, nel frattempo, complice
anche un poco di pioggia che va e viene, all'interno della casera e
vicino al fuoco acceso, si è creato un certo assembramento.
Le sorprese, infatti, non sono finite, e sul tavolo al centro della stanza
compare un prosciutto intero che viene subito "immobilizzato" sul
tagliere e affettato per uno spuntino al volo, per il quale è stato
portato anche del buon pane ferrarese i cui crostini fanno capolino da
un grande sacchetto bianco.
Molti si chiedono come sia finito lì un prosciutto intero e chi abbia
potuto avere una così bella idea: il merito è di Francesco e della
vincita alla lotteria organizzata dalla Biblioteca di Tresigallo di cui
erano arrivati i biglietti sul pullman durante l'uscita precedente
sull'Appennino. Non potendo essere presente lui di persona all'uscita,
ha pensato bene di stare vicino a noi con questo "biglietto da visita"
che rende appetitosa la nostra sosta.
Spuntano anche alcune torte che hanno potuto arrivare fin quassù incolumi
in quanto portate con il trattore; non riusciranno invece a sopravvivere
all'assalto della nostra famelica truppa escursionistica.
Intanto la pioggia ne approfitta per scendere copiosa in uno scroscio
che, visto dalla finestra e con le spalle al camino con il fuoco acceso,
diventa spettacolo molto piacevole, in attesa di riprendere il cammino
per l'ultimo tratto di discesa che ci porterà al Pian de Levina dove i
pullmini saranno ad attendere.
Quando usciamo dalla Casèra Castelìn, dopo avere "dimezzato" il
prosciutto e fatto sparire le torte fino all'ultima briciola, troviamo
Valeria e Ciro impegnati ad imparare l'arte del fare le scandole sotto
gli occhi di Pietro che non pare troppo convinto delle capacità dei suoi
improvvisati allievi "scandolari".
L'ultima mezzora di cammino in discesa nel bosco ci porta a completare
il nostro anello didattico con grande soddisfazione. Un'uscita davvero
ben riuscita grazie alla preziosa collaborazione dei "locali": Pompeo de
Pellegrin, discreto e modesto ma efficiente "regista" della nostra
giornata, Matteo Costantin, autista e gestore del servizio pullmini che
ci hanno portato da Forno di Zoldo a Forcella Cibiana e ritorno, Daniele
D'Incà, guardia forestale e prezioso trasportatore, con il trattore e
assieme alla moglie e ai figli, del prosciutto e delle torte che ci
siamo "spazzolati" in casèra, Pietro Mayer maestro d'ascia e scandolaro
che ci ha dato una completa ed eccellente dimostrazione della sua antica
arte. Portatori di uno spirito di comunità davvero ammirevole che fa
capo a Fornesighe, "il paese più bello del mondo", come ripetono spesso,
senza ostentazione, ma con l'orgoglio di chi ama la propria terra e vi è
attaccato con profonde radici affettive e culturali.
Gabriele Villa
Abeti rossi, pini mughi, larici, scandole, un prosciutto e altre
storie
Diario flash di un'escursione per conoscere il bosco della bassa Val
Zoldana
Forno di Zoldo - Forcella Cibiana, domenica 21 giugno 2015
Il Sassolungo di Cibiana nella sua veste primaverile, il giorno dopo una
nevicata (maggio 2015)