Trekking del Bernina Sud: quattro giorni ai piedi di antichi ghiacciai

di Francesco Galli


Tra i “soliti ignoti” del trekking estivo, già dall’inverno girava l’idea di fare in agosto la via Spluga, un sentiero transfrontaliero nelle Alpi centrali che da secoli unisce la località di Thusis (CH) a Chiavenna (SO).
Il gruppo era già pronto e collaudato, per cui, verso la fine di maggio iniziamo lo studio del percorso recuperando le cartine e altro materiale necessario. Poi con giugno è arrivato il caldo e le quote poco elevate raggiunte con la via Spluga ci fanno dubitare della nostra scelta…”in ferie bisogna andare al fresco”, tuona qualcuno.
Quindi si riparte con il toto trekking … uniche certezze andare al fresco e rimanere nella zona della val Codera, vista l’uscita sociale di ferragosto con il CAI Rovigo.
Tra le varie ricerche salta fuori il sentiero del Bernina Sud, un cammino che unisce la val Forno (CH) alla val Poschiavo(CH), passando per la val Malenco (SO), il tutto ai piedi del massiccio del Bernina.
La zona era quella giusta, la durata anche e i rifugi erano tutti oltre i 2000 metri…si può fare!
Le tappe erano obbligate, come ogni buon trekking in alta quota, di conseguenza anche la scelta dei rifugi. Unico dubbio era la terza notte in zona diga di Campo Moro, battezzata dal gruppo come area troppo “umanizzata”. Decidiamo quindi di accorciare la terza tappa con il conseguente allungamento della quarta, ma sarebbe stata l’ultima e un’ora in più di discesa non avrebbe aggiunto difficoltà.
Si parte con le prenotazioni: Capanna Forno CAS, Rifugio Longoni e Rifugio Mitta, il più piccolo degli altri rifugi presenti lungo quella parte di sentiero.

Inizio dell’avventura
In men che non si dica, arriva il 14 agosto ed è ora di partire per la due giorni in val Codera con il CAI di Rovigo …si tratta di un mini-trekking alla scoperta dei borghi della valle. Un ottimo riscaldamento per i giorni successivi.
Finita l'uscita sezionale, il 15 sera facciamo tappa a Colico per una lavatrice veloce e un’ottima cena a suon di pizzoccheri valtellinesi. Il 16 mattina alle 6:30 suona la sveglia, colazione e via in auto in direzione Poschiavo.
Superata la dogana, senza controlli, lasciamo l’auto nel parcheggio della stazione … pagando con Easypark ci risparmiamo la corsa alla ricerca di un bancomat per recuperare un po’ di Franchi Svizzeri.
Zaino in spalla saliamo sul trenino rosso del Bernina, la celebre ferrovia panoramica che in poco più di un’ora ci porta a St. Moritz, attraversando alcuni dei paesaggi montani più suggestivi delle Alpi Retiche.

Arrivati a St. Moritz (CH), nella mezz’ora di tempo per il cambio tra il treno e il pullman per Maloja (CH), l’obiettivo era riuscire a recuperare i Franchi Svizzeri per pagare il rifugio della prima notte, la capanna Forno CAS.
Dopo alcuni infruttuosi tentativi di fare bancomat iniziano le preoccupazioni … per fortuna, in centro troviamo una banca aperta e radunando un po’ di contanti riusciamo a cambiare il necessario per superare la prima notte.
Logicamente, la disavventura del bancomat non poteva non avere altri strascichi … tornati in stazione per prendere il pullman per Maloja ci accorgiamo di averlo perso. Vabbè, dopo poco ne sarebbe partito un altro.
Avvisiamo il rifugio che saremmo arrivati tardi e piantoniamo la piazzola da dove sarebbe partito il pullman successivo. Finalmente alle 13.15 partiamo per Maloja.
Alle 14 circa siamo a inizio sentiero e iniziamo la prima tappa, la tabellina di marcia dice: 5 ore, 11,4 chilometri, dislivelli 960 metri in salite, 210 metri in discesa.
I primi cinque chilometri sono praticamente pianeggianti, troviamo solo una leggera salita per raggiungere il lago di Cavloc. Breve pausa pranzo al lago e ci addentriamo nella val Forno seguendo il torrente Orlegna fino alla piccola diga di contenimento.

A questo punto siamo a 2000 metri, ci lasciamo alle spalle un bosco di larice e pino cembro per entrare nel regno del granito. Il sentiero sale leggero a mezza costa e tra un “giarone” e l’altro abbiamo il tempo per guardare la lunga morena glaciale, oggi ridotta ad un torrente.
Con vari saliscendi, arriviamo al ponte (2200 metri) che permette di superare il torrente carico di acqua di fusione, di là dal ponte ci attende la vera salita, quella per arrivare al rifugio, ripida e in parte attrezzata con catene.
Purtroppo le sorprese non sono ancora finite, dalle cime a ovest iniziano a fare capolino dei gran nuvoloni neri. Manca solo mezz’ora, acceleriamo il passo … non abbastanza.
Tempo cinque minuti e arriva la prima goccia e dopo di lei tutte le altre. Non ci sono posti sicuri dove fermarsi, allora mettiamo l’antipioggia e il copri-zaino e si riparte di buon passo tra sassi, scalette di legno e passaggi attrezzati, il tutto bersagliati dai chicchi di grandine. In dieci minuti inizia a colare l’acqua anche negli scarponi. Sarà una lunga salita e il pensiero va subito a quell’ora persa per il bancomat!

Finalmente la bandiera del rifugio, manca solo un ultimo traverso e … un ultimo guado con il torrente in piena.
Quel granito che asciutto è una certezza, bagnato dalla grandinata diventa una pericolosa saponetta.
Cerchiamo il posto giusto dove attraversare e con le dovute accortezze passiamo tutti indenni dall’altra parte.
Avanti che il caldo della capanna del Forno (2574 metri) ci aspetta!
Infatti, in rifugio era già pronta la stanza “asciuga tutto” con la stufetta carica di legna. Dieci minuti per stendere tutto ad asciugare e di corsa a cena, logicamente eravamo gli ultimi.
Zuppa di patate, bis di polenta con gulasch, rape rosse con salsa alla senape e dolcino.
Dopo il rigoroso giro di genepì si torna per sistemare i vestiti bagnati.
La preoccupazione era soprattutto per gli scarponi, ma in rifugio erano attrezzati anche per quello.
Qualche cambio di carta di giornale per assorbire l’acqua e poi affidiamo le nostre speranze al caldo della stanzetta.
Il rifugista ci fa vedere la nostra stanza, adatta per ospitare fino ad otto persone.
Prepariamo i nostri letti e siamo pronti per la nanna, la giornata è stata lunga e per il secondo giorno le previsioni sono ancora incerte.

Alla mattina, ancora prima di fare colazione, tutti a controllare i vestiti … era tutto miracolosamente asciutto.
Solo gli scarponi erano appena appena umidi, nulla di grave, rispetto alla situazione della sera prima.
Un po’ di pane, qualche fetta biscottata, miele, marmellata e tanto caffè. Alle otto siamo tutti pronti.
Oggi la tabellina di marcia dice: 6 ore, 12,6 chilometri, 800 metri in salita, 940 metri in discesa.
Fatta la foto di rito fuori dal rifugio, possiamo partire.
La tappa parte subito in salita. Tra un sasso di granito e l’altro in una mezz’oretta siamo al passo del Forno (2769 metri), di là dal passo si torna in Italia. La vista si apre sul gruppo del Disgrazia e sul resto della val Malenco.
E lì in fondo, a est il Pizzo Scalino strizza l’occhio, evidentemente già sapeva che due giorni dopo avremmo fatto merenda alla sua ombra. Iniziamo a scendere nella val Bona e purtroppo le quattro gocce previste per le undici, hanno deciso di venirci a trovare un po’ prima. Ritiriamo fuori l’antipioggia e il copri-zaino e proseguiamo con la discesa. Per fortuna è una pioggia leggera ma che ci accompagna comunque per tutta la discesa.
Quasi alla fine, appaiono i primi segni del sentiero Bernina sud, proprio all’altezza di un ponticello sul torrente che pensavamo di non dover attraversare.
Proseguiamo seguendo i segnavia e, dopo aver condiviso un tratto di salita con un gruppo di capre, arriviamo a una baita con una bellissima panchina. Proprio il posto giusto dove riposarsi e fare uno spuntino.

Davanti a noi la vista era spettacolare, a occhio nudo si potevano contare i crepacci della parete nord del Disgrazia e delle altre cime del gruppo. Poi in fondo alla valle il piccolo paesino di Chiareggio.
Neanche il tempo di sedersi e spunta fuori la proprietaria di casa per fare due chiacchiere.
Ci racconta un po’ della sua vita, di quando veniva per portare su le capre assieme al marito, quando trascorreva lì più di tre mesi all’anno … fino all’anno in cui è venuto a mancare il marito e con lui le forze per continuare quel faticoso lavoro. Ma è ora di congedarci dalla gentile signora, a quanto pare ci separano ancora due ore e mezza dal rifugio Longoni. “Ma il primo tratto è in piano, andate via tranquilli” dice lei.
Alla faccia del tratto in piano! Sicuramente per qualche chilometro siamo rimasti sui 2000 metri di quota, ma di tratti pianeggianti ne abbiamo visti pochi. Alle ripide salitine si susseguono altrettante discese, fino ad arrivare all’alpe dell’Oro. È il momento della salita al rifugio.

Le nuvole cariche di pioggia della mattina, hanno lasciato spazio a un caldo sole che ci accompagna fino ai laghetti dell’alpe Fora. È presto, il sole è ancora bello alto e l’acqua limpida dei torrenti che solcano l’alpe Fora sono troppo invitanti. Scatta la pausa “balneazione”. Qualche minuto di relax con i piedi a mollo per rigenerarsi un po’ e poi gli ultimi venti minuti di salita per arrivare al rifugio Longoni (2450 metri).
In rifugio ci accoglie Giuliano, già pronto con il blocchetto per prendere l’ordinazione della cena.
Ci facciamo una birretta accompagnata da un pezzo di torta e poi andiamo a sistemare le nostre cose.
Anche al Longoni abbiamo una stanza tutta per noi, con bagno sul piano e per chi vuole la doccia, a pagamento.
Qualche ora di relax e quasi ad ora di cena, un nuovo temporale ci regala un bellissimo arcobaleno e dall’altra parte un cielo rosso fuoco che ci fa ben sperare per il giorno successivo.

A cena gnocchi al sugo, polenta con carne, una assaggio di bresaola, dolce e l’immancabile genepì … con bis.
Tutti pronti per le brande … anche domani si cammina.

La tappa tecnica
La prima scelta difficile della giornata la facciamo a tavolino.
Per la terza tappa ci sono due opzioni: fare il sentiero basso, che rimane ad altezza rifugio per un’oretta, per poi affrontare tutta la salita ai laghetti e poi alla forcella d’Entova , oppure fare subito parte della salita, per poi arrivare ai laghetti in falsopiano e fare l’ultimo pezzo di salita alla forcella. A voto unanime scegliamo per l’opzione B, anche se il sentiero prevedeva dei punti esposti e attrezzati con catena.
La tabella di marcia del giorno prevede 6 ore, 12,7 chilometri, 800 metri i salita, 1.230 metri in discesa.
Fatta la foto di rito, giriamo dietro al rifugio e via subito in salita. Un sasso dopo l’altro guadagniamo quota e, mentre il resto della valle inizia a svegliarsi, siamo già a un piccolo promontorio roccioso, quota 2700 metri, che domina su tutta l’alpe Entova.

Proseguiamo in quota lungo il sentiero, attraversiamo un paio di punti abbastanza esposti e comunque protetti da catene e in un paio di ore siamo alla base della prima forcella di giornata. Facciamo una veloce pausa merenda e riprendiamo a camminare.

Il primo tratto è una comoda mulattiera che con qualche tornante ci porta prima al laghetto della Balena e poi al laghetto del Tricheco. Infine, lasciata la strada, il sentiero gira attorno all’ultimo laghetto e inizia a prendere quota. Siamo di nuovo in mezzo alla ganda, questi enormi massi di granito che ad ogni passo obbligano a riprendere l’equilibrio e decidere se allungare il passo sul sasso più alto o scendere su quello più basso.In meno di mezz’ora siamo alla forcella d’Entova (2833 metri), dietro di noi il Sass d’Entova e quello che rimane della vecchia vedretta di Scerscen inferiore.

Dopo la forcella arriva l’inevitabile discesa, inizialmente ancora tra gli enormi sassi granitici e successivamente tra i verdi pascoli del vallone dello Scerscen. E lì, quasi all’improvviso, spunta il Bernina con le sue due cime unite dalla sottile linea di ghiaccio, l’italiana 4021 metri e quella svizzera 4049 metri.
Mentre proseguiamo la discesa verso il torrente Scerscen, continuiamo ad ammirare la vedretta Scerscen Superiore, il suo l’enorme seracco finale e le numerose cascate generate dall’acqua di fusione del ghiacciaio. Iniziamo, però, un po’ a preoccuparci della continua perdita di quota … di là dal torrente ci attende la salita al secondo passo della giornata e ogni metro perso prima del torrente diventerà inevitabile salita dell’altra parte.
Seguendo la dolce discesa del sentiero, arriviamo al mega ponte (2270 metri) che permette di superare il tumultuoso torrente Scerscen. Prima di attraversarlo decidiamo di ricaricare le batterie mangiando qualcosa.

Sarà il pensiero al piatto di pasta del rifugio, oppure perché la salita ai laghetti delle Forbici (2630 metri) e l’omonima forcella (2660 metri) non è poi così impegnativa, comunque, in un’oretta di salita, fatta di tratti ripidi a tornanti intervallati da lunghi traversi in falsopiano, siamo davanti alla porta del rifugio Carate Brianza (2636 metri).
E qui salta fuori la fame atavica, quella di chi non mangia da mille anni. Ci sediamo in cinque nell’unico tavolo all’ombra, peccato fosse da quattro. La rifugista ci prova anche a dirci di aggiungere un tavolo in più, ma a noi non interessa avere spazio sul tavolo, l’importare è avere le cinque birre e i cinque piatti di fettuccine al ragù.
Tempo di spazzolarli e iniziano a girare proposte di un secondo piatto di pasta, qualcuno che lo vuole smezzare, altri che lo dividerebbero addirittura in tre … alla fine decidiamo per il dolce.
Rinfrancati dal cibo e dal caffè siamo pronti per scendere fino al rifugio Mitta.
Un po’ per il cibo, un po’ perché a tratti la traccia è abbastanza ripida, i 600 metri di discesa per arrivare all’alpe Musella corrono via tranquilli. Qui il paesaggio è bucolico con le piccole case isolate, la piana solcata dalle fresche acque del torrente e gli animali liberi di pascolare.
Questa volta il torrente scorre proprio a dieci metri dal rifugio.
Entriamo al rifugio Mitta (2021 metri) per salutare e lasciare giù le nostre cose. Anche in questo rifugio abbiamo una nostra stanza, un bel bagno sul piano e la doccia gratis … da usare con parsimonia.
Dopo l’inevitabile operazione “balneazione” iniziamo a farci le veloci docce e si apre la bisca clandestina.
Una partita di riscaldamento a scala quaranta e poi due mega partite a Uno.
Tra una partita e l’altra il rifugista ci chiede se anche per noi sarebbero andati bene i pizzoccheri a cena, aveva degli amici che sarebbero venuti a trovarlo con quell’esplicita richiesta. E chi siamo noi per dire di no?
Accettiamo di “sacrificarci” in cambio della promessa di quantità abbondanti.
I “pizzoccheri” sono un piatto tipico della Valtellina. La pasta di grano saraceno, rigorosamente fatta in casa, viene condita con patate, verza e una colata di formaggio … una bomba calorica!
Alla fine del tris di pizzoccheri, carne con fagiolini, tris di dolci e degustazione di genepì, gli amici del rifugista cercano di consolarci per i 25 chilometri e i 1600 metri di discesa della tappa del giorno dopo.
Purtroppo  … qualcuno aveva anche il dubbio che fossero 1800 i metri di dislivello in discesa.
Con la pancia piena e i pensieri al giorno dopo, strisciamo fino in camera per chiudere la terza giornata di trekking.

L’ultima fatica
All’alba dell’ultimo giorno di trekking non ci sono scelte sul sentiero da fare, solo consumare la colazione, indossare gli scarponi e partire. Pane, burro, marmellate varie e tanto caffè, recuperiamo i panini preparati dal rifugista e siamo pronti. Oggi la tappa prevede 8 ore, 20,8 chilometri, 790 metri in salita, 1.790 metri in discesa
Il sentiero segue il torrente lungo tutta l’alpe Musella e poi inizia a scendere su una comoda forestale.

Tra un tornante e l’altro arriviamo alla strada che porta alla diga Campo Moro e da lì saliamo fino alla diga (1996 metri). Scopriamo che l’alpe Gera è stata abbondantemente sfruttata per l’energia elettrica. Ci sono addirittura due dighe, situate rispettivamente a 2051 metri e a 1996 metri, che generano i rispettivi lago di Alpe Gera e lago Campo Moro. I due imponenti sbarramenti, costruiti negli anni ‘60 del secolo scorso, costituiscono la più importante fonte di energia per l’intera Valmalenco. Attraversata la diga bassa piombiamo nella civiltà.
Sono appena le 9:30 del mattino e il parcheggio è pieno di auto in attesa di trovare un posto libero.
Ci guardiamo attorno e partiamo subito per la salita che ci conduce al rifugio Zoia (2010 metri) e poi prosegue verso le due falesie della zona. Veloce tappa per capire che anche la via più semplice sarebbe stata proibitiva per quasi tutti noi e proseguiamo lungo il sentiero che in un’oretta circa ci porta al rifugio Ca’ Runcasch (2160 metri). Eccoci qua, dopo due giorni di cammino e tanti chilometri macinati dal passo del Forno, siamo all’ombra del Pizzo Scalino (3323 metri). Siamo all’ultimo rifugio, dopo il nulla fino al prossimo paese. Essendo praticamente ancora ad inizio tappa, decidiamo di fare la seconda colazione. Qualcuno prende un caffè, qualcuno una radler, qualche pezzo di dolce e in men che non si dica siamo di nuovo in cammino lungo l’alpe di Campagneda.
La facile salita su forestale ci conduce quasi fino ai laghi di Campagneda (2350 metri) e poi si ritorna sulla ganda per arrivare all’omonimo passo (2626 metri).

E per questo trekking, è finita la salita.
Al Passo ringraziamo il monte Disgrazia per averci ha fatto compagnia per tre giorni e proseguiamo più o meno in quota fino al passo di Canciano (2498 metri).
Un arco di legno ci annuncia che stiamo per entrare in Val Poschiavo, si torna in Svizzera!
Inizia così la lunga discesa per arrivare a Poschiavo (1014 metri).
Circa 1300 metri di discesa più o meno ripida, intervallata da piccoli alpeggi. Il primo dei quali è l’alpe Cancian (2090 metri) dove approfittiamo della piccola fonte per fare la pausa pranzo con i panini del rifugio Mitta.

Giusto il tempo di finire i panini e si punta di nuovo verso valle e piano piano abbandoniamo il regno del granito per tornare tra abeti e larici.
Lungo la discesa incontriamo il piccolo alpeggio di Quadrada (1860 metri) e poi quello di Selva (1450 metri).
Iniziano a farsi sentire il caldo e i chilometri percorsi. Lungo il resto della discesa ci sfilacciamo un po’, ognuno con i propri pensieri, per ritrovarci ad ogni bivio o cambio di direzione.
La discesa continua e si conclude, dove tutto era iniziato quattro giorni prima, in stazione a Poschiavo.
Il tempo di mettersi in ciabatte e siamo seduti al pub. Finiamo gli ultimi Franchi per la meritata birra e lentamente ci riavviciniamo all’auto. La squadra dei “soliti ignoti” è arrivata alla fine di questi 4 (+2) giorni di cammino.
Quasi settanta chilometri su e giù tra le alpi Retiche lungo il sentiero del Bernina Sud, anche se sarebbe più corretto chiamarlo sentiero del Disgrazia Nord.

Francesco Galli
Trekking del Bernina Sud: quattro giorni ai piedi di antichi ghiacciai
Ferrara, agosto 2023