La diga del Gleno
di Marco Pedretti
Nel 1993 a trent’anni dal disastro del Vajont, mio zio, che allora era
il Sindaco di Longarone, mi regalò un libro “Disastro e Ricostruzione
nell’alveo del Vajont” a cura di Ferruccio Vendramin.
Alla fine del libro, che narrava il dramma del disastro e quello che era
stato fatto nei successivi trent’anni, c’è un’appendice con elencati
disastri analoghi avvenuti in Italia, tra questi una quarantina di
pagine sono dedicate al disastro della diga del Gleno.
Allora non sapevo dell’esistenza di questo disastro e nemmeno dov’è la
diga del Gleno, ma la curiosità mi ha spinto a cercarla. Così ho
scoperto che si trova nelle Orobie bergamasche e che nella zona ci sono
anche gruppi come la Presolana e gole attraversate da strade storiche
come la Via Mala.
Il primo sopralluogo in zona l’ho fatto con Vanni, Gino e Lara e siamo
andati a dormire al Rifugio Albani, ai piedi della Presolana, ma questa
è un’altra storia.
Poi nell’inverno ho percorso la Via Mala, tra cascate ghiacciate e
panorami impressionanti.
Domenica 13 agosto 2023
Dal mese di aprile sono in corso cerimonie commemorative del disastro,
tra conferenze e concerti in quota si vuole ricordare quello che avvenne
il primo dicembre del 1923.
Avevo visto su Rai3 Lombardia che c’erano concerti in quota nell’alveo
del lago, così ho approfittato dell’occasione per andare a fare una gita
alla diga del Gleno.
C’era talmente tanta gente, richiamata dall’evento, che dal paese di
Vilminore di Scalve, dove c’è posto per parcheggiare, hanno organizzato
bus navetta fino al borgo per Pianezze, dove inizia il sentiero.
Il borgo di Pianezze, addobbato a festa, sembra uscito dal passato, tra
le viuzze con case in pietra e legno si sente il profumo del fieno e del
letame, odori che non sentivo da quarant’anni all’interno dei centri
abitati.
Il sentiero inizia ripido dietro il borgo e il panorama si apre su tutta
la vallata e sulla Presolana a sud, i prati sono appena stati falciati e
risplendono di un verde brillante.
Poco più in alto si entra nel bosco e a zig-zag si sale ripidi a fianco di
una condotta forzata.
Il sentiero era una mulattiera selciata che serviva per portare alla
diga i materiali da costruzione.
Arrivato in quota il sentiero, scavato nella roccia, prosegue quasi
orizzontale e porta ai piedi della diga.
Il percorso è molto panoramico e gratifica la fatica della corta ma
ripida salita.
Dietro una svolta compare la diga o è meglio dire ciò che ne rimane. La
costruzione è imponente e attraversando il varco che si è aperto nel
crollo, si ha un’idea della sezione della diga.
C’è un sacco di gente, molti hanno campeggiato nei prati ai lati del
laghetto che è rimasto dopo che la diga è crollata e ora è utilizzato
per una modesta produzione di energia idroelettrica. Sabato 12 agosto
c’era stato un concerto “per non dimenticare” e molti ne hanno
approfittato per rimanere qui anche la notte.
Approfitto di un punto ristoro per rifocillarmi e riposarmi, ci sono
molte persone con i cani e le numerose marmotte continuano a lanciare i
loro fischi di allerta che riecheggiano in tutta la conca.
Guardo la diga da dentro e lo squarcio inquadra perfettamente la Presolana dall’altra parte della valle, è una visuale particolare questa perché, dove sono io, ci dovrebbero essere almeno quaranta metri di acqua sopra la mia testa.
Il primo Dicembre 1923, si aprì lo squarcio nella diga e in meno di
mezz’ora cinque milioni di metri cubi di acqua travolsero i paesi di
fondovalle arrivando fino a sfociare nel lago d’Iseo, milletrecento
metri di dislivello più in basso, percorrendo tutta la gola del Dezzo
travolgendo ponti e strade, case e fabbriche costruite sul torrente e
che sfruttavano la forza motrice dell’acqua.
Morirono circa cinquecento persone e i danni economici furono ingenti
per l’epoca.
Senza entrare nel merito di chi fu la colpa e quali furono le cause del
disastro, a questo proposito per chi vuole approfondire l’argomento su
Internet, si trova di tutto, anche ipotesi strampalate definiamole
“leggende metropolitane” che vogliono attribuire il crollo a un
attentato degli anarchici, oppure a lavoratori scontenti del trattamento
economico. Ci furono molte polemiche dopo il disastro, ma il Regime le
zittì e le notizie scomparvero dai giornali nazionali, solo in zona il
disastro rimase nella memoria della popolazione.
PS
Le mie conoscenze di Scienza e Tecnica delle Costruzioni non sono
ingegneristiche ma sufficienti a farmi capire che in quei pilasti della
diga manca il ferro. Certo ora le normative sono cambiate rispetto agli
anni ’20, allora l’uso del cemento armato era agli albori e ci sono
voluti continui progetti e fallimenti per affinare la qualità, quantità
e posizione corretta nelle armature dei ferri all’interno dei pilastri e
delle travi.
Durante il viaggio di ritorno l’autostrada A4, tra Brescia e Verona,
corre di fianco alla linea dell’alta velocità ferroviaria in
costruzione. Una cosa che mi è subito evidente, è la quantità di ferro
che vedo spuntare nei pilastri in costruzione. Ripensando alla diga del
Gleno nemmeno minimamente paragonabile.
Una cosa è certa il disastro del Gleno venne quasi completamente
dimenticato, ma il disastro del Vajont del 1963 impressionò talmente
tanto le popolazioni delle valli alpine che qualsiasi progetto di nuove
dighe e bacini idroelettrici fu abbandonato a favore delle centrali a
carbone e gasolio.
Avremmo potuto avere un paese con molta più energia pulita e invece
dagli anni ’60 abbiamo preferito centrali che ci hanno fatto aumentare
la CO2 con i conseguenti cambiamenti climatici, purtroppo la storia non
si fa con i se e con i ma e ora non ci rimane che commemorare disastri
del passato e più recenti, sperando di non commettere altri errori.
Marco Pedretti
La diga del Gleno
Val di Scalve, estate 2023