I colori del Tibet

 

di Alberto Peruffo

 

Quando la luce radente ti entra nell’anima, a settembre, sugli altipiani tibetani, sembra che la realtà fugga via, piano piano, per infrangersi sui tenui colori dei campi d’orzo e delle montagne, brulle e silenziose. Non un albero, non un animale, ma solo aliti di vento che si smorzano sul tuo viso, attonito, stupito, incapace di assorbire vastità e bellezze incomunicabili. Ma settembre se n’è andato, September has gone, veloce, inesorabile, di pari passo con le energie che mi hanno portato oggi sulla cima di questa grande montagna.
E’ il primo giorno di ottobre, 8201 metri: gli assolati altipiani che avevo ammirato nel tragitto da Lhasa ai piedi della Dea della Pietra Turchese, un mese fa, li scorgo ora in lontananza, remoti, desolati. Non più una luce radente li rischiara, ma una luce perpendicola, apparentemente calda e ristoratrice. Dinnanzi a me, l’Everest, la Madre della Valle e dei Venti, il Makalu, il Grande Nero (come impressiona il versante settentrionale e quanto verità portano con sé i toponimi) e il Kanchenjunga, i Cinque Tesori della Grande Neve. Di fianco ai giganti, loro, gli amati altipiani che mai prima d’ora avevo avuto il privilegio di contemplare da un’altezza impronunciabile. Almeno per la mia esperienza alpinistica.
Una giornata luminosa, forse la più luminosa della mia vita. Al momento della partenza, questa notte, non avevo pensato minimamente che sarei arrivato in cima alla sesta montagna della Terra. Certo, ero determinato, concentrato, anche i miei compagni me l’avevano fatto notare nei giorni precedenti la partenza dal Campo Base, laggiù, a 5700 metri. Ma non ci pensavo alla cima. Troppo lontana. Il passo, invece, sì, quello era il centro del mio pensiero. Passo dopo passo. Piede dopo piede. Avevo contato migliaia di passi senza mai affaticare il mio organismo oltre il dovuto, oltre il suo regolare regime. Un regime strano, tuttavia. Alternato. Contavo, mi fermavo, respiravo e, se potevo, contemplavo l’orizzonte, o meglio la verticale sopra e sotto i miei piedi.
24.000 piedi sono tanti. Le misure anglosassoni, antropiche, mi hanno sempre affascinato. Misurano meglio le nostre fatiche delle usuali convenzioni metriche. Ma la misura che preferisco è quella del corpo, dei nostri sensi, qui in uno stato di eccitazione straordinaria. Paradossalmente, non ho portato con me strumenti di alcun genere. Niente orologio, niente altimetro, niente termometro. E durante l’ascensione, da 10 ore a questa parte, ho avuto una grande sensazione di freddo. L’intera salita si svolge sul versante settentrionale e solo sull’acrocoro sommitale si sbuca al sole. Benedetto sole. Quanto ti abbiamo desiderato durante le ore della notte, fredde, gelide, siderali. Già, le stelle del cielo, splendenti, mi pare di avere invocato più di una volta affinché tu spuntassi fuori. Vedevo la mia compagna ansimare, nella notte stellata, rivestita di ghiaccio. Un maschera di ghiaccio. E io, tremante, tremavo ogni volta che mi fermavo.
Una compagna di ghiaccio. Dei sei che eravamo partiti dal Campo 1 a 6400 metri siamo rimasti in due. Le insidie della notte ne ha trattenuti quattro, uno dei quali al Campo 3, stretto tra le morse del gelo e della sua particolare natura diabetica. Ecco, nell’orizzonte bianco del vasto pianoro della cima, Patrizia, la mia compagna di ghiaccio, sta per concludere le sue fatiche. Una stretta di mano, un abbraccio, quasi fosse un ricongiungersi tra un fratello e una sorella sulla soglia della porta di casa, dove la madre ti aspetta, suadente, rassicurante, la Madre della Valle e dei Venti. Uno sguardo sul tetto del mondo. Un mondo di sole, di vento e di ghiaccio.
Il ghiaccio. A queste quote il gelo ti mangia il corpo, specie se sei in riserva. E non te n’accorgi. Neppure quando con avidità risucchi il calore apparente del sole. Dicevo, non abbiamo strumenti. Lo sapremo dopo. La temperatura della montagna nei pressi della cima si aggira intorno ai –40. Patrizia ha uno strano colore in viso. Il gelo sta per addormentarle le dita dei piedi, il pollice della mano destra e il naso. Quest’ultimo diventerà pure nero, denso dei caratteristici tessuti necrotici. Osservo i due americani giunti in vetta insieme a noi, accompagnati da uno sherpa. Si stanno sistemando le bombole d’ossigeno, diligentemente. Lungo il percorso, dalla neve, ne emergono molte altre. Un gruppo di giapponesi incontrati durante la salita sembrava una squadra di astronauti più che di scalatori. Come si potrà spiegare a questi presunti alpinisti che non hanno fatto un 8000? Che cambiare le condizioni fondamentali della montagna non è salire la montagna? Che ne sanno questi dell’ipossia, della carenza d’ossigeno e delle altre condizioni che fa sì che chiamiamo una montagna 8000, e non 6000, 5000, o giù di lì? Ma per la cultura americana e giapponese, culture parallele per quanto riguarda abusi e consumi, l’ossigeno è una norma. Una norma di buon comportamento. Un artificio, un vanto sociale e una sicurezza da esportare dal mercato delle basse quote al mercato delle alte quote.
E’ il momento di scendere, di tornare sui nostri passi, conquistati a fatica, di abbracciare i nostri compagni probabilmente in pensiero per l’interruzione del ponte radio. Gettiamo un ultimo sguardo sulle più alte montagne della Terra. Sappiamo che non sarà facile tornare quassù, in Himalaya, la Dimora delle Nevi, a contemplare i desolati altipiani da cui un mese fa eravamo partiti. Scendiamo, ci aspettano i nostri compagni, le lussureggianti colline del Nepal, l’affascinante Kathmandu, la città del disordine armonico. Ci aspettano le nostre famiglie, le mogli, i figli, gli amici per i quali, orgogliosi, pieni di luce, abbiamo raccolto i colori del Tibet. Domani, luminosi, li travaseremo nei loro occhi.

Alberto Peruffo

Dicembre 2002

 

Tramonto al Campo 2 (7150 m), la sera prima della cima.
Sullo sfondo la parte settentrionale dell'Himalaya (da cui emerge lo Shisha Pagma)