Spedizione in Perù della Scuola di alpinismo e scialpinismo Adamello "Tullio Corbellini" di Brescia
di Eros Pedrini
In occasione del cinquantenario di fondazione della Scuola di Alpinismo e Scialpinismo Adamello "Tullio Corbellini" del CAI di Brescia, il Consiglio della sezione ha deliberato il gemellaggio della scuola bresciana con quella delle Guide di alta montagna "Don Bosco en Los Andes" di Marcarà (Perù) e il patrocinio di una spedizione congiunta per suggellare tale evento.
Questi
gli obiettivi alpinistici e scialpinistici.
percorrere
l'inviolata cresta Sud integrale dello Shaqsha (5703 m.) nell'estremo
sud della Cordillera Bianca
svolgere
attività scialpinistica e
formativa di autosoccorso su cime della Cordillera Huallanca (Chaupijanca
Sur-Norte).
La
scuola andina di guide di alta montagna, nata dall'idea del Padre
Salesiano Ugo De Censi, riconosciuta dal governo peruviano nel 1999 e
operante grazie all'azione dei volontari dell'Operazione Mato Grosso, si
pone l'obiettivo di formare guide con competenze alpinistiche e
scialpinistiche complete, ivi comprese quelle attinenti alla sicurezza e
alla capacità di intervento sollecito in caso di incidenti.
La
scuola ha ottenuto, tramite una convenzione, l'avvallo tecnico delle guide
AGMP (Associazione Guide di Montagna del Perù) e i suoi allievi, dopo i
dovuti esami, ottengono il titolo di GUIDE riconosciuto dall'UIAGM.
L'attività pratica scialpinistica ci ha visto impegnati nel periodo dal 3 al 6 Giugno 2005.
Si
sono svolte esercitazioni di tecnica di salita e discesa nella Cordillera
Huallanca con l'installazione di un campo base a quota 4700 m sulle
pendici del monte Chaupijanca Sur (5283 m) la cui cima è stata salita
ripetutamente dal gruppo di scialpinisti.
La "Escuela de Guias de Alta Montaña Don Bosco en los Andes" possiede ora il primo vero nucleo di ARVA da impiegare nella Cordillera Bianca, uno dei luoghi principalmente visitati dai frequentatori delle montagne peruviane provenienti da tutto il mondo; inoltre 7 persone sono state addestrate per il loro utilizzo e risultano ora in grado di trasmettere ad altri le stesse nozioni. Questo permetterà di operare con ragionevole sicurezza alle Guide Don Bosco, ai turisti che ad esse si affidano e agli allievi della "Escuela de Guias Don Bosco en los Andes"; consentirà inoltre alle Guide di poter eventualmente partecipare ad operazioni di soccorso qualora fosse richiesto.
Per
quanto riguarda la parte Alpinistica della spedizione, coordinata da
Riccardo Dall'Ara (I.A.), si è svolta, dal 3 al 6 Giugno 2005, una fase
di ricognizione sulle pendici del monte Shaqsha (5703 m) che ha visto
impegnati anche Eros Pedrini (A.I.) e Paolo Malizia (A.I.),
l'accompagnatore e alpinista sig. Franco Bolgiani, nonchè un
cuoco/alpinista e due portatori della "Escuela de Guias Don Bosco en
los Andes". Durante la ricognizione è stato installato un campo alla
quota di 4570 m., base di partenza per l'individuazione del percorso di
accesso al ghiacciaio e per il posizionamento dei definitivi campi base e
avanzato.
Tornati
a valle per ricongiungersi con gli altri membri della spedizione, che nel
frattempo avevano terminato la parte didattica scialpinistica, si sono
completati i preparativi per la salita.
II
giorno 9 Giugno 2005, il gruppo italiano, insieme con Miguel Martinez e
Cesar Rosales (Guide UIAGM Peruviane), l'Aspirante Guida Elias
Flores, il cuoco/alpinista Michel Araya e 9 portatori, è partito alla
volta del campo base per lo Shaqsha che veniva installato a quota 4750 m.
L'11 Giugno 2005, alle tre del mattino, quattro cordate (Martinez–Flores, Rosales–Araya, Osio–Malizia e Dall’Ara–Pedrini) partivano alla volta della cima dello Shaqsha (5703 m) per la via "Ugo de Censi".
La salita si concludeva con successo realizzando cosí la prima salita Italiana allo Shaqsha e la prima ripetizione del bellissimo itinerario aperto dalle Guide "Don Bosco en los Andes" nel maggio 2004 (Martinez, Araya, Flores, Espinosa, Apollinario).
La salita
ha suggellato cosí nel migliore dei modi il gemellaggio tra la scuola di
Guide Peruana "Don Bosco en los Andes" e la Scuola di Alpinismo
e Scialpinismo Adamello "Tullio Corbellini" della
Sezione di Brescia del Club Alpino Italiano.
Dalla
cima purtroppo si è dovuto constatare che le condizioni del momento non
offrivano la possibilità di percorrere integralmente l'inviolata cresta
sud.
Il giorno successivo, dopo aver pernottato al campo 1, Tiziano Osio, Miguel Martinez, Elias Flores e Cesar Rosales hanno aperto un nuovo itinerario di circa 350 m. sulla parete Sud-est denominato "La via del gemellaggio Yanet e Kristine".
Nel
corso dei nostri colloqui con Giancarlo, responsabile assieme alla moglie
Marina della “Escuela” per conto dell’Operazione Mato Grosso, due
possibili filoni di interesse erano emersi in grado di caratterizzare il
progetto della nostra spedizione-gemellaggio.
Da
principio quello della meta alpinistica.
Ad
un certo momento della sera erano apparse sul tavolo alcune fotografie che
avevano attirato la nostra attenzione. Una montagna isolata, slanciata,
una doppia cima collegata da una cresta affilata e quasi orizzontale, con
un nome strano e sconosciuto: Shaqsha.
Io
e Riccardo avevamo voluto
saperne di più. E il “dipiù” fu che era stata salita pochissime
volte, che alcune guide della “Escuela” ci avevano aperto una nuova
via proprio nel 2004 e, ciliegina sulla torta, che la cresta tra le due
cime non era mai stata percorsa.
Ma
c’erano, in agguato, anche gli scialpinisti. E anche loro covavano i
loro sogni.
Partendo
dalla constatazione che la pratica dello scialpinismo in Perù è di
recente introduzione ed è ragionevole prevedere una repentina diffusione
di interesse tra gli appassionati del settore, ma constatando che,
tuttavia, a questa previsione non trova riscontro una adeguata diffusione
degli aspetti legati alla prevenzione ed alla sicurezza nella struttura
del paese in quanto l'uso dell'ARVA è pressoché sconosciuto (lo stesso
soccorso alpino locale non ha ancora raggiunto la consapevolezza
dell'importanza dell'uso di questo apparato) erano giunti alla conclusione
che fosse particolarmente qualificante:
contribuire
alla formazione delle guide realizzando, nel periodo di svolgimento
della spedizione, un corso teorico/pratico sulle tecniche di salita e
discesa proprie dello scialpinismo nonchè di autosoccorso in caso di
travolti da valanga attraverso l'uso dell'ARVA;
iniziare
il difficile percorso di dotare la scuola andina di apparecchi ARVA i
cui costi sono insostenibili per l'Operazione Mato Grosso e, a maggior
ragione, per gli allievi, che sono scelti tra i ragazzi più poveri
delle parrocchie dove operano i volontari dell'OMG.
La soluzione, salomonica, fu di trovare il modo di … fare entrambe le cose.
Per chi arriva da nord, l’ingresso in Huaraz passa per il ponte sul Rio Quilcay. Rio è certo parola grossa per descrivere questa misera massa liquida a basso contenuto di acqua che scorre tra argini di cemento.
Ponte e argini sono una delle tante tracce di storie recenti di terremoti che hanno mosso, e che ancora muovono, la terra di queste parti.
Il
ponte è un po’ la porta di questa città, è punto di riferimento e
luogo di incontro.
E
tre sono le cose che ti colpiscono quando lo percorri fino al suo centro:
il gran numero di montagne che da lì puoi vedere, l’assurdo e orribile
gruppo di statue collocate nei giardini posti lungo gli argini e il puzzo
tremendo di urina che viene dal piazzale sterrato dei “collectivos”,
da uno dei quali sei probabilmente sbarcato pochi attimi e pochi metri
prima.
La cosa incredibile è che, dopo qualche giorno, alle montagne e al puzzo ti ci sei quasi abituato; alle statue no, è veramente impossibile.
Comunque,
se la prima volta che attraversi il ponte non ti fai troppo impressionare,
sei già pronto per vedere tutto il resto. E la scelta non è
particolarmente varia: o tiri diritto per Avenida Luzuriaga, fino alla
piazza centrale in faccia al Museo, o ti butti subito a destra, in una
delle tante strade che portano ai mercati.
La
prima opzione è per palati decisamente più delicati, è la faccia
“occidentale” di Huaraz; portici con piccoli supermercati, bugigattoli
di cambiavalute, agenzie di trekking e alpinismo, negozi di artigianato,
farmacie, banche, internet-point e telefoni a gogò. E’ un percorso
obbligatorio, e tanto vale che lo si affronti subito.
Quando avrete trasformato parte dei vostri dollari in soles e ne avrete investiti immediatamente alcuni per acquistare una tessera telefonica; quando ne avrete speso uno per un’ora di collegamento internet (il mondo è sempre più piccolo, ormai), allora sarete pronti per un tour nelle stradine laterali, con inevitabile attrazione verso la zona de “Il Piccolo”, bar ritrovo dal pessimo caffè espresso ma circondato dai migliori banchetti di ciondoli, collane, denti di squalo fossili e zucche incise che non potreste mai ignorare. Lì potrete scoprire che la vostra capacità di resistere alle tentazioni è veramente infima:
se
non ve ne venite via con almeno un braccialetto colorato avete certamente
stretto un patto con qualche diavolo!
Fatto sta
che, girando, parlando, guardando arriva anche l’ora del pranzo. Come
primo approccio alla cucina locale è forse utile passare per un buon
pollo alla brace: nei prossimi giorni si vedrà di lanciarsi su proposte
più “osèe”.
Non
si chiude il cerchio della parte “occidentale” di Huaraz senza passare
per qualche mercatino di artigianato: non preoccupatevi di acquistare
tutto subito, anche se la curiosità e il desiderio indotto sono forti. State
tranquilli che non passerà giorno che non ci rimettiate piede, in almeno
uno di quei mercatini, e ogni volta ne uscirete con qualche cappello,
borsetta, ciondolo, sciarpa, maglione, e naturalmente con qualche
giustificazione (l’amico, i nipotini, la sorella, i regali per Natale o,
semplicemente, il vostro desiderio).
A vostra parziale discolpa va detto che, effettivamente, tutto costa veramente poco, molte cose sono davvero graziose e, soprattutto, le persone sono molto simpatiche e cordiali.
Se
però non vedete l’ora di affrontare l’altra faccia di Huaraz, quella
più vera, più colorata e, naturalmente, anche più sporca, dovete
prendere la via del mercato. In
questo caso l’ideale è lasciarsi andare nel flusso vociante,
multiforme, indaffarato e spesso affamato della gente locale, provando ad
assegnare un nome a ognuno dei frutti, delle verdure e perfino degli
odori, prestando massima attenzione nell’evitare i mille trabocchetti
dei grandi e piccoli laghi di liquami fra i mucchi di scarti e di rifiuti.
Il
mercato è polso e cuore della città, è sfoggio di gonne, pizzi,
cappelli, tutti rigorosamente femminili; il mercato è donna.
Se
non vi piace il mercato non vi piace il Perù.
Da
un mercato sono sempre uscito felice, magari con un tesoretto di arance,
di mandarini o di quelle piccole banane profumate e zuccherine, 12 per un
sol.
Il
mercato è il regno dell’abbondanza, della ricchezza: ma, se guardi
bene, è anche il luogo, uno dei luoghi, della povertà, della miseria,
della disuguaglianza. Perché questa è l’altra faccia della medaglia,
in ogni mercato, in ogni punto del Perù.
Miseria
e povertà vivono nelle città e nelle campagne, nei deserti della costa e
negli altopiani, nei siti archeologici: solo sulle montagne più alte ci
si libera un po’ di loro e forse è questo uno dei motivi per cui alcuni
di noi desiderano così intensamente di salirci.
Comunque
sia, dopo due – tre giorni di immersione nelle strade di Huaraz, state
tranquilli che un forte desiderio di “altezze” comincia a spuntare
anche nelle menti più refrattarie, nelle gambe più stanche, nei polmoni
più tisici. E
questo è merito senz’altro del fatto che loro, le montagne, in quei
pochi giorni non hanno mai smesso di guardarvi, di farvi l’occhiolino,
con la loro forma attraente, simili talvolta ad enormi fette di
gigantesche torte alla panna.
Difficile
resistere!
Se
poi iniziate ad avvertire leggeri mancamenti dovuti a cali di pressione, o
una super-produzione di globuli rossi, o anche un bisogno masochistico di
basse temperature, … beh!, allora è meglio che vi diate da fare a
preparare piccozze e ramponi.
E
se non provate nemmeno un poco di nausea sollevando sulle spalle uno zaino
pesante come un idolo Chavin, allora non c’e più nulla da fare: avete
bisogno di quota, di alta quota!
Consiglio:
scegliete la più insignificante, la più bassa, la più banale di tutte
le montagne che avete visto in fotografia. State tranquilli che, una volta
che ci sarete arrivati nei pressi (si fa per dire …) avverrà una specie
di miracolo: più voi camminerete, e meno quella si avvicinerà.
Non
solo: quella ridicola “cimetta” comincerà a presentarvi tutta una
serie di creste e spigoli e cornici e seracchi e crepacci che nemmeno sul
più aggiornato manuale dei pericoli dell’alta montagna potrebbero
essere così esaurientemente raccolti.
Adesso siete in grado di capire la forma del copricapo classico peruviano. Non serve a proteggervi meglio dal freddo; serve piuttosto a nascondere le orecchie da basset-hound che vi sono improvvisamente spuntate nel momento in cui avete cominciato a sentirvi così “piccoli” in un mondo di giganti!
Se
provassimo a paragonare le cime della Cordillera Blanca a una collezione
di gioielli, lo Huascaran sarebbe, probabilmente, un collier, l’Alpamajo
un diadema, il Chacraraju uno splendido anello: davvero difficile
scegliere con quale di essi ornare il proprio curriculum alpinistico.
Ma
se vi piacciono cose meno appariscenti, se riuscite a godere anche della
perfezione di un piccolo “solitario”, allora la vostra montagna dovete
andare a cercarla là dove la Cordillera scende a Sud ad abbracciare la
puna.
Poco
sopra Olleros, il mago delle montagne scioglierà l’incantesimo e aprirà
lo scrigno che contiene una magnifica gemma: lo Shaqsha.
Dicono
che, se alzando lo sguardo verso la sua doppia cima, dimostrerete di
essere cavalieri dal cuore puro, allora la montagna sarà benevola e
guiderà i vostri passi.
Così
è stato per noi.
Attenti
comunque a non commettere l’errore di prenderla troppo sottogamba, con
la scusa della sua non eccessiva altezza! Magari
in formato un po’ ridotto, ma lo slancio delle sue linee e le sue armi
di difesa reggono il paragone con quelle di altre cime ben più note e
blasonate.
Non
so dirvi quanti occhi pre e post-incaici si siano posati nel tempo sulle
sue appuntite sommità. Qualcosa di più so a proposito dei piedi che le
hanno raggiunte e calpestate: poche decine in circa cinquant’anni.
Se
qualche satellite vagante avesse allungato il suo occhio-telecamera sul
punto più alto dello Shaqsha, 5703 metri, l’11 giugno 2005 l’avrebbe
trovato inaspettatamente affollato. In
effetti, otto alpinisti tutti insieme è senz’altro un record, per
questa montagna; un gruppo fifty-fifty
peruviano-italiano con tanti differenti obbiettivi specifici (prima
ripetizione della via “Ugo De Censis” aperta un anno prima dalle Guide
della Scuola Don Bosco en los Andes di Marcarà; prima salita italiana;
presa d’atto delle condizioni, purtroppo pessime, della cresta tra le
due cime) e un unico grande obbiettivo comune, quello di suggellare un
gemellaggio duraturo fra la Scuola di Marcarà e la Scuola di Alpinismo e
Scialpinismo “Adamello – Tullio Corbellini” del CAI di Brescia.
Obbiettivi raggiunti con grande soddisfazione di tutti; oltretutto, la via percorsa si presenta decisamente interessante e meriterebbe di diventare una “classica” per il tracciato e per l’ambiente nel quale si sviluppa.
Inutile
sottolineare che va affrontata con condizioni sicure, vista la costante
presenza di seracchi e di cornici sommitali di assai dubbia stabilità.
I pochi passi fatti sulla cornice di vetta hanno permesso a tutti di accertare la assoluta inconsistenza della neve, e anche che tale problema si presentava per tutta la cresta di collegamento fra la cima e l’anticima: a ciò si deve aggiungere, purtroppo, che tale tratto è anche caratterizzato da una vertiginosa parete Est sul cui versante è impensabile passare (la nostra tanto sperata esile cengia si è rivelata solo un sogno) e da un versante Ovest un po’ meno ripido ma di misto con neve inaffidabile.
Insomma, una cresta molto affilata e ad alto rischio: è bastato a tutti noi uno sguardo per tirare le conclusioni del caso: “magari un’altra volta …”.
Con
cinque figli formate una famiglia numerosa; con dieci una squadra di
calcio.
Marina
e Giancarlo di figli ne hanno una cinquantina e hanno fatto una scuola. E
che scuola!
Il mio
spirito laico, proprio un attimo prima di oltrepassare il cancello di
questa Escuela, ha avuto, lo ammetto, una piccola incertezza, una fugace
preoccupazione; ma non per diffidenza, no!, direi più per accertare,
ancora una volta, la mia capacità di rispettare scelte, stili e modi di
fare che non sempre avrebbero, forse, coinciso con i miei.
Perché
l’Escuela “Don Bosco en los Andes”, nostro punto di riferimento
logistico e organizzativo per la spedizione “Shaqsha 2005”, è
dichiaratamente e profondamente ispirata ad una visione religiosa e
cristiana in tutti i suoi aspetti, dell’essere e del fare.
Non
c’è voluto molto per capire che i possibili dubbi sulle vere o presunte
distanze potevano essere lasciati fuori da quel cancello: mi ci sono
trovato bene, l’ho vissuta come casa per tutto il tempo e, se sarà
possibile, ci tornerò.
Che
dire di questa scuola?
Innanzitutto che è una realtà complessa fortemente radicata al territorio, alla vita e alla cultura locali ma che si caratterizza per l’aspetto propositivo e innovativo; si pone, insomma, come riferimento e stimolo, e non solo come aiuto, nei confronti di giovani che, nella stragrande maggioranza dei casi, non avrebbero altra prospettiva che una vita di miseria. Offre a questi ragazzi la possibilità di un lavoro che non li allontani dal loro paese, anzi che li renda addirittura consapevoli della bellezza e della ricchezza di opportunità dell’ambiente in cui vivono e in cui, soprattutto, si muovono con una naturalezza e una facilità che spesso non possono che risultare disarmanti. Li forma come portatori di alta montagna e, se si individuano capacità, volontà e attitudini, apre loro la strada per diventare guide alpine internazionali. E questo già basterebbe di per sé.
Ma,
come ho accennato precedentemente, Giancarlo, Marina e tutti i ragazzi,
formano anche una famiglia, una grande famiglia; molti di loro trovano
nella realtà della scuola quello che nelle rispettive famiglie biologiche
non hanno mai ricevuto; ascolto, condivisione, responsabilizzazione.
Un’attenzione vera, oserei dire “preoccupata”, accompagnata da una
disciplina che, in alcuni casi, ad un occhio esterno può sembrare perfino
eccessiva, ma che trova il più delle volte spiegazioni nei risvolti e
nelle pieghe delle diverse personalità e dei differenti caratteri di
ognuno di loro.
L’edificio
stesso è un’oasi, con i suoi grandi spazi dei cortili (di cui uno fa da
campo di calcio), una grande cucina, un ampio refettorio, le camerate
dei ragazzi, le stanze per gli ospiti come in un nostro moderno rifugio,
gli ottimi servizi. Vale la pena di aggiungere anche la costante vista
della cima innevata del Copa, uno dei tanti seimila della Cordillera
Blanca, che si pavoneggia da mattina a sera sopra le vostre teste, in
tutti i colori del giorno.
È
una casa, non un albergo; ci si sente ospiti ma non clienti. Si
condivide la vita che vi scorre, sempre beninteso che ci si vada con lo
spirito giusto: e questo non sentirsi estranei è, almeno per me, uno dei
pregi di questa esperienza.
Con
questa Scuola abbiamo aperto un dialogo ricco di prospettive: faremo in
modo che possano concretizzarsi ed evolversi, con loro e nostra
soddisfazione.
Eros Pedrini
Brescia, marzo 2006