Prigionieri del Nanga

Una riflessione sull’himalaysmo contemporaneo, tra record e salite forzate

di Alberto Peruffo
 


Devo dirlo – simpaticamente – «senza bombole». Senza filtri.
Ciò che ho visto ai piedi del Nanga Parbat quest’anno è andato al di là di ogni mia aspettativa.
Anzi, prospettiva. Negativa e positiva.
Visto che quando partiamo – noi alpinisti – partiamo sempre senza aspettarci niente. Neppure il ritorno.
Mi sono trovato tra due fuochi e faccio quasi fatica a raccontarlo.
Tra il commerciale e l’irrazionale. Vorrei tuttavia parlarne.
Considerate questo intervento una specie di anticipazione scritta di ciò che mi piacerebbe intavolare dal vivo con le persone, gli amici, i contrari, gli alpinisti, e non solo, che hanno la voglia di confrontarsi.
Il primo incontro lo farò ad Oltre le vette, a Belluno, il 10 di ottobre 2022. Per altri, resto a disposizione.
Premettendo, come diceva il mio amico recentemente scomparso, Vitaliano Trevisan, grande scrittore, «sono responsabile di ciò che scrivo, non di quello che gli altri interpretano».

Ecco per sommi capi, dieci, quello che ho visto. Vissuto.

1. Mi sono trovato formalmente leader di una spedizione di cui non volevo essere leader. Nel senso che per la prima volta mi sono affidato a un’agenzia per una spedizione alla “normale” di un Ottomila. Avevo un desiderio. Anzi, avevamo. Che il mio compagno di molte spedizioni esplorative raggiungesse la cima di uno dei 14 giganti.
Ho scelto il Nanga Parbat per varie ragioni, soprattutto perché avevo già fatto una normale “facile” molti anni fa. Non volevo ritrovarmi in quella situazione. Non solo. Il Nanga, dal punto di vista storico, è molto importante e possiede storie e microstorie come nessun altro, storie che mi hanno sempre affascinato. Più di tutti gli altri.
E poteva essere il preludio al mio studio dal titolo «Alpinismo e Neocolonialismo».
Arrivato ad Islamabad, quindi, mi sono trovato a firmare il documento governativo come leader di una spedizione internazionale, con nomi anche noti dell’alpinismo italiano, tra cui vecchi amici e conoscenze, che non sapevo neppure che partissero.

2. Al Campo Base del Nanga, dopo aver appreso nomi-cognomi-abitudini dei miei compagni e delle spedizioni contermini, tra cui alpinisti davvero forti e molto più esperti di me – di “ottomilismo”, una specie di patologia di “bassa quota”, nelle diverse accezioni – mi sono stoicamente adattato. Mi sono infatti trovato circondato da nomi conosciuti dell’alpinismo internazionale, alcuni molto socializzati, altri meno, come il turco Tunç Findik (al suo ultimo Ottomila), gli italiani Marco Confortola e Mario Vielmo (al loro 13° ottomila), il “vecchio amico” Tarcisio Bellò, argentini, polacchi, rumeni, belgi, ma anche una buona e inconsueta presenza femminile, come la discreta e gentile svizzera Sophie Lavaud, al suo 13° ottomila; o la nuova stella del firmamento mediatico, la norvegese Kristin Harila, che sta tentando di superare il record dello sherpa Nirmal Purja (14 Ottomila in sei mesi); c’era poi la giovane britannica Adriana Bownlee, sempre in cerca di record e di fama, al suo 8° ottomila, ad appena 21 anni; infine una giapponese eterea, rarefatta, che non sono mai riuscito a inquadrare. Neppure il giorno che è scesa dalla cima.

3. Tutti questi alpinisti erano e sono più o meno accomunati dall’aver avuto la salita preparata dagli Sherpa (nepalesi), o dagli High Porters (pakistani), con grande utilizzo di corde fisse, campi installati e, le ultime citate, facendo uso di ossigeno supplementare. Insomma, una montagna totalmente addomesticata. O quasi. E questo non era ovvio. Almeno per me. Come non lo era «l’abuso di Sherpa» a cui ho assistito. Pure da parte di coloro che chiamerò “alpinisti accreditati”. Soprattutto al cospetto della parete Diamir dove Reinhold Messner fece la prima salita solitaria di un Ottomila, senza ossigeno e completamente “by fair means”, nel 1978, a suggello della celebre formula di Albert Frederick Mummery, il profeta dei mezzi leali. La stessa parete dove Reinhold perse nel 1970 il fratello Günther e di cui all’inizio della spedizione è stato ritrovato lo scarpone destro, identificato grazie a un controllo incrociato sui libri che avevo portato con me, scarpone logoro che ci era stato consegnato prima di essere spedito in Italia, dopo avere avvisato personalmente lo stesso Messner. Uno scarpone che più o meno abbiamo visto portato in scena (presumo una sceneggiata) il secondo giorno che eravamo al Campo Base, da due pastori/cacciatori del luogo. Chissà quando e come l’avevano trovato… Tutto è ipermediale, nell’era digitale. Anche una reliquia emersa da un ghiacciaio, dalla storia.

4. In fatto di storia dell’alpinismo, della straordinaria storia del Nanga – a partire dal fatto che l’himalaysmo nasce qui con il citato Mummery nel 1895 – ho vissuto il mio massimo sconcerto. Prospettico. E qui parlo al singolare.
Non vorrei esagerare nel dividere un sentimento che solo chi ha letto molti libri di storia dell’alpinismo – e fatto un po’ di pratica – può provare. Nove su dieci (9 su 10!) degli alpinisti accreditati, diciamo pure il 90 per cento, conosceva poco o nulla della montagna. Poco si sapeva della via Kinshofer, la “nostra” via.
Chi fosse questo personaggio, primo salitore della Nord dell’Eiger invernale (anche solo per prendere le misure!) era un dettaglio laterale. Si sapeva per interposta memoria che Messner qualcosa aveva fatto, di qua o di là, Rupal o Diamir, sui due versanti chiave. Su quale dei due, poco importava.
Se poi si parlava della Cresta Mazeno, magnifica e terribile presenza, sempre rutilante di fronte a noi, con valanghe quotidiane, ultima tra le grandi imprese entrate di forza nella storia dell’alpinismo contemporaneo, il dieci per cento scendeva all’uno per cento, soprattutto in fatto di qualità. Delle altre superbe salite – Kukuczka, House, Lafaille – niente. Sul gossip Moro-Nardi-Txikon, molto. Per fortuna – dovuta al mio instabile lavoro – avevo con me la mia classica “montagna di libri”, piuttosto radicale, che ho condiviso con tutti.
Ovviamente chi leggeva rimaneva affascinato da tutta questa grande storia, misconosciuta.
Vi ricordate… La “Montagna Nuda”. Nuda pure dai pregiudizi che la stessa storia alimenta.
Come la “Montagna Assassina”? Quasi fosse lei e non noi responsabili del nostro destino.
Di voler affrontare il caso. Senza alcun fondamento di necessità.

5. Ecco. Il caso. Le valanghe cadevano costanti e il loro soffio giungeva al Campo Base. A volte pesantemente. Questo bisogna dirlo. La montagna di per sé era e rimane pericolosa. Sia per il clima alterato, sia per le bizzarrie del meteo. Alcuni esempi. Il secondo giorno, anzi, la seconda notte, terminata la cena, stiamo per entrare nelle nostre tende e metterci nel sacco a pelo, e, improvvisamente, sentiamo un vento forte, strano, orizzontale, che “soffia” neve attraverso le fessure laterali… Ci attacchiamo alle tende per tenerle in piedi! Poi grida di richiamo, confuse, all’esterno. Apriamo le zip e, incredibile, la nostra super tenda mensa a igloo, pesante, con paleria tubolare di metallo, che avrebbe dovuto essere il nostro rifugio… per tutta la spedizione… non la vediamo più. Scomparsa improvvisamente. Spazzata dal soffio di ciò che capiamo essere stata una grande valanga.
La troveremo cento metri più a valle, nel buio della notte, alla luce delle pile frontali. Il giorno seguente, durante il nostro primo approccio alla parete Diamir, un valangone si stacca dalla vetta. È talmente enorme che ad un certo punto desistiamo dal filmarlo… Un “leggero” soffio ci ingloba… Ci chiediamo: ma quanto grande era la valanga della notte precedente per aver divelto la tenda mensa, se questo soffio appena ci tocca?
Insomma, cominciamo a prendere le misure di una montagna davvero grande, insidiosa, affascinante.

6. Tutto sommato la via Kinshofer, dopo una settimana di su è giù, sembra essere piuttosto protetta, sicura.
Ma sta per abbattersi sulla montagna un periodo di forti ed eccezionali nevicate, nel mentre arrivano, attrezzatissime, le prime spedizioni commerciali. Più una sportiva, fortissima.
La spedizione dei Valdostani guidata da Marco Camandona, con François Cazzanelli.
Non mi dilungherò sui dettagli e le strategie alpinistiche. Dico solo che la salita del peruviano Cesar Rosales assieme ai Valdostani, di cui nessuno parla, soprattutto chi non ha raggiunto la cima e fa comunicati di giustificazione, è stata una salita super. Sia per i valori sportivi, sia per i valori sociali. Ve la racconterò a parole.
Aggiungo una postilla, una riflessione personale, a merito e demerito dei miei forti compagni accreditati: chi non ha raggiunto la cima non l’ha raggiunta solo per il meteo contrario, ma per una composizione di ragioni abbastanza complicate, piuttosto evidenti. In nuce, riportando i fatti, ecco la mia opinione, utile per futuri salitori: hanno sbagliato strategia, andando a stancarsi sulla neve profonda del Ganalo Peak per poi restare troppo in quota nei campi del Nanga, portando spesso sulle spalle zaini monumentali, sia loro alpinisti, sia gli Sherpa al loro servizio; bisogna sottolineare che non hanno usato, coerentemente con le loro idee (che sono anche le mie), ossigeno supplementare, contrariamente alle spedizioni eminentemente commerciali che hanno raggiunto la cima (ma anche Cesar e compagni non hanno usato l’ossigeno, ricordiamolo!); essendo stati lenti in strategia, e poi nei movimenti, il rischio del canalone Kinshofer è aumentato di giorno in giorno, rendendolo, gli ultimi giorni, nell’ultimo tentativo, davvero pericoloso (ma non direi drammaticamente mortale, come qualcuno ha scritto); infine, tutti quelli non arrivati in vetta sono stati troppo succubi e condizionati dagli Sherpa (che sono stati pagati per attrezzare addirittura “tutta la via”, fino alla cima!), tanto condizionati da non muovere un passo senza di loro.
Succubi pure delle troppe previsioni digitali. Multilaterali. Diventate un incubo.

7. Sul fronte opposto, chi ha raggiunto la cima, a parte Cesar e i Valdostani, e due “Pakistan High Porters” – che non hanno tirato il pacco ai loro clienti come invece alcuni Sherpa nepalesi hanno fatto, ritirandosi per presunte pessime condizioni – tutti – Harila e compagnia – hanno usato l’ossigeno. Devo dire che l’hanno usato in modo educato e moderato, dal Campo 2. Ma l’hanno usato. Aggiungo pure che Kristin – che ho intervistato appena scesa – è una “grande signora”, una ragazza determinata e affascinante. Mi ha impressionato positivamente come persona. Lo stesso, la svizzera Sophie, che non ce l’ha fatta. La prima detiene ideali da femminista piuttosto evoluti, la seconda ideali di altruismo e di sano alpinismo classico, anche se condito a volte di troppa “normata” filantropia, come accade spesso a molti alpinisti per dare senso al proprio alpinismo (e ai propri sponsor, per raccogliere fondi). Di questa forma di femminismo e filantropismo, che rischia derive neocolonialiste, vi dirò sempre a voce o in altri articoli. Ma di un fatto sono certo: nessuna o nessuno di costoro, a parte la Sophie che ha una lunga storia, avrebbe potuto raggiungere la vetta del Nanga, o di altro Ottomila, con le proprie gambe e con la tecnica in uso. Almeno del momento. Possono comunque farcela, un giorno, se vogliono abbandonare questa pratica indubbiamente discutibile fatta di abuso di corde, portatori, ossigeno.
Se questa pratica pesante ha portato al campo base del Nanga Parbat supponiamo 100, per ordine di grandezza, persone, al K2 pochi mesi dopo erano in 1.000, all’Everest più di 10.000. Con tutta la spazzatura e gli impatti socioambientali che non sono affatto trascurabili. Né ieri, né oggi. Soprattutto per l’immaginario che veicolano, quello di un rinnovato colonialismo prettamente turistico e antisociale per i territori di prossimità, nel nostro caso il Pakistan. Vi sottopongo un dato sconcertante: tutte le spedizioni internazionali al Campo erano gestite da nepalesi, in stile troppo occidentale. Non da pakistani. A parte la nostra, e una di ex-militari.
In sintesi: tutte le spedizioni citate non hanno avuto relazioni di prossimità con la gente del posto, se non come servitù da campo. Servitù spesso ostentata, pretesa, come ho visto con i miei occhi da parte di alcuni alpinisti italiani, poco accreditati.

8. Che senso ha tutto ciò? Hanno vissuto momenti di libertà e solidarietà gli alpinisti che hanno salito il Nanga con bombole d’ossigeno, corde esagerate, sherpa condizionanti, o sono stati prigionieri del loro sogno di competizione, di egocentrismo, di professionismo, di primato nel mondo dei primati, mettendo a serio rischio la propria vita e di coloro che erano al loro servizio, depauperando pure le culture locali? Posto l’assunto in cui credo da quanto ho iniziato a fare alpinismo – la montagna è di tutti, ma non per tutti – declinato alla crisi climatica, al ritiro dei ghiacciai, in parte dovuta agli effetti globali dell’accelerazione provocata dal modello consumistico occidentale, alle sue conseguenze sociali e ambientali, sia su grande scala, sia su piccola (al campo base, come nella vita di tutti i giorni, si replicava lo standard di vita d’occidente e il suo pensiero monolitico), alla spazzatura che ho visto accumularsi nei campi e fuori campo (nessuno ha ritirato i chilometri di corda, ad esempio, e molta spazzatura è stata infilata in fosse ai margini del campo base), rispondo a quelle domande con un no. Un sonoro NO.
Non ha nessuno senso di libertà, tanto meno di solidarietà, ovvero di solida relazione tra le parti in causa: montagna, alpinisti, abitanti, portatori. Questo alpinismo va relegato nell’appendice del non-alpinismo, ovvero sia di quello che è meglio non fare. Un turismo d’appendice. Quando si diventa prigionieri dei propri sogni. Spesso costruiti da immaginari poco esemplari. Vedi l’alpinismo veicolato da certi personaggi massmediatici.
Insomma, un turismo d’alta quota, bene organizzato, con rifiuti fisici e culturali non smaltibili. Il tutto normato dalle nostre menti e normalizzato dalle agenzie.

9. Cosa possiamo fare? Porre divieti? No. Porre sanzioni? No. Porre insulti? Meno che meno. Possiamo parlarne. Anzi. Possiamo delegittimare tale forma di alpinismo, esautorare dalla loro presunta autorità gli alpinisti che pretendono di farlo senza raccontarci i dettagli delle loro salite (ossigeno, portatori, corde, resti, mezzi esagerati). In questo modo si dissolverà, piano piano, dal nostro immaginario, dalle nostre riviste, dai nostri discorsi, dalle nostre conferenze il loro eroismo e i nuovi falsi miti. Coloro che lo faranno non saranno più eroi, o eroine, ma appendici anacronistiche di un alpinismo senza senso che non sarà più chiamato alpinismo.
Appendici che spariranno dalle pratiche comuni e resteranno relegate – per l’appunto – nelle cronache di appendice. Come molte salite degli eroi supermediatizzati. Spariranno dal nostro immaginario, sepolti dalla stessa forza autodistruttrice che li ha generati. Senza reale capacità di ricerca. Ma solo superficie e gossip.
Ci vuole altro per dare origine ad un sogno di libertà.

10. Lo sappiamo. È sempre una questione di immaginario. Collettivo. Non possiamo farci niente. Siamo bestie sociali. Per cominciare a decolonizzare il nuovo immaginario che l’Occidente turistico ha imposto all’Oriente dalle tradizioni armoniose – sicuramente meno competitive, a parte qualche eccezione, vedi Nimal Purja – direi di cominciare esautorando la pratica dell’uso dell’ossigeno. Cominciamo a dire che tutti coloro che saliranno un Ottomila con l’ossigeno non fanno alpinismo, ma una pratica drogata di uno sport alpino, molto pericolosa.
Non occorre ripetere i dettagli di cosa rischiano, se si mette nel piatto della bilancia l’incompetenza tecnica innestata in una chiusura imprevista dell’erogazione del liquido vitale artificiale. Tale pratica non è alpinismo. Punto. Ce l’abbiamo fatta con le moto in montagna (salvo le classiche eccezioni e nuove invenzioni), a prescindere dalle leggi sanzionatorie. Chi va oggi sui sentieri in moto è considerato uno scemo.
Possiamo farcela anche con l’ossigeno. Ci sono migliaia di montagne bellissime e a quote più accessibili (“per tutti”) per far lavorare nepalesi, pakistani, il mondo intero, pure le guide, e vivere una libertà concreta e responsabile.
Lo dico a noi occidentali che vogliamo liberarci dai nostri peggiori retaggi storici. Ognuno ha i propri. Riconosciamo i nostri. Liberiamocene. Respireremo tutti meglio. Senza bombole e condizionamenti dal mondo del mercato che nelle pratiche libertarie (o liberatorie) mai dovrebbe entrare, e invece entra per la finestra lasciata aperta dal nostro ego e da chi sa manipolarlo per i propri interessi. Un mercato che non è mai scontato. Come ho visto sul Nanga Parbat.
Ma “contato”. Condizionato. Condizionante. Che trasforma il sogno in una prigione.
Questo ho visto negli occhi dei miei compagni accreditati. Me l’hanno confessato pure a parole. Una prigione.
Il mercato dell’ego – la sua incarnazione individualistica – ci porta a fare l’errore più grande che possiamo “immaginare”: portare in una piazza troppo pubblica – il mercato globale – la nostra stessa piccola libertà.
La nostra più meravigliosa azione. Sulle montagne del mondo. Si fa un errore di dimensione. Di relazione.

Che palle… contare 8000 metri di condizionamenti. Le corde, l’erogatore, gli sherpa, le previsioni, gli sponsor, i social… Dai, cambiamo storia. Cambiamo aria.
Respiriamo quel poco di ossigeno che ci viene incontro, prima di lasciarlo alle generazioni successive.
Se ne siamo capaci. Altrimenti restiamo a casa. Creeremo meno danni.

Buone montagne.

Alberto Peruffo

Prigionieri del Nanga
Montecchio Maggiore, 22 settembre 2022