A te...

di Gaetano Soriani


A te che non sai scalare le montagne ma sai affrontare ben altre difficoltà tutti i giorni,
a te che non hai bisogno di scalare le montagne per dimostrare a te stessa che ne sei capace,
a te che non ti abituerai mai alle mie partenze e che resti in attesa del mio ritorno
col cuore sospeso senza capire fino in fondo cos’è che mi fa partire,
a te con amore e riconoscenza dedico questi pensieri.......


Una domenica pomeriggio di metà gennaio chiuso in casa a guardare fuori dalla finestra la nebbia che gocciola dagli alberi spogli in una tristezza infinita.
Mi faccio una tisana alla cannella per tirarmi un po' su.
Mi siedo con la tazza bollente fra le mani vicino al letto di mia madre e ne ascolto il respiro lento e regolare.
Se perdi la memoria perdi tutto, l’Alzheimer cancella i ricordi di una vita” cosi recita lo slogan di un sito internet su questa tremenda malattia, la malattia che ha colpito mia madre.

L’alzheimer è una malattia progressiva, degenerativa e irreversibile durante la quale il malato perde la memoria e diventa sempre più dipendente dagli altri”.

E così mi trovo qui in questo uggioso pomeriggio invernale combattuto fra i sensi di colpa per non essere abbastanza presente a casa e il prepotente richiamo della montagna che, come ha scritto Enrico Camanni nella prefazione del libro “In su e in sé” di Giuseppe Saglio e Cinzia Zola, è definita come “una musa irresistibile ed esclusiva, una specie di diabolica amante che non invecchia mai”.
L’anno appena trascorso è passato così rubando qualche giorno, qualche fine settimana scappando in montagna abusando della disponibilità di mia moglie secondo il modello “mordi e fuggi” ma lasciandomi un gran senso di vuoto e di insoddisfazione.

Sul comò accanto al letto una vecchia foto in bianco nero attira la mia attenzione, ritrae mia madre seduta in seggiovia in una località dell’Appennino (forse Sestola) nei primi anni '50.
E’ giovane e bella, con i capelli biondi al vento e un'espressione serena sul volto, ben diversa dal mucchietto di pelle e ossa che giace nel letto vicino a me.
Mi prende una strana commozione, un misto di pietà, di tristezza e di impotenza.

Mi ritrovo così a cercare fra vecchie foto i ricordi di una vita.
I miei primi anni al mare sulla spiaggia vicino ad un “moscone” o intento a giocare con la paletta e il secchiello sulla sabbia. Mia madre con un grande cappello di paglia e occhiali da sole seduta sullo sdraio e poi altre persone che non conosco forse amici o parenti.
Guardando queste fotografie non provo però alcuna emozione, sono troppo lontane da me e non mi appartengono.

La montagna era ancora lontana e sconosciuta, sarebbe arrivata solo molti anni dopo.

Mi vien voglia di andare a prendere le foto di un passato più recente, quelle dei miei figli, di mia moglie e delle nostre vacanze quasi a cercare una identità perduta.
Vado quindi a prendere alcuni album fotografici e una vecchia scatola da scarpe piena di foto che non guardo più da anni.
L’avvento delle fotocamere digitali ha rivoluzionato il mondo della fotografia e si è perso l’uso del cartaceo.
E’ sparito tutto un mondo un po' misterioso fatto di pellicole, di laboratori di sviluppo, di alchimie e di stampa.
Non più acidi e fissatori ma “pellicole” digitali, non più cristalli d’argento ma “pixel”.
Già prima di scattare una foto occorreva ragionarci su, si cercava la luce giusta, l’inquadratura più adatta, la messa a fuoco e si sperava in una bella istantanea.
C’erano poi dei tempi da rispettare per poter vedere le immagini scattate, prima bisognava finire il rullino poi si portava dal fotografo e occorreva aspettare almeno qualche giorno. Tutti elementi che concorrevano a creare un clima di attesa e di aspettative che spesso venivano deluse dai risultati.
Oggi con la tecnica digitale si ha tutto e subito, si scattano a volte decine e decine di foto inutili per poi cancellarle una volta visionate sul computer.
Tutto è diventato sicuramente più pratico e veloce, ma personalmente ritengo che la stampa ha sempre un suo fascino particolare sopratutto con il bianco e nero.

E così comincio a guardare prima nella scatola dove ci sono le foto più vecchie.
E’ come aprire uno scrigno magico e mi lascio trasportare dalla nostalgia dei ricordi.
Io e il mio vecchio amico Toni ritratti sulla cima del Col Rosà di fianco ad una vecchia croce fatta con due pezzi di legno con gli scarponi di cuoio e i pantaloni alla zuava.
In un’altra siamo sulla ferrata Tomaselli con i ghiaccioli che pendono dal cavo dopo un temporale, in un’altra ancora siamo sulla Punta Anna.
Erano le nostre prime esperienze alpinistiche, cominciammo dalle ferrate perchè ci sembrava più facile, poi cominciammo a fare le prime vie normali Antelao, Pelmo ecc...
Quanti ricordi.
Nelle foto delle prime ferrate eravamo semplicemente legati con una imbragatura a corda fatta con un cordino da 6 millimetri e due moschettoni a pera che ho ancora e che utilizzo come porta materiale.
L’imbrago vero e proprio, il dissipatore e il caschetto vennero in seguito.
Mi abbandono alla nostalgia delle immagini, foto dei miei figli nei vari rifugi, in una di queste, scattata da mia moglie, sto facendo arrampicare mio figlio su un sasso in 5 Torri.
In un’altra io con mia moglie e i ragazzi su un nevaio nei Cadini di Misurina.
E poi ancora foto del corso di alpinismo, la mia prima corda, le prime scarpette (due Mariacher gialle e viola).

Mi accorgo che la scatola di cartone con le sue vecchie foto in parte dimenticate rappresenta l’anello di congiunzione fra quello che ero e quello che sono.

Un colpo di tosse di mia madre mi riporta alla realtà, il tempo è passato in fretta, fuori è già buio.
Mi alzo e mi chino su di lei "come stai mamma? mamma mi senti?" – per risposta mi guarda con gli occhi assenti e mi fa un sorriso di bambina.

Gaetano Soriani
Cento (Ferrara), gennaio 2011