La sinfonia delle ombre al Canto Alto

di Nevio Oberti
 

Tardo pomeriggio di un sabato che sembrava si stesse consumando con pigrizia e una punta di noia.
E si che il sipario si era aperto su una stupenda mattinata: cielo terso, aria frizzante, temperatura piacevole. Ottimo prologo!
Proprio un perfetto invito a partire per godersi lo spettacolo; tranne che impegni vari avevano congiurato per impedirlo e la giornata stava scivolando via indifferente.  
Ma il tardo pomeriggio alla fine ha portato il suo soffio e complice un passaggio ad una persona da portare in città, ecco che la prospettiva cambia e si fa spazio bussando piano piano, un po’ timida all’inizio… e... perché no?
L’idea si fa strada da sé, come una piccola cosa giusto per godersi qualche ora di questa invitante giornata: una piacevole passeggiata sul Canto Alto.
Là in cima, sotto la grande croce ad ammirare il tramonto, a godere del silenzio.
Allora via. Si parte!
Nella salita incrocio un bel po’ di gente che ormai scende. Sto andando in controtendenza.
Saluti e sorrisi reciproci incrociandosi lungo il medesimo sentiero.
 

La salita.
I primi passi. Il sentiero prende forma davanti ai piedi, agli occhi, ai pensieri.
Il ritmo è da trovare, lo sguardo comincia a sventagliare l’orizzonte che si fa via via più prossimo, chiuso tra gli alberi. Indugio sui dettagli: la corteccia, i primi fiori, foglie secche, nuove gemme sui rami. Fine e inizio fusi in un’unica danza. Là in fondo la meta.
Che non è mai proprio del tutto e sempre una meta. A volte è solo una scusa.

Cammino verso i Prati Parini con la luce che lentamente fa cambiare colore al paesaggio allungandone le ombre e sembra che con la luce a piccoli passi si ritirino anche i suoni: divengono attutiti, ovattati, come timorosi di accogliere la sera che arriva o di salutare il sole che scende. L’aria, l’atmosfera, i colori sono ancora odoranti d’inverno, anche se uno spruzzo di primavera inizia a far capolino. 

I passi.
Pensieri che si susseguono. Inanellati. Ritmo che danza e canta a battito del cuore. Sul sentiero.
Ma che tanti ne incrocia e diviene trama e ordito di un tappeto. Ove la perfezione è solo divina.

Incontro un po’ di neve, poca per la verità, ma sufficiente a rivestire con un tocco d’eleganza le piccole radure che si aprono nel bosco. Non c’è proprio più nessuno in giro. Dal basso giungono i rumori lontani del traffico lungo la Val Brembana.

La vetta.
Eccola.
Con la grande croce. Segno di riconoscimento, di storia, di cultura. Di tutto ciò di cui siamo fatti e che spesso dimentichiamo. O, per contingente convenienza, celiamo.
Un po’ di neve. Il monte pezzato. Ormai manca poco. Viene quasi voglia di correre, ma il sole è ancora lì.
Si può far piano. In ogni caso lentamente. Ci vuole rispetto per questo monte. Per la montagna. Per la cima.
Che arrivati in vetta ci regala sempre la leggerezza di esserne qualche metro sopra.
 

Arrivo in vetta con ancora il tempo per poter dare uno sguardo panoramico e riconoscere le cime visibili da un lato e la foschia che intorbidisce la pianura dietro i colli di Città Alta dall’altro.
Il sole inizia ad arrossare e il colore si diffonde e cola a impregnare anche le nevi dei monti più lontani.

L’attesa.
Il sole che lento scende a coricarsi, prima sotto la coltre delle foschie per poi calarsi dietro il confine dell’orizzonte. Il mutare silenzioso dei colori. Cosmico movimento. Consapevoli o meno ci circonda e ci conduce. Che lo si voglia o no: c’è!
 

I segni.
Neve pestata dai tanti che prima sono passati. Che con altri occhi e altri cuori hanno guardato dove ora io guardo. Mai comunque si è soli.
 

Il freddo.
Che prima si affaccia piano, quasi timoroso. Per poi, invigorito, avanzare deciso ad abbracciare l’aria.
 

L’orizzonte.
Limite! Meraviglia! Stupore! Linea che pone vincolo e coniuga a sé apertura. Verso dove? Verso chi?
Solo iniziando a muovere passi si potrà dare speranza alla speranza di poterlo scoprire.

Il buio.
Gemello discorde del sole. L’uno non abita la stanza dell’altro.
Ma l’uno non è senza l’altro. Discordi ma essenziali all’altro l’uno.
 

Accendo la lampada e inizio la discesa. Mi accoglie il bosco che sembra silenzioso ma in realtà è brulicante di suoni. Nel buio ormai padrone, a passo lento, mi avvio al ritorno accompagnato dall’alone della lampada che illumina i passi e i tronchi vicini.

La discesa.
Ora per altra via. Alle spalle resta che in quel luogo ci sono stato e per me quel luogo prende senso.
Luoghi e persone si somigliano. Quando li incroci è per sempre.
In un gesto, un ricordo, un respiro, un profumo, un’immagine. Geografia dei luoghi e geografia delle persone.
Il buio ora circonda e tutto avvolge. Solo il piccolo alone della lampada a indicare la strada.

Ecco la macchina che mi riaccompagnerà a casa. Il monte è ormai alle spalle ma mi ha regalato un piccolo scrigno di attimi veramente belli, unici: sapidi. Sembrava una cosa da nulla, un inganno alla noia, una passeggiata dietro l’angolo di casa... mai dimenticarsi che esiste lo stupore.

Nevio Oberti
Bergamo, febbraio 2011

 



Sono le 18:30 del giorno dopo la magica notte di Santa Lucia. L’autunno è inoltrato, l’inverno si appresta ad entrare, è una notte “di mezzo” e come tutte le ore di mezzo, carica di incognito e di possibilità.
E da dove se non dalla Terra di Mezzo poteva la Compagnia muovere i nuovi passi verso il Chissàdove?
Il sole è ormai un ricordo nella memoria degli occhi che ora cercano di abituarsi al buio, finché scoprono che è meglio lasciare invece che sia questa oscurità a prendere il suo spazio e allora capiscono che altro non è, questa oscurità, che una diversa sembianza di luce.
Un’altra modalità di visione: come prendere sentieri diversi, che sempre sentieri rimangono.
E allora via. Zaino in spalla e in cammino lungo questo sentiero tante volte percorso ma che ora, illuminato dall’oscurità rotta dalla bianca polvere lunare che filtra tra gli spogli alberi come uno spirito guida, sembra un mondo a parte. E lo è!
Veramente è un mondo a parte, fattosi alieno di riflesso alla nuova luce che gli occhi, arresisi al tramonto, su di esso posano. I colori si sono ritirati a celarsi in una varietà si sfumati chiaroscuri che ammantano le sagome degli alberi e delle pietre donando loro un’apparenza nuova.
Anche le forme e le pendici dei monti attorno si sono mascherate di una nullità che può tutto dire e nulla dire.
E qui, dentro il gioco delle metamorfosi, dove le luci lasciano spazio alle ombre e le ombre si illuminano delle luci, una stella cadente ci ha accolti: il monte ci ha portati in alto, il cielo ci è venuto incontro.
In mezzo è il nostro luogo, il nostro incedere con passi che incrociano e si ingarbugliano nel mandala di segni che i rami proiettati dalla luna incidono sul terreno.
Dentro questo mondo ci muoviamo accompagnati dai rumori dei nostri movimenti, di quelli delle presenze del bosco, dalle nostre voci che sembrano vivere nel buio di timbri che altrove non coglieresti: e sopra a tutto, tutto avvolgente, si respira la presenza dell’ospite che premuroso ci schiude le porte della sua intimità.

Il sentiero ci conduce in alto piegandosi e curvandosi in tornanti che sembrano, con i giochi delle ombre, voler ingannare il percorso o crearne di nuovi, tanto ogni strada va bene per il luogo ove prima o poi comunque si giunge – ma è veramente così importante giungere in un qualche luogo?
Oppure è ogni momento dell’andare esso stesso una meta? - mentre fra i tronchi e i rami bui le luci della città che sta sotto si fanno sempre più lontane divenendo da punti macchie e arrivano, come eco, il tocco di un campanile, gli ormai soffusi rumori di un’auto lontana che passa, qua e là il latrare di un cane: come giungessero da dietro una pesante cortina che racchiude un segreto.
E’ immensa la vicinanza di queste pendici alla città, quasi non fosse altro che la continuazione delle pendici stesse che la sostengono; di pari passo immenso ne è il distacco, l’esserne fuori le mura, quando pur vedendo poco sotto il groviglio delle strade e delle case, basta un passo per ritrovarsi nel selvatico respiro di un tutt’altro luogo.
Dalla cima, come su di una isolata torre che domina, osserva e protegge, volgendo lo sguardo attorno - ora che è notte lo si nota ancor meglio di quando è giorno - ecco l’assedio della città al monte, le propaggini delle strade e delle case, l’assalto delle luci che cercano di inerpicarsi sul monte, sempre più in alto e che tolgono il respiro alla notte, ci rubano l’esperienza del buio. Quell’esperienza che i nostri predecessori su questi passi hanno vissuto e che era totalmente loro, con le differenze nette tra il giorno e la notte, i loro ritmi unici e complementari, come quelli delle stagioni: il battito cardiaco della vita.
Abbiamo varcato il confine della notte, ci siamo lasciati avvolgere dal buio spolverato dalla luce della luna e dall’abbraccio del silenzio oscuro per comprendere come altro non sia questo andare che un raccogliere un invito. Una sinfonia che paziente ed instancabile attende ascoltatori.
Un canto che si eleva, alto, per vibrare e risuonare in ogni angolo in questo luogo di mezzo dove siamo e che ci invita a seguirlo. Ci è stato dato il rigo, facciamoci scrittura, non lasciamoci solamente scrivere.


Nevio Oberti
Bergamo, 13 dicembre 2013