La montagna che insegna la vita

di Monica Fortini 

Puntuale come sempre, questa mattina la mia compagna di cordata è passata a prendermi. Non dirò certo una cosa originale, ma penso spesso di avere avuto tanta fortuna ad incontrare una persona tanto simile a me nel tentativo di entrare sempre di più nel magnifico mondo della montagna . Ci stiamo affiatando, stiamo crescendo insieme, con impegno, sacrifici, fatiche e nella fiducia reciproca che, in alcuni casi, impone dei veri e propri atti di fede.
Stiamo imparando ad usare bene la testa. Studiamo i percorsi, cerchiamo di prevederne le difficoltà e di ideare, spesso con fantasia, le strategie migliori per superarle. Prima di un’ascensione, immaginiamo insieme il momento magico dell’uscita in vetta, vivendo in anticipo un "bozzolo" di quell’entusiasmo che ben conosciamo e che maturerà successivamente, quando tutto sarà finito e nella mente resteranno solamente i momenti più significativi.
Proviamo emozioni intensissime, specialmente se l’ascensione è stata in qualche modo sofferta e, per voi che sapete leggere tra le righe, quando non lo è?
Non mi è ben chiaro, e forse non lo sarà mai del tutto, che cosa ci spinge ad attaccarci su pareti verticali: un esercizio fisico, un gioco, una verifica delle nostre capacità, una sfida ad oltrepassare il nostro limite fisico, la ricerca di luoghi sconosciuti, la fuga dal grigiore delle cose quotidiane, un momento in cui lo scorrere del tempo non esiste più provocando una sensazione d’infinito, per la dipendenza da adrenalina, per sentire la vita scorrerci dentro, o più semplicemente per un bel "non lo so", qualsiasi cosa sia che ci spinge fino sulle cime, ci offre un’enorme gratificazione ed una profonda quiete interiore.
La vera emozione esplode dopo, quando tutto è finito e i muscoli incominciano a rilassarsi, permettendo al cervello di tornare in sintonia e di non litigare più con il corpo. Alcuni pensieri, nati durante lo stress della tensione, come: "ma cosa faccio qui? Me l’ha ordinato il dottore? Non stavo meglio sul divano a leggere le grandiose imprese degli altri?" perdono di forza una volta raggiunto l’obiettivo prefissato. Mano a mano che ci si allontana dal "vissuto", l’esperienza acquista contorni più marcati, perde le sfumature create dall’emotività, ed è vissuta attraverso altri canali emozionali, che si aprono solamente dopo una profonda elaborazione dell’esperienza provata.
Questa storia si è svolta su uno dei ghiacciai della Val d’Aosta. Ho deciso di non specificare il nome della montagna coinvolta, perché questa non è né la cronaca della sua ascensione né la descrizione dell’uscita in vetta ma, piuttosto, un tentativo di raccontare alcune impressioni e di comprendere quello che succede a "quelli come noi", quando sono oramai inesorabilmente colpiti da profondo amore per la montagna. E lo sanno bene questi "ammalati" che gli effetti speciali derivati dalle loro azioni non dipendono dalle difficoltà tecniche e ambientali, dalla quota e dalla cima che si vuole raggiungere. Per loro, l’importante è la Montagna.
Sarà infinitamente piacevole, per me, pensare che qualche "pikkiatello" leggerà il proprio nome tra le righe.

La "magia" della cordata

Nel momento in cui i nostri ramponi iniziarono a graffiare la neve ghiacciata, mentre una luce azzurrognola rompeva le ombre della notte, ogni angolo del mio corpo percepiva il momento delicato dell’inizio.
-"Un ennesimo controllo dell’attrezzatura e, se tutto è in ordine, si parte!" pensavo mentre i miei occhi correvano ad osservare minuziosamente qualsiasi cosa mi capitasse a tiro. La tensione della partenza, qualsiasi sia la difficoltà tecnica dell’ascensione, mi assale ogni volta e percorre il mio corpo come un’ondata sottile che parte dallo stomaco e si propaga fino alle estremità. Questo "effetto", causato dall’emozione, dura qualche minuto, trasformandosi poi in una profonda calma interiore in cui la mia mente diventa lucida, il respiro lento e profondo e rimane un solo pensiero in testa ed una strana e potente energia in giro per il corpo: la montagna.
Quel mattino, i nostri primi passi erano un po’ pesanti, eccessivamente cadenzati e i corpi, ancora intorpiditi e lievemente goffi, erano avvolti in un profondo silenzio. Questa quiete contrastava con quello che i miei occhi vedevano: numerosi lumicini ondeggianti in lontananza erano sparsi in modo ordinato sull’ultima lingua del ghiacciaio. Sembravano piccoli insetti luminosi, indaffarati a trasportare qualcosa su e giù, ed evocavano nella mia mente immagini fiabesche. Guardando i miei compagni di cordata, mi scappò un sorriso, come un preludio a qualcosa di bello ed emozionante.
La cordata. Un unico "organismo", fatto di singole persone, differenti tra loro ma che si muovono insieme per affrontare le bellezze e le eventuali insidie dell’ascensione. Un’unione sigillata non tanto da una corda, quanto dall’amore per la montagna, che non ha bisogno di spiegazioni e di parole inutili. Spesso basta uno sguardo per intendersi, ed in risposta c’è sempre un chiaro cenno degli occhi del compagno. Un modo profondo di comunicare. Quasi per magia.

Come ho imparato a comunicare così

Non è mai troppo tardi per imparare, anche quando si è convinti di sapere già abbastanza. Anzi, proprio in questo caso, si possono commettere gli errori più banali ma ad un prezzo molto elevato.
Un errore, capitato durante quest’ascensione, mi ha fatto comprendere quanto la "sincronia della cordata" debba essere curata per evitare delle possibili tragedie.
Dopo che la mia compagna si è legata a me e dietro a lei un nostro buon amico, già pratico di arrampicata su roccia, ma un po’ meno allenato su progressione in ghiacciaio, mi sono subito resa conto che il primo tratto di salita era tecnicamente banale, anche se ciò non esimia mai un buon alpinista dal tenere bene gli occhi aperti. In montagna la banalità è solo un’opinione.
In breve abbiamo raggiunto un tiro lievemente più inclinato e, mantenendo un buon passo, ci siamo portati quasi in coda ad una cordata molto lenta. Inesorabilmente lenta. Normalmente, un passo del genere mi esaurisce perché diventa noioso e, quindi, insopportabile. Mi sono girata verso la mia compagna fissandola un attimo ed in risposta ho ottenuto un deciso cenno di diniego, perché aveva ben intuito la mia idea di sorpassare. Ed è stato come se il suo pensiero spedisse un’eco dritta nella mia mente:
- "abbiamo appena attaccato, siamo freddi, io ho ancora un po’ di problemi aerobici. No. Non in salita"!
- "Ricevuto. Passo e chiudo".
Rigirandomi, fissavo il brevissimo spazio ghiacciato che mi separava dalla lenta cordata. Capivo che dovevo tenermi "a freno", ma ogni mio passo equivaleva ad almeno cinque della donna ansimante davanti a me, e perciò dovevo non solo rallentare, ma spesso ero costretta a fermarmi per non avvicinarmi troppo. Così ho incominciato a smaniare e a dare segni di nervosismo mentre pensavo tra me e me:
- "ecco! Proprio quello che non sopporto! Tra tutte le cordate dovevo incontrare quella con il soggetto rantolante! Non posso continuare così! E, poi, rischiamo di non arrivare in cima. Io, che in genere amo gli spazi infiniti, la solitudine ed i silenzi della mia montagna…".
Tutti questi egoistici pensieri erano come aliti di vento che alimentano tizzoni ardenti!
Ecco come un’idea rischia di concretizzarsi: mi sono girata di nuovo verso la mia cordata, ma in quel momento non incrociai i loro sguardi perché avevano gli occhi ipnotizzati dall’incessante alternarsi delle punte dei loro ramponi. Questo rese lecita la tattica che stava incalzando dentro di me. E così è stato.
Ho accelerato, forse nel punto più ripido del tratto, ho affiancato e superato in breve la lenta cordata.
- "Nessuna lamentela dietro! Vuol dire che va tutto bene" pensavo soddisfatta tra me e me.
Arrivati alla prima sosta, mi sono girata verso valle per recuperare i miei due compagni. La prima ad arrivare aveva lo sguardo inferocito ed agitava le mani davanti a sé in segno di "mai più"! Ed è, infatti, un tirato"non farlo mai più"! che uscì a stento dalla sua bocca contratta. In quel momento mi sarei scavata una truna! Osservando lo stato di affanno in cui l’avevo condotta, mi sono resa conto di non avere agito da buon capo cordata, e di non avere considerato noi tre come un’unica persona che deve affrontare la salita. Non credo che le semplici scuse siano sufficienti. Bisogna anche imparare e, questa, è stata una delle più grandi lezioni della mia vita. Mai più, amica mia!
Guardando arrivare il terzo compagno, con incedere lento ma meno sofferente, gli chiesi se tutto andava bene. Rispose con un tono indifferente "va benissimo!", come se parlassimo del tempo. Non sono ancora del tutto convinta di quel "benissimo" ansimato a denti stretti. In ogni caso non partirono imprecazioni da lui.
Proseguendo sul ghiacciaio, tra il superamento di alcuni brevi salti ghiacciati e roccette affioranti, spianate di neve su pendii più dolci, schiene d’asino e tratti più ripidi, mi resi conto che oramai era pieno giorno. La luce accecante rendeva tutto meno romantico e sembrava quasi spingermi ad essere più realistica: ciò che ci circondava ora non ci abbracciava più in una fredda ma rassicurante penombra, ci circondava e basta, rendendo tutto ben chiaro e visibile. Non più ombre, non più contorni imprecisati. Solo la luce bianca del giorno, che raffredda ogni pensiero.
Un’altra grande lezione, imparata molti anni fa, riguarda il farsi trasportare dalle emozioni. Vi sono i momenti giusti per ammirare quel "mondo alto" che attira a sé molti alpinisti ma, oltre quegli attimi di entusiasmo, bisogna riuscire a guardare attraverso una specie di "setaccio" della mente. La testa deve sempre rimanere lucida e razionale. Si tratta di una specie di "carta vincente" in caso di guai. Perché dico questo? Faccio un passo avanti in questa storia: arrivati sull’ultima lingua del nevaio, oramai in vista del punto da cui eravamo partiti durante la notte, mi sono accorta che il terzo di cordata si era rilassato molto, lasciando cadere il proprio livello d’attenzione.
-"Hai, per caso, contato i buchi e i crepacci che abbiamo incontrato durante la salita?", gli domandai mentre scendevo dietro di lui e mi immaginavo già la risposta. Infatti:
-"…quali crepacci?!…", rimbalzava contro di me la sua voce.
-"Come, quali crepacci?! Non mi dirai mica che non hai fatto caso ai numerosi ponti e ponticini su cui passava la via?".
In completo silenzio, bloccato su se stesso e rivolto verso di me, con occhi sgranati sembrava colui che si rende conto improvvisamente che il gioco che sta facendo è pericoloso. In breve lo raggiunsi e, affiancandomi a lui gli dissi:
-"non posso crederti. Mi prendi in giro!".
-"No! No! Dico davvero! Non mi sono accorto di niente! Sai, non vado molto in giro per ghiacciai, l’ho fatto poche volte e non ho l’occhio per queste cose".
Il mio cuore stava per fermarsi.
-"Allora, non ti accorgi nemmeno adesso di essere al centro di un enorme buco coperto, pieno di piccoli crepaccini e, guarda! Guarda sotto di noi! La vedi quella linea scura? Quello, invece, è proprio un bel crepaccio che divide quest’area di ghiacciaio attraversandolo in tutta la sua larghezza e la nostra traccia lo attraversa proprio lì, vedi?!". Lo aiutavo a visualizzare le cose che gli indicavo usando la piccozza.
Sapete quando uno sbianca in assoluto silenzio, rotto solo da un:
-"Allora, che cosa aspettiamo a correre via?", si era girato rapidamente verso valle, e con passo da maratoneta cercava di raggiungere la fine della lingua per uscire dal ghiaccio.
Sapevo che non vi erano grossi pericoli, ma gli gridai: "fai attenzione! Resta sulla traccia già battuta! Ci vediamo giù!". Mentre ancora ridevo, mi raggiunse la seconda, che si era fermata qualche metro più in alto, alla quale feci notare quanto bello fosse lì il ghiacciaio. A lei sapevo di non dover specificare niente…e il mio cuore riprese a battere normalmente. 

Quel giorno fu bello perché ero io il capo cordata, perché le condizioni del tempo erano così favorevoli e stabili da rendere tutto molto facile, perché abbiamo raggiunto un "oltre quattromila" con relativa tranquillità, perché ero con le persone giuste, perché ad un centinaio di metri dalla cima abbiamo incontrato due "sherpa" accovacciati su uno spuntone roccioso ad ammirare il "mondo di sotto", facendomi sognare uno spicchio di Himalaya, perché non ho avuto mai un momento in cui non mi sia resa conto di dov’ero e di cosa stessi facendo, perché la montagna era fuori e dentro di me.
Anche oggi, a distanza di tempo, quelle sensazioni restano così vive e chiare a prova del fatto che sono "fette" di vissuto che segnano indelebilmente la nostra vita.

Alla Montagna, che quel giorno ci ha concesso di arrivare in vetta ed ai miei favolosi compagni, che hanno condiviso con me questa grande emozione.

                                                 
                                                                                                                                    
 Monica Fortini

Dicembre 2001