Una lezione di eleganza
... sulla cresta Mittelegi dell'Eiger
di Flavio Faoro
L’Eiger!
Ci pensate, salire l’Eiger!
È stata tutta colpa di un libro, come spesso succede.
Anzi, di due libri.
Il primo è “Arrampicarsi all’inferno” di Jack Olson.
Chi, tra gli alpinisti di fine secolo, non lo ha letto?
E tremato, sofferto, personalizzato in vero e proprio Orco – come suona
il suo antico nome – questa montagna.
L’altro libro è uno dei tanti
meravigliosi editi da Dall’Oglio nella collana Exploit, veri e propri
afrodisiaci di sogni alpinistici, di entusiasmi, di progetti.
È “Eiger”
di Toni Hiebeler, con storie, fotografie, descrizione delle salite.
E poi film, articoli sulle riviste, fotografie, chiacchierate nella sede
del CAI…
A dire il vero, racconti di prima mano pochi: parlarne era
facile, ma la distanza, più che la difficoltà, e il tempo spesso
orribile e non sempre così prevedibile in quella fine degli anni
Ottanta, rendevano la salita dell’Eiger un progetto sempre discusso,
abbozzato, elencato fra molti.
Ma mai realizzato.
Finché…
Già vederlo era stato un colpo: più che alto, era largo, e scuro, e
marcio.
Lo si vedeva anche da distante, con quelle rocce nere e striate
di neve.
Il fatto poi che su un treno intero che saliva da Interlaken
fossimo i soli alpinisti, con sacchi grandi e tutto, qualche dubbio lo
faceva venire.
Altro che Bianco e Rosa, dove quelli senza ramponi e
piccozza erano guardati un po’ dall’alto in basso, come esclusi da
quella comunità – lì sì, vasta – di alpinisti che scorrazzava su e giù
per trenini e funivie.
Qui eravamo soli.
Alla fermata del treno al
famoso finestrone sulla parete Nord, già visto in un sacco di film e
fotografie, lo Stollenjoch, anche noi corremmo a guardar fuori e anche
noi, ancor più dei turisti, fummo contenti che la nostra meta non fosse
quella.
Eh sì, Eiger d’accordo, ma addomesticato.
Non eravamo certo
all’altezza – mentale, fisica e, soprattutto tecnica – di infilarci in
quel marciume ghiacciato.
No no, andavamo alla cresta del Mittelegi, ben
più facile, solare, pulita, senza frane di pietre e ghiaccio, senza
bufere di giorni, senza placche vetrate all’ombra.
Almeno speravamo.
Scesi alla stazione Eismeer – fermata richiesta espressamente al
capotreno, che sennò il treno andava su dritto – abbiamo visto le lucine
rosse dell’ultimo vagone sparire in fretta e ci siamo trovati al buio
nella galleria.
Un ramo scendeva, scuro e ghiacciato e un cartello in
più lingue diceva, più o meno “Adesso sono cavoli vostri, non contate su
di noi. – firmato Le Ferrovie dell’Eiger”.
Beh, incoraggiante, così come
il fatto di dover mettere i ramponi già nella galleria in discesa, da
quanto erano ghiacciate e scivolose le traversine marce dove poggiavamo
i piedi.
Poi il bagliore assoluto del grande ghiacciaio, la traccia
sottile che correva tra i seracchi, il senso di vastità e solitudine
dopo il buio e l’oppressione della galleria.
Raggiungemmo ancora con il
sole alto la Capanna sulla cresta: il caldo e qualche crollo di seracchi
ci avevano fatto correre, sul ghiacciaio e sulle facili rocce bagnate.
Ora eravamo lì, a gustarci tutta quella storia dell’alpinismo, quella
montagna mitica, quella via elegantissima davanti a noi. Altre due
cordate erano lassù: una di Spagnoli, giovani, allegri, chiassosi, e una
di Svizzeri, in tutto e per tutto, due adulti e un ragazzo, silenziosi,
discreti.
Pomeriggio come può essere un pomeriggio in un posto così:
fotografie, bevande, attrezzatura, chiacchiere.
Niente cellulare con cui smessaggiare vacuamente, verificare meteosat vari, consultarci con
mogli, esperti, amici. Eravamo lì perché ci fidavamo, di noi stessi,
della montagna, del tempo.
E basta.
Questo il metodo e, insieme,
l’obiettivo.
La scalata fu da subito bellissima, senza difficoltà, quando si è
all’altezza delle difficoltà e conquistati dal posto, dalla storia, dal
paesaggio.
Andavamo anche veloci, a comando alternato, io sulla roccia
lui sul ghiaccio, funzionava bene.
Ad un tratto, dovevo partire io, ci
raggiunsero gli Svizzeri.
Eravamo partiti per primi, loro subito dopo di
noi, più indietro gli Spagnoli, che dall’alto vedevamo lontani.
Il primo
della cordata Svizzera mi chiese di passare, in francese: avevo notato
che tirava sempre lui, forse era proprio bravo, mentre io…
Lo lasciai
passare senz’altro, che problema c’era?
La cresta era lunga, il tempo
bello, la montagna tutta per noi.
Partì, e io vicino a lui.
E mi sentii
subito, da elegante e forte come mi sentivo prima, goffo, impacciato e
debole.
Ragazzi, questo saliva come respirava: anzi, meglio.
Camminava
nel centro della sua città, parlando con una ragazza e mangiando un
gelato.
Ecco dava questa impressione, o cose così.
Solo che era su una
cresta ghiacciata di almeno quarto grado a quasi quattromila metri.
E ce
l’avevo sempre davanti, perché andava piano, e io, pur goffamente e
ansando, gli stavo dietro.
Aveva, come me, scarponi doppi di plastica:
solo che lui li usava come io neanche le ballerine, i suoi dovevano
essere leggerissimi, sottili, eleganti.
Teneva la corda in mano, con un
paio di anelli: anch’io, ma la mia era sempre ingarbugliata, facevo
numeri per passare i rinvii, la trasferivo di continuo da una mano
all’altra per muovermi meglio, ci inciampavo.
Insomma, che lezione.
Così
per tutta la via.
Ma non fu un’umiliazione, per niente: era talmente
bello essere lì, e in più esserci con uno proprio bravo, che un po’ di
quella bravura cadeva di riflesso, anche se immeritatamente, perfino su
di noi.
Poi le rocce finirono.
Sul ghiacciato crestone finale, sopra lo scivolo
assoluto della via Lauper, gli occhi, letteralmente, non bastavano. Uno
avrebbe voluto avere più sguardi, più memoria, più parole per descrivere
gli spazi, i colori, le luci e le forme.
E tutto dentro un mito di
storia, vicende, nomi e date.
La cima era piccola, molto più piccola di
quanto si potesse immaginare guardando l’imponenza della montagna.
Commozione, ma soprattutto gioia.
E preoccupazione per la discesa
infinita, mal descritta, pericolosa.
Uno degli svizzeri, quello più
anziano, con la scusa di una foto attaccò discorso e ci spiegò.
Il loro
primo di cordata era Michel Darbellay, grande guida alpina di Martigny, il
primo a riuscire nella roulette russa della salita solitaria della via
classica della parete Nord, nel 1963, dopo che c’erano stati un sacco di
tentativi, anche di Bonatti.
Uno che l’Eiger lo conosceva bene, per
tutti i versanti, e che quel giorno aveva portato sulla cima il fratello
più anziano e il figlio di questi, suo nipote di 15 anni, perché era
anche per lui l’ora di avvicinarsi alla grande montagna. Insomma, in
discesa ci trovammo più volte insieme.
Ma ci separammo anche spesso, su
percorsi diversi.
Venir giù dall’Eiger è quasi più difficile che
salirci: si può passare quasi dappertutto, ma da nessuna parte è facile.
E così per 1650 metri di dislivello. Le relazioni danno solo qualche
indicazione, anche quelle più accurate, e fatalmente sono solo
l’intuito, l’esperienza e la fortuna che ti tirano giù.
Le descrizioni
dicevano di fare almeno tre calate in doppia: noi ne facemmo una, e solo
perché Darbellay, che ci aveva raggiunto ci propose (a noi!) di unire le
corde e attaccarle ad un vecchio chiodone nascosto e invisibile che lui
conosceva, evitando così con una lunga doppia verticale un ampio giro.
A
dire la verità il chiodone era mezzo fuori, e glielo feci anche notare,
ma lui lo batté con decisione col martello per dimostrarmi che era
solido e già collaudato.
E fu un bene perché il tempo, come in tutti i
racconti sull’Eiger, stava cambiando e, semplicemente, i lontani
fondovalle stavano diventando opachi e velati da una specie di nebbia
leggera, mentre il sole impallidiva e si era alzato un po’ di vento.
Sull’Eiger, sapevamo cosa voleva dire.
Meglio la doppia sul chiodone,
che mezz’ora a vagare per roccette marce, con i ramponi che stridono e
la piccozza che intralcia e la corda che si impiglia dappertutto.
Così
scendemmo, facemmo addirittura, guidati da Darbellay, una deviazione
fino allo spallone della Cresta Ovest, da dove la Nord ci apparve
vicinissima e spaventosa, un incubo ghiacciato e scuro rispetto alle
vastità solari dove eravamo noi.
Bastò, per dare il giusto valore a
quello che stavamo facendo, e a farci capire che un alpinismo come
quello che ti spinge sulla Nord dell’Eiger era molto, molto lontano dal
nostro.
Arrivammo a valle ben stanchi, io avevo fatto anche una bella scivolata
su un nevaio e le cadute ad un certo punto avevamo smesso di contarle.
Ci salutammo alla stazioncina di Eigergletcher: loro scendevano a
Grindelwald e a casa.
Noi salimmo di nuovo attraverso la pancia scura
dell’Eiger fino alla stazione del Jungfraujoch, volevamo dormire alla
Monchütte, quella sera.
Ritrovare sul treno i turisti giapponesi fu
davvero stridente: erano gli stessi del giorno prima, proprio uguali,
solo che noi ora eravamo molto diversi.
Alla finestra sulla parete non
scendemmo a fotografare: cosa avremmo visto più di quello che già
conoscevamo?
Al ristorante in cima mangiammo spaghetti davvero pessimi,
mentre i Giapponesi trovavano lo sushi credo più caro d’Europa.
Poi
partimmo verso il rifugio, lasciandoci dietro ragazze con i tacchi alti
nella neve, signore in abiti neri e guanti bianchi, un’infinità di
macchine fotografiche e telecamere in azione.
Per fortuna che sul ghiacciaio il percorso era ben battuto e segnato da
pali colorati: eh sì perché aveva cominciato a nevicare, una bufera
forte, con nebbia e vento.
D’accordo, non era improvvisa, i segnali
c’erano stati, ma poche ore prima noi vagavamo sulla discesa dell’Eiger
sperando di imbroccare i tanti passaggi e l’idea di un bivacco non era
per niente esclusa.
E ora salivamo da un palo all’altro, senza vedere
altro, puntando a un rifugio che doveva essere a un certo tempo, non più
a una certa distanza.
Ecco, come andò, sull’Eiger.
Tanto allenamento, tanta coscienza e
attenzione per quello che stavamo facendo, tanta fortuna.
Flavio Faoro
Belluno, aprile 2012
Nota a cura della Redazione.
Michel Darbellay – (Guida) -
Guida svizzera tra le prime a percorrere a tempo di record le vie più
difficili.
1962 - 3 luglio. Michel Darbellary con Christophe Vouilloz, salì la
parete Nord del Cervino (via Schmid) in 6 ore.
1965 - 14 luglio. Michel Darbellary, in compagnia di Hilti von Allmen,
ripetono l’ascensione della parete Nord del Cervino (via Schmid).
1967-68 - Viene realizzata la prima invernale alla via Cassin al Pizzo
Badile.
Si trovarono alla base della parete due forti cordate: Gianni Calcagno,
Paolo Armando e Alessandro Gogna e gli svizzeri Michel Darbellary,
Camille Bournissen e Daniel Troillet.
Ben presto gli scalatori decidono di unire le forze per vincere il
formidabile ostacolo.
Dopo aver piazzato circa 700 metri di corde fisse, la cordata
italo-elvetica arriva in cima il 2 Gennaio 1968.
L’estate successiva i sei tornano in parete per togliere tutte le corde
fisse.