SPIGOLATURE.
15/03/2009 -
Un bell'articolo tratto da "Alto Adige": "Il senso perduto della neve"

Il senso perduto della neve.
Tra natura e cultura: la montagna come territorio di confronto.
 


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Neve allegra e neve tragica. In italiano il vocabolario è carente. Non trovi i termini adatti neanche a cercare nel dialetto.
Forse le parole si sono perse perché non sono più utili.

Forse fa testo, ormai, solo la lingua televisiva. Che è una lingua di città.

Eppure Mario Rigoni Stern, lo scrittore dell'altopiano, distingueva: in cimbro la neve si dice in mille modi.

Sneea, certo. Ma anche brüskalan, la prima neve d'inverno, quella vera. Haapar, quella di primavera che si scioglie nei versanti a sud. Haarnust, cotta al sole e indurita nelle notti ancora sotto zero. Swalbalasneea, la neve della rondine. Kuksneea, la neve del cuculo che risveglia il bosco. E la bàchtalasneea, la neve della quaglia che può venire anche in maggio, rapida in una nube nera.
Rigoni immaginava anche una kuasneea, la neve delle vacche al pascolo d'estate. Anche d'estate può arrivare la neve.

Sono tanti i nomi della neve. Però, chissà perché, di tutti questi un nome solo denota la neve dell'inverno, gli altri di neve fuori stagione.
Lessico di montanari (di contadini di montagna). Sarà proprio per questo che è così ricco: perché d'inverno la neve è (era) «solo» neve, ma in primavera e in estate darle un nome aveva più importanza perché aveva conseguenze significative sulle attività agricole e pastorizie. Oggi, invece? Neve e basta. Sparita l'agricoltura in montagna, spariti anche i nomi.
Snea, neve. Anche gli Inuit hanno oltre sessanta termini diversi per indicare non solo la neve, ma perfino il bianco.

C'è neve e neve, c'è bianco e bianco.

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Rigoni Stern la chiamava Snea. Mauro Corona s'è inventato l'inferno di ghiaccio.
Con tutti i suoi gironi, uno dopo l'altro. La pagheranno così dopo morti, i malvagi in vita. Prigionieri di cubi di ghiaccio, condannati a frantumarsi come stalagtiti, obbligati alla frusta del gelo.

Anche Neve si scioglie, ma al sole dell'amore. Una condanna ineluttabile.
Di lei, e dell'amore, resterà solo acqua che non puoi stringere in pugno. Anche Corona si strugge per Neve.
Ma i personaggi più simpatici, nel romanzo dello scrittore di Erto, sono le pantegane, che non guardano in faccia a nessuno e che alla fine divorando vivi i malvagi, fanno giustizia in vece della giustizia terrena.
Chissà che ne pensa Corona della neve, abituato com'è a calpestarla.

Parlando di omertà, ha detto: «Siamo figli di quello che ci accade, oltre che dei nostri genitori. E in ogni paese di montagna, lo si vede bene.

Non è dato dalla normale paura di essere scoperti, ma dalla chiusura della montagna, dalla chiusura della neve.
Due o tre metri di neve finiscono per attutire anche i sentimenti (...). E' il Dna che viene a posarsi in posti come questo
».

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Tacito della neve pensava tutto il male possibile: «Infames frigoribus Alpes».
Montagna di pessima fama, montagna da evitare. Da attraversare in fretta, se proprio non se ne può fare a meno, per strade costruite da imperatori interessati ai commerci e ai transiti. Alpi come ostacolo, come barriera.

Da una parte l'hic sunt leones, dall'altra la neve delle Alpi. Annibale le attraversò, mirabile dictu, a cavallo di elefanti e affondando nella neve, e sittanta storia trasfigurò in leggenda.

Neve sconosciuta e nemica.

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I montanari, una volta, non andavano in montagna. Andavano solo fino alla quota dei pascoli, non a quella delle rocce.

L'anonima guida di John Ball, che salì «per primo» il Pelmo per il Passo del Gatto, recalcitrò stupefatta quando l'inglese volle spingersi in vetta. Non perché, come suppone Rigoni Stern, lassù ci fossero dei o dèmoni: semplicemente perché la cima è lo spazio dell'inutile. Almeno lo era, oggi non più.
Oggi è tutt'altra cosa. Si va in montagna d'inverno per lo stesso motivo per cui ci si va d'estate.

Si va dove c'è, ancora, natura. Una volta non era così: la natura era «qui e ora», ovunque.

Oggi la natura è «altrove» dalle città e dai fondovalle.
Ora si va in montagna perché è l'unico modo di ritrovare la natura che è in noi.
E' la ricerca, si può dire, dell'« interferenza zero »: zero interferenza con i ritmi della città, le luci, i suoni, gli odori, i vari inquinamenti urbani. L'unico rapporto « vero », in montagna, è con i propri limiti.

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La montagna è la recuperata dimensione del limite.

E' qui che si gioca e si esaurisce il rapporto tra uomo e montagna, declinabile in tante varianti quanti sono gli uomini e le donne che vanno in montagna. Il limite della fatica. Il limite delle proprie capacità (possibilità).
Il limite con la propria umiltà (coscienza di se stessi ma anche humus, terra). Ovvero l'umiltà del limite: vado finché posso. 

Ma il paradosso è: se non vado, come faccio a sapere fin dove posso, a sperimentare il mio limite?

E' camminare sulla cresta sottile tra volere e potere: sottile ma nello stesso tempo territorio enorme di sperimentazione.
Così, la montagna diventa la dimensione del tutto e del singolo: il singolo si perde di fronte al tutto, diventa tutto anch'egli.

Non parliamo qui dello sprovveduto che va senza sapere.
In realtà quello, di solito, se ne resta a casa, oppure poveretto muore con i soli problemi del soccorso. No, qui parliamo invece di chi sa, di chi va sul sicuro sperimentando limite e rischio.
Che lo conosca, lo prova il fatto che va con Arva: mette dunque in conto la slavina.
Sa che, per forza di gravità, nevi e rocce cadono. Spera che non avvenga proprio mentre ci passa sotto.

E' come chi va con macchina: sa che gli incidenti avvengono, spesso a prescindere dal suo comportamento.

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Solo per una cultura di pianura sono un problema gli incidenti di montagna.

Gli alpinisti superstiti quest'estate sul Nanga Parbat non chiesero l'aiuto, scesero con le proprie gambe.

Del resto, la cultura di pianura mette nel conto delle funeste probabilità un incidente automobilistico. Lì è « normale », in montagna no. Diremo: quale pianura? Piuttosto, città.
La morte sull'asfalto è « normale »: infatti nessuno si sognerebbe di dire « automobili assassine », si dice invece « montagne assassine ».

Una volta il contadino di pianura padana non andava a scalare montagne, non ci andavano nemmeno i montanari: ci andavano i cittadini. Oggi anche gli ex contadini sono diventati cittadini.

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Neve allegra o neve tragica? Basta non scambiarla con la terra, equivoco che talvolta accade anche a chi va per roccia.

La neve non è solo sneea o haarnust, è anche fresca, bagnata, farinosa, ghiacciata, compatta, soffice o dura.

E' profonda o superficiale, è una «spolverata» o una «impaccata».

Puoi galleggiare o sprofondare. Nelle slavine, se ti travolgono, galleggi.

Di questi giorni la neve è a strati, basta guardare i tetti nei paesi di montagna, e uno strato può scivolare sull'altro.

Se pensi di andarci sopra galleggiando sulle ciaspole, forse sbagli: sai però che puoi sperimentare il tuo limite.
Ma la neve non è mai killer, perché non ha sentimenti.

 

(Alto Adige - 4 marzo 2009 - Toni Sirena)