SPIGOLATURE. 25/09/2019 - Simon Messner, alpinismo tra successi ed errori, di Melania Lunazzi
Abbiamo incontrato Simon Messner a Venezia, sull’Isola di San Servolo,
davanti al bivacco dedicato allo zio Günther, trasportato in laguna e
trasformato, durante la Biennale d’arte, in contenitore di installazioni
artistiche da Salewa e dall’associazione ArtintheAlps.
Il ventinovenne Simon Messner, unico maschio e penultimo dei quattro
figli di Reinhold, si è raccontato all’indomani delle prime salite
compiute quest’estate in Pakistan su due seimila: l’ascensione solitaria
del Geshot Peak/Toshe III (6200 metri), di fronte al Nanga Parbat, e il
Black Tooth (6718 metri), cima secondaria della Muztagh Tower, in
Karakorum, condivisa con Martin Sieberer.
Due prime che hanno consacrato il suo ingresso nell’alpinismo
professionale oltre che nella squadra di un noto marchio di attrezzatura
di montagna.
Un ingresso volutamente tardivo, dettato da un approccio consapevole
all’alpinismo d’alta quota, impostato sulla libertà di scelta.
“Libertà è per me non dover andare a tutti i costi a misurarsi perché si
deve dimostrare qualcosa, ma decidere da soli quando è il momento di
farlo”.
Gentile, aperto e disponibile, Simon ha l’onore e l’onere di un
grande nome da gestire.
“Il mio nome è e sarà sempre messo in relazione con quello di mio padre.
E’ anche per questo che sento di voler fare qualcosa di leggermente
diverso e cercare di arrampicare quando mi interessa farlo, non quando
devo. Molti atleti devono partire per portare qualcosa a casa e
pubblicare le ascensioni, io mi sento libero e questo è molto importante
per me.”
Anche per questo Simon ha deciso di muovere i suoi passi a cavallo
tra due mondi, quello dell’alpinismo e quello del racconto per immagini,
dedicandosi a girare documentari assieme al padre.
“Ad oggi ne abbiamo realizzati una decina (in Mord am Unmöglichen,
Murder of the impossible, abbiamo inserito anche alcune riprese
dell’avventura sul Black Tooth). Ci sono tante storie fantastiche nella
cultura alpina e dobbiamo salvarle. Papà ce le raccontava da piccoli
prima di andare a dormire. A me interessa passarle alle generazioni
successive. L’alpinismo è una parte della mia attività, l’altra è la
cultura, intesa come conoscenza delle storie della montagna. Questo mi
consente di essere libero”.
Che cos’è per lui l’avventura?
“Una parola difficile. Oggi dobbiamo guardarla in un modo diverso, non
come cinquanta o cent’anni fa. La reale avventura, quella senza
comunicazioni con la civiltà, non esiste più, perché abbiamo sempre con
noi il telefono. E comunque anche se non lo portiamo con noi, non è più
come una volta”.
C’è poi un altro aspetto, quello dell’esperienza, che matura con gli
errori. Per Simon il primo approccio con le grandi montagne dell’Asia è
avvenuto nel 2017, in Nepal, a Nord dell’Annapurna, sul Kangshar Kang
assieme a Philipp Prünster.
“L’idea venne perché mio padre ne aveva conservato una foto in
qualcuno dei suoi diari e l’aveva messa sul tavolo della mia camera.
C’era scritto: “still to make” e per molti anni ho cercato di tenerla a
mente per capire se era possibile. L’abbiamo provata, ma siamo stati
molto fortunati a sopravvivere. Una valanga ci ha travolti investendoci
fino al petto, ma lasciando fortunatamente la testa fuori. Una seconda
valanga ci ha portato via tutto il materiale che avevamo lasciato in
alto come riserva. Così fummo costretti a rientrare nella civiltà. Sulla
via del ritorno però siamo stati tentati da alcune belle pareti di
granito di 5000 metri mai scalate e abbiamo deciso di provare almeno
quelle. Pensavamo che, essendo buoni rocciatori avremmo almeno potuto
padroneggiare queste, ma Philipp ha fatto un lungo volo perdendo
conoscenza dopo aver sbattuto sulle rocce – temevo fosse morto – ed è
stato difficile calarlo perché ero su una brutta sosta. Siamo stati
veramente fortunati a sopravvivere e abbiamo imparato moltissimo da
questa esperienza. E’ quando qualcosa non funziona che impari
veramente”.
Quindi più di un successo conta l’errore?
“A volte la nostra società non ti permette di sbagliare, vuole solo
vedere che tutto va bene e se raggiungi la cima ti applaudono.
La spedizione del 2017 fu un totale fallimento, ma ci ha fatto crescere
tantissimo”.
[Spigolatura da montagna.tv del 21 settembre 2019. Intervista di Melania
Lunazzi]