di Gabriele Villa
A Gabriel
piace, per allenarsi all’arrampicata, recarsi alle mura della sua
città.
Nelle fessure e negli interstizi fra un mattone e l’altro trovano presa
le dita delle mani, giuste giuste, e, nelle piccole nicchie dove qualche
pezzo di mattone si è staccato, vanno in appoggio preciso le punte delle
scarpette.
Non gli interessa tanto il tipo di allenamento, che pure è utile, quanto
il fatto di poter stare all’aria aperta, di godere del tepore del sole,
particolarmente gradevole in primavera e in autunno, quanto sgarbatamente
caldo e insistente nel pieno dell’estate.
Durante l’inverno anche lui si rassegna ad andare al climbing wall
della città: unica soluzione praticabile se vuole continuare a svolgere
allenamento specifico per l’arrampicata.
Una
sera di un ottobre stranamente mite si trova alle mura, dopo una giornata
di lavoro particolarmente lunga, quasi all’imbrunire, per quello che sarà
probabilmente l’ultimo allenamento all’aperto della stagione.
Sta facendo tardi Gabriel, se ne rende conto quando gli appoggi sul
muro iniziano a diventare meno evidenti e definiti e quando le mosquitos
cominciano a pungerlo nelle gambe attraverso la tuta, attratte dal calore
del suo corpo che si muove accaldato nella sera umida. Ma nonostante
questo non vuole mollare. Non ha ancora "macinato" lo stress di
quella noiosa giornata di lavoro.
Continua a scrutare nella penombra per individuare gli appoggi sempre meno
visibili e, ad un certo punto, quasi con meraviglia, si avvede della sua
ombra proiettata sul muro. Nemmeno si era accorto del rapido avanzare del
buio e dei proiettori che si erano accesi ad illuminare le mura storiche,
aumentando progressivamente l’intensità della luce.
Ora le sporgenze del muro diventano tante piccole ombre che vanno ad
aumentare la difficoltà del procedere e poi, avvicinandosi in direzione
del proiettore, ne rimane quasi abbagliato e deve sforzarsi di non alzare
lo sguardo per non peggiorare la situazione.
Ma ancora non vuole smettere e continua a traversare orizzontalmente
avvicinandosi alla fonte di luce.
Come un acrobata sul palco illuminato dal proiettore di scena, guarda un
punto indefinito sul muro, concentrandosi solo sulla ricerca degli
appoggi.
All’improvviso
una strana sensazione di già vissuto si impadronisce di lui…
Quel fascio di luce intensa sulla parete che disegna più ombre che luce,
il calore emanato dal corpo in azione che respinge l’umido della sera,
quella leggera ansia del buio che avanza…
Improvviso gli tornò il ricordo di quella sera di nove anni prima.
Tanto
era passato da quel giorno che erano andati con il corso di arrampicata
alle Zebra Striped Plates.
Non era una gran giornata, aveva piovuto nei giorni precedenti e le Plates
erano ancora umide, specie dove le nicchie piene di terra ed erba
rilasciavano colate di acqua che disegnavano di nero la roccia, rendendola
scivolosa ed infida.
Quando erano arrivati, al mattino, Mark il direttore del corso,
aveva consegnato ad ogni istruttore un biglietto con i nomi dei compagni
di arrampicata e la via da seguire.
Si erano divisi ed ognuno era andato all’attacco della sua via di
salita.
Gabriel
era finito sulla SuperJane e, se lo ricorda bene, aveva avuto delle
difficoltà, nonostante conoscesse la via.
Aveva dovuto stringere i denti su alcuni passaggi scivolosi, facendo
ricorso a tutta la sua esperienza di vecchio istruttore per venirne fuori.
Alla fine dell’arrampicata, assieme al suo allievo, aveva imboccato il
sentiero di discesa, finendo, come tante altre volte, al Zebra Mini
Store sotto le Plates, per farsi il solito panino e la solita
Coca Cola.
Mano a mano che le cordate rientravano, era uno scambiarsi di impressioni
e di commenti su quella giornata, mentre i panini sparivano nelle bocche
affamate di allievi ed istruttori.
Ad un
certo punto, qualcuno fece notare che c’erano ancora persone in parete.
Stava facendo sera ed ancora c’era una cordata sulla Theresita line:
non impiegarono molto a capire che era quella di Mike.
Erano andati all’attacco assieme, al mattino, Gabriel e Mike,
l’altro istruttore, perché la Theresita line e la SuperJane
correvano molto vicine.
Mike
era uno degli istruttori più promettenti, era il più giovane; era solo
un po’ acerbo di esperienza. Con i suoi due compagni, Steve e Richard,
aveva iniziato ad arrampicare sulla via che Mark gli aveva scritto
nel foglietto.
Ma era un rebus rientrare da quella via, specie dopo aver superato la
difficile traversata di quinto grado, e loro l’avevano passata senza
porsi il problema della roccia scivolosa e bagnata, precludendosi la
possibilità di scendere.
Ad un certo punto, si vide evidente dal basso che il primo della cordata
stava traversando decisamente a sinistra, fino a giungere ad imboccare il
grande Vertical Canyon che incide, come una grande ferita, la parte
alta delle Zebra Striped Plates.
"Ottima
intuizione! – disse qualcuno – Lì è più facile e basterà che
seguano la grande spaccatura per sbucare sulla cengia superiore. Da lì
riusciranno a scendere anche col buio". La cordata si muoveva molto
velocemente ora.
Fin che ci fu un po’ di luce li videro progredire rapidi e regolari.
Ma il
buio fu altrettanto veloce e li sorprese prima che potessero uscire dal
budello del Vertical Canyon.
Non era una situazione grave, soltanto un po’ assurda: non si era mai
sentito di un bivacco alle Zebra Striped Plates.
"Possiamo chiamare i Firemen. – dissero quelli dello Zebra Mini Store – Sono venuti altre volte: hanno una potente fotocellula in grado di illuminare la parete".
Così
fecero. Ma intanto Mark e Gabriel avevano acquistato una
torcia elettrica al vicino Service e, prese una paio di corde, si
erano incamminati verso le pareti, seguiti da Fabius, con
l’intento di calarsi fino a raggiungere la cordata ferma nel Vertical
Canyon. Erano saliti veloci fino alla cengia sopra le Plates
dove sbucano tutte le vie della parete quando, improvvisamente furono
investiti da una luce fortissima proveniente dal fondo valle: era la
fotocellula dei Firemen.
Bisognava sforzarsi di non guardare in direzione della luce per non
rimanere abbagliati. Così fecero e proseguirono fin quasi al fondo della
cengia per fermarsi ad un chiodo di sosta.
Da lì Gabriel aveva potuto calare Mark verso lo sbocco del Vertical
Canyon.
Poterono comunicare con i tre che si trovavano poco più sotto.
" State tranquilli. Qui stiamo bene. – disse Mike – Abbiamo trovato un buon posto per bivaccare."
"Ma quale bivacco – rispose Mark, quasi indispettito – adesso vi calo una corda e vi recuperiamo".
Così fecero e, in sicurezza, poterono far loro risalire l’ultimo tratto di venti metri del Vertical Canyon, che li aveva bloccati.
Gabriel li recuperò alla cengia e, tutt’insieme, sempre seguiti dal potente fascio di luce proveniente dalla valle, ripercorsero, ancora una volta, la cengia di discesa.
Una
telefonata alle famiglie (…ceniamo fuori, arriviamo un po’ più
tardi…) aveva evitato anche l’incombenza di dare spiegazioni a
casa.
L’avventura si era conclusa felicemente: nonostante la visibile
irritazione di Mark per quel contrattempo indesiderato e un po’
di mortificazione sul volto di Mike e di Steve, gli altri si
erano sentiti un po’ più amici e solidali.
Gabriel dormì soddisfatto quella notte, anche se sognò ripetutamente quel fascio di luce potente che lo abbagliava.
Adesso, rapito dal ricordo, Gabriel non si è quasi accorto di essere giunto alla fine della traversata. Oramai si è fatto buio tutt’intorno, solo quel faro illumina le mura storiche e alimenta i suoi ricordi.
Toglie le scarpette da arrampicata, rimette le scarpe da tennis, infila la felpa e torna verso casa soddisfatto.
Quel ricordo così intenso lo ha appagato e l’allenamento gli è sembrato lunghissimo.
Come se avesse arrampicato alle Zebra Striped Plates.
Gabriele Villa
Ferrara, 07 novembre 2001