di Marco Manfrini
Il gesto della stretta di mano, per una cordata d’alpinisti che raggiunge una cima o porta a termine un’ascensione, è secondo me un’azione “fisica” che si sostituisce alle tante parole che in quel particolare momento si vorrebbero dire ma che non riuscirebbero in ogni modo a descrivere quella marea di sensazioni provate assieme ai tuoi compagni . Anche a mente fredda mi è impossibile ricordarle, ma il solo pensiero d’averle lo stesso provate mi appaga profondamente. Perciò, tale gesto, assume un’immagine così forte ed importante.
Giovedi 9 settembre 2004,
sono le quattro e quaranta di un giorno che farà parte per sempre dei miei
ricordi più belli. Gabriele ed Io non permettiamo nemmeno alla sveglia di
svolgere il suo compito perché siamo già pronti, carichi e decisi ad
affrontare in questa giornata l’ascensione alla Punta Grohmann per la
via comune. Sicuramente i pensieri che hanno attraversato le nostre menti
durante la notte erano “leggermente” diversi, o almeno credo, per via della
differenza di esperienza alpinistica e per il diverso ruolo che dovevamo
assumere nella cordata all’indomani. Infatti, se da una parte c’ero io, con
alle spalle poco più di dieci ascensioni, in ambienti un po’
“addomesticati”, e soprattutto effettuate sempre da secondo di cordata,
dall’altra c’era Gabriele che vanta più d’ottocento vie ed una
solidissima esperienza da capocordata. Anche se io, quindi, ero ben a conoscenza
della mia inesperienza sapevo di poter contare su una persona, o meglio un
amico, preparato e sempre prudente. Nonostante tutto, fin dal primo momento in
cui Gabriele mi propose quell’itinerario, dentro di me nacque una gran voglia
di fare e di mettermi alla prova, in un ambiente di montagna così severo ma
allo stesso tempo a me così “famigliare”. Uso quest’ultimo termine a
ricordo dei tanti anni trascorsi, in vacanza, in Val di Fassa e delle tante
escursioni fatte proprio ai piedi della montagna che ora mi si proponeva di
salire. Quella proposta era per me semplicemente un sogno e proprio quella
mattina stavamo partendo per andarlo a realizzare! La partenza nel cuore di una
notte limpidissima, che lasciava immaginare una giornata con tempo stupendo,
avvenne in silenzio così come il seguente viaggio che ci portò, dall’albergo
sui primi tornanti del Falzarego, al passo Sella. Durante questo spostamento non
dissi niente perché ero emozionato e non aspettavo altro che di veder comparire
davanti a noi la Punta Grohmann. Per questa visione non dovemmo attendere
troppo, perché appena oltrepassato il passo Pordoi ci apparve davanti in tutta
la sua imponenza la triade composta dalla Punta Grohmann, le Cinque Dita e il
Sassolungo che con quelle particolari condizioni di luce sembravano montagne
d’argento. Mai come prima, alla loro vista ero rimasto così colpito ed
affascinato. Durante l’avvicinamento alla forcella delle Cinque Dita,
effettuato mentre sorgeva il sole che lentamente inondava e colorava di un
arancio intenso la nostra cima, incontrammo solamente una lepre e un branco di
capre che pascolavano tranquille. La salita era ripida e faticosa, ma grazie
alla nostra volontà e buona preparazione fisica arrivammo all’attacco in un
tempo inferiore a quello indicato sulle guide. Alla forcella ci attendevano due
“cose” : un panorama stupendo sulle gole settentrionali del gruppo e
sull’alpe di Siusi e un gelido vento! Entrambe le cose non ci abbandonarono più
per l’intera salita, anche se lascio immaginare, una poteva far piacere,
mentre l’altra molto ma molto meno! Una volta pronti, salimmo per facili
rocce, seguendo gli ometti di pietra sino alla base delle torri che fanno parte
della cresta Est-Nord-Est della Punta Grohmann. A questo punto senza che noi lo
sapessimo la nostra giornata stava uscendo dai binari del programma, ovvero
stavamo per salire, non la via normale, ma una variante che solamente adesso che
ho ricevuto un messaggio da Gabri so che è quella del camino Fistil aperto nel
1899. Ora mentre sto scrivendo e osservo lo schizzo della salita, a mente
fredda, sembra impossibile non essere riusciti a seguire la via giusta. So
benissimo però che quando eravamo sotto quelle torri , senza un qualunque segno
e soprattutto, non seduti ad una scrivania ma in parete, ogni decisione era
molto più complessa e difficile da prendersi. Così ad una specie di bivio
decidemmo di aggirare sulla destra una torre, verso un colatoio che in alto si
andava restringendo in un camino dall’aspetto molto preoccupante.
Solamente ora è sicuro essere la Prima Torre e non la Torre Sud.
Salimmo sino alla base del camino e qui Gabri attaccò la paretina di destra più
invitante e vi trovò alla sommità due chiodi con cordini per doppia. Già a
questo punto confrontando dove ci trovavamo con la relazione ci apparve chiaro
che non eravamo proprio giusti! Comunque, con qualche dubbio che fece pensare
seriamente alla possibilità di abbandonare l’ascensione, il mio capocordata
decise di provare ancora e salì sino ad arrivare ,dopo una breve traversata, ad
un terrazzino sotto ad un camino - fessura. Una volta arrivato a tale punto di
sosta dissi <: Allora ci siamo Gabri, abbiamo trovato la via :>. Queste
parole le dissi proprio perché lungo la via normale dovevamo incontrare il
famigerato camino Enzensperger con al sommo il punto di sosta e pensai quindi,
che non avevamo fatto tale camino che sembrava però essere sotto di noi, ma
eravamo comunque rientrati in via. Tale sogno finì quando prontamente Gabri mi
fece vedere la sosta. Era una sosta attrezzata solamente grazie al suo ingegno,
perché altrimenti non aveva nulla su cui assicurarsi! Allora nella mia testa
per un attimo, ci fu un rifiuto di provare a pensare dove eravamo, in poche
parole mi rassegnai. A questo punto Gabri partì e salì rapido lungo quel
camino e sparì alla mia vista. Quando lo raggiunsi alla sosta successiva
eravamo arrivati ad una piccola forcella che separa la terza torre dalla quarta
( Che la forcella separi proprio queste due torri lo so con sicurezza solo
adesso! ) e qui ci accorgemmo di essere rientrati in via, infatti la relazione
parlava proprio di tale forcella e di una paretina esposta per salire in cima
alla quarta torre. Noi avevamo la paretina accanto ma ciò che ci dette maggior
sicurezza e un pizzico di tranquillità in più, fu la vista della facile cresta
finale che portava alla cima. Oltrepassammo così la “vetta” della quarta
torre è qui fortunatamente trovammo un chiodo cementato che ci diede ulteriori
conferme del rientro in via, ma soprattutto era un punto fermo per costruire la
discesa che ci attendeva di lì a poco. Infatti la discesa, parte fondamentale
di un’ascensione, stava oscurando lentamente il senso di felicità che
provavamo per l’imminente arrivo in cima. Questa era la conseguenza di essere
arrivati in cima per una via in gran parte diversa da quella prefissata, ma di
fondamentale importanza, era che la discesa si effettuava proprio lungo la via
originale e che quindi non avevamo ancora visto! Con questo conflitto di
pensieri nella nostra mente risalimmo le altre tre facili lunghezze di corda e
sbucammo sull’incredibilmente largo e dolce pianoro sommitale della
Punta Grohmann a 3126 metri di altitudine. Lo attraversammo tutto sino
all’ometto di pietra che ci indicava la vetta principale e qui, finalmente,
dopo quasi quattro ore di concentrazione totale liberammo la nostra mente con
una forte e sentita stretta di mano! Così, una volta scaricate per un attimo le
emozioni e soprattutto le preoccupazioni, abbiamo potuto osservare tutto ciò
che ci circondava. Dentro di me ero estasiato da tale panorama, che presentava
una serie infinita di cime una più bella dell’altra. Mi ricordo ancora della
breve frase detta da Gabri in quel momento, che secondo me può far immaginare a
chiunque la vastità di visuale che avevamo. Egli disse <: Sembra di
essere in aereo:>. Era vero, sembrava proprio così! Questi piacevoli
momenti non durarono però molto, perché il pensiero del ritorno si faceva
sempre più opprimente dentro di noi. Così mangiammo qualcosa, Gabri scrisse i
nostri nomi sul libro di vetta, due foto e poi via verso quel parcheggio del
Passo Sella che da lassù appariva una macchiolina bianca nel verde dei
prati. Quanto sembrava piccolo e distante da noi quel posto! Scendemmo così per
la facile cresta, sino ad arrivare a quell’unico punto certo della discesa
rappresentato dall’anello cementato della quarta torre e qui scendemmo in
doppia alla sottostante forcella.
Una volta posatici su di essa, avevamo alla nostra sinistra lo sbocco del
canalino da cui eravamo saliti e davanti, invece, una traccia che si portava
alla sommità della terza torre. Consultando la relazione decidemmo per la
traccia e non ci sbagliammo, perché dopo un po’ trovammo un successivo anello
per la calata. Il ritrovamento cancellò, come un colpo di spugna sulla lavagna,
parte della nostra preoccupazione per la discesa. A questo punto, con i nostri
dubbi in rapido dissolvimento, non rimaneva altro che scendere più metri
possibili a corda doppia. Perciò nessun problema, per Gabri, ma non per me, che
se da una parte ero contento per la trovata discesa, l’idea di effettuare
molte doppie non mi attraeva molto, visto la dimestichezza che sino ad allora
avevo con quella particolare manovra di corda. Una cosa comunque era certa, in
quei momenti l’unica cosa sbagliata da farsi era proprio quella di lasciarsi
prendere la mano da dubbi ed insicurezze, perciò tentai di rimanere il più
lucido possibile e di eseguire quelle semplici ma fondamentali operazioni che il
mio capocordata mi aveva insegnato sin dalle prime uscite sui “sassi” ai
colli Euganei. In effetti dopo le prime doppie notai che tali manovre
diventavano sempre più automatiche e persino scendere in quel modo , senza
faticare troppo, era piacevole. Devo anche dire che, come quando si effettua una
salita lunga e faticosa, l’avvicinarsi lento ma costante della cima infonde
ottimismo, anche quando si scende e si vede la base della parete sempre più
grande e a portata di mano , il morale ne risente in positivo. Questo valeva
anche per noi, che ormai cominciavamo a sentire i primi deboli disagi fisici
dettati da una giornata lunga ed intensa quale era stata la nostra. Così, dopo
le due ultime doppie da cinquanta metri, finalmente mettemmo i piedi sulle
ghiaie della forcella delle Cinque Dita a 2785 metri di quota. Qui tirai il
primo sospiro di sollievo, proprio perché mi sentivo fuori dalla morsa della
parete su cui ci impegnammo in quasi quattro ore di intensa discesa.
L’esperienza che mi sono fatto in tanti anni di escursionismo mi diceva che
non dovevo però considerare ancora del tutto finita la giornata, proprio perché
da discendere rimanevano un infido tratto di canalone roccioso e un ghiaione che
ci avrebbero definitivamente depositato sui prati del Sella e da qui all’auto.
Solamente una volta che i miei scarponi affondarono nell’erba di quei pascoli,
che non mi erano mai parsi così dolci e accoglienti, riuscii a ripensare a
tutta l’ascensione fatta con estrema lucidità. Fu proprio in quell’istante
che sentii la necessità di stringere ancora una volta la mano a Gabriele; una
stretta che serviva per scaricare le emozioni vissute nel giorno e cancellare
tutte le tensioni che avevo accumulato. Quel gesto, che sino ad allora non avevo
mai ripetuto alla fine di un’ascensione, mi servì anche e soprattutto per
ringraziare il mio amico e capocordata per avermi accompagnato nella
realizzazione di un sogno a cui entrambi tenevamo moltissimo!
Marco Manfrini
Settembre 2004