Ricordo di una “prima” invernale
(Prima ripetizione invernale della via Pollazzon-Rudatis alla Torre di Valgrande)

di Gabriele Villa

Qualche anno fa, quando ero un giovane alpinista ricco di entusiasmi e povero d’esperienza, sognavo di poter compiere un’impresa alpinistica di un certo significato, una di quelle che potessero assurgere agli onori della cronaca, magari anche solo in ambito locale.
Non che volessi emulare le gesta quasi sempre “eroiche” dei grandi alpinisti dei quali leggevo avidamente i libri autobiografici, ma, insomma, una salita che potesse meritare un minimo d’attenzione, rientrava nelle mie ambizioni di giovane ed inesperto alpinista.
Quante volte mi ero chiesto, forse ingenuamente, sfogliando le guide alpinistiche e leggendo i nomi dei salitori e dei primi ripetitori di una via, che cosa potessero provare costoro leggendo il proprio nome stampato su quelle pubblicazioni. Una curiosità abbastanza banale e ingenua a cui il tempo e l’attività svolta in anni di alpinismo si sono incaricati di dare la risposta, che, probabilmente già allora, avrei potuto facilmente intuire.
 

Come nacque l’idea della prima ripetizione invernale

Tutto era partito da Paolo. Lui si recava ogni estate in vacanza con la famiglia a Mareson di Zoldo.
Suo vicino di casa era quell’ing. Oscar Kelemina, conosciutissimo autore della guida alpinistica del gruppo del Civetta, alla cui riedizione stava lavorando in quell’anno.
L’ingegnere gli aveva fatto vedere il lavoro in preparazione e Paolo si era anche impegnato in alcune ripetizioni di vie su quella montagna con l’intento di portare informazioni, “fresche” e aggiornate, al suo vicino: le famose “informazioni private”, citate sulla guida.
Aveva potuto così venire a conoscenza di un’informazione interessante: ad una delle vie classiche, una fra quelle nemmeno troppo difficili, mancava la prima ripetizione invernale e precisamente alla Pollazzon-Rudatis sulla Torre di Valgrande, una delle cosiddette Rocchette.
Sembrava proprio una ghiotta occasione per fare qualcosa di “significativo” ed appagare quel sentimento di ambizione che, inutile negarlo, non poteva non albergare nell’animo di noi giovani alpinisti padani, di belle speranze e di vago futuro.
In quegli anni, a Ferrara, gli alpinisti che praticavano la montagna d’inverno si contavano sulle dita di una mano e l’esperienza specifica si limitava ad un paio di salite alla via ferrata Cesco Tomaselli.
La prima di queste era consistita in un tentativo respinto per l’arrivo di una perturbazione atlantica che ci aveva ricacciato dopo essere arrivati a quasi metà percorso; l’altra portata a compimento, con l’arrivo in cima alla Torre Fanis Sud dopo sei ore di “lotta con l’alpe”, in un inverno con scarse precipitazioni nevose.
Di arrampicate invernali, vere e proprie e fatte in cordata, non ne sapevamo nulla ed avevamo, di conseguenza, tantissimi dubbi sul come organizzarci per la nostra impresa.
Avevamo così cominciato con il preparare una lista di cibo da portare, perché ci era sembrata quella la cosa di maggiore importanza “strategica” e suscettibile di notevole discrezionalità.
Il piatto base sarebbe stato formato da scatole di minestra di fagioli, accompagnato da formaggio grana, poi il pane, i biscotti per la colazione, le bustine di the con lo zucchero e i limoni, arance e mandarini e le immancabili scatolette di tonno e carne Simmenthal.
Ma un conto era preparare la lista, un altro riporre il tutto negli zaini dopo avere aggiunto i fornelletti a gas, i sacchi piuma, i ramponi, le piccozze, il martello, i chiodi, le staffe e tutto il rimanente materiale alpinistico necessario per portare a termine una prima invernale.
Fu così che mi venne l’idea di chiedere un consiglio a Giancarlo Milan.
Era un amico, istruttore nazionale di alpinismo, gestore di un negozio di articoli sportivi nella vicina cittadina di Rovigo. Lui di invernali ne aveva fatte e pure di notevole impegno fisico e tecnico: era la persona giusta per togliermi dall’impaccio.
Quando gli telefonai mi chiese cosa fossimo intenzionati a fare ed io, senza fare nomi né di luoghi né di cime, gli dissi semplicemente: “una prima ripetizione invernale”. Ricordo che mi disse d’un fiato: “Alòra, non stà portàr niente da magnàr, tanto te và tuto de adrenalina”. Quando riferii la cosa agli amici mi guardarono e probabilmente pensarono quello che già avevo pensato io: “questo qui è matto”.
E invece aveva pienamente ragione, ma lo avremmo scoperto solo a distanza di giorni e soltanto dopo avere portato a termine la nostra avventura.
Per cui, ignorando completamente il consiglio, selezionammo tutto l’occorrente, ovviamente comprensivo di abbondanti cibarie ed alla fine, dopo avere stipato tutto negli zaini, ci accorgemmo di averne riempiti sei.
Noi saremmo stati in quattro, ma non ci parve un problema insormontabile e decidemmo che li avremmo portati tutti e sei perché nulla di quanto vi era contenuto ci era parso superfluo.

3 febbraio 1982: l’avvicinamento al bivacco invernale del rifugio Coldai

Fu così che, nella fredda mattina del 3 febbraio 1982, ci presentammo ad Alleghe con la Fiat 127 blu di Stefano stipata all’inverosimile. Mentre gli amici preparavano tutto il materiale per poter iniziare la nostra avventura, io mi incaricai di andare alla biglietteria per acquistare i tickets per gli impianti di risalita fino al Col dei Baldi.
Siccome non erano ancora i tempi del telefonino e dovevamo preoccuparci di mantenere un minimo di contatto con il mondo civile, che ci apprestavamo a lasciare per qualche giorno, riferii alla ragazza della biglietteria quali erano le nostre intenzioni.
Avevamo calcolato il primo giorno per raggiungere il bivacco del rifugio Sonino al Coldai, il secondo per il trasporto dei materiali alla base della parete, il terzo per la scalata e il quarto per il rientro a fondo valle. La pregai quindi di allertare il Soccorso Alpino se non ci fossimo ripresentati alla biglietteria al termine del quarto giorno.
Fu così che, poco più tardi, la seggiovia ci scaricò in cima a Col dei Baldi con gli sci ai piedi e il nostro carico di zaini, ambizioni e speranze. La giornata era buona, come del resto tutte quelle degli ultimi venti giorni di anticiclone stabile e consolidato.
Imboccammo subito la pista che, con leggera pendenza, va in direzione di Malga Pioda.

I due più bravi ad usare gli sci caricarono uno zaino sulle spalle ed uno sul petto. Alla Malga applicammo le pelli di foca ed iniziammo a salire la strada verso il rifugio Coldai.
L’ultimo tratto che porta al rifugio lo valutammo troppo ripido e, visto il fondo ghiacciato, escludemmo di salire con gli sci, per cui li abbandonammo proseguendo con i ramponi ai piedi.
Mentre eravamo impegnati proprio su quel tratto ripido e faticoso avvertimmo, con nostra grande sorpresa, delle voci e ben presto vedemmo due sci alpinisti scendere per quel pendio che noi stavamo faticosamente risalendo.
Quello davanti era decisamente abile e con una padronanza assoluta degli sci: fisico asciutto e scattante, con balzi rapidi invertiva la direzione di discesa facendo lavorare le lamine in maniera ottimale. L’altro, pur avendo buone capacità, denotava qualche problema nei cambi di direzione e vederlo sopra quello scivolo faceva una certa impressione, anche perché se ne percepiva la preoccupazione che cercava di mitigare rivolgendosi all’altro per chiedere consigli e chiamandolo insistentemente per nome: Soro.
Con un nome così non poteva essere che Dorotei, alpinista di una certa fama, già allora, io credo, Guida Alpina. Scambiammo due chiacchiere.
Ci chiese che intenzioni avessimo, cosa che gli dicemmo perché, giunti a quel punto, non avrebbe avuto più senso tenere segreti i nostri obiettivi. Ci disse che anche lui aveva fatto un’invernale alla Torre di Valgrande, proprio l’anno prima su di una via della parete est e ci fece gli auguri.
Forti di quel viatico completammo la risalita del ripido canale e guadagnammo l’accogliente locale invernale del rifugio Sonino al Coldai.
Arrivare in un locale sperso fra le montagne, fuori dalla civiltà, senza acqua corrente, nè luce elettrica e mancante di tutti i comfort ai quali siamo abituati, fa un effetto particolare.
In quanto alpinisti arrivati lì per una prima invernale ci sentivamo un pò “eroici”, al contempo avvertendo un senso di precarietà per la mancanza di tutte quelle comodità che fanno parte del vivere quotidiano e trasmettono un senso di sicurezza e protezione.
Cosicchè, quando ci accorgemmo della stufa e della scorta di legna presente nel locale e dopo aver acceso il fuoco e cominciato a sentire il tepore spandersi intorno, avvertimmo nettamente, sulla bilancia della nostra esperienza, prendere peso il piatto dell’eroismo e alleggerirsi quello della precarietà. Potenza primordiale di un fuoco e del calore emanato da una stufa!
Consumato il minestrone di fagioli e il contenuto di alcune scatolette, c’infilammo nei sacchi piuma, soddisfatti della nostra confortevole sistemazione.
Intanto fuori, giù nella valle zoldana, le luci dei paesi baluginavano nel freddo della sera e un cielo incredibilmente stellato prometteva per l’indomani un’altra giornata di freddo e sole. 

4 febbraio 1982: il trasferimento dei materiali ai piedi della parete

La sveglia suonò prima dell’alba. L’obiettivo di giornata sarebbe stato quello di portare all’attacco della via tutto il materiale alpinistico, eventualmente posizionare una corda fissa sulla cengia d’attacco e rientrare al bivacco per trascorrervi un’altra notte non troppo disagevole. Avevamo, infatti, valutato preferibile fare quattro o cinque ore di cammino in più, piuttosto che trascorrere la notte all’addiaccio, ai piedi della parete.

Quando uscimmo dal bivacco era ancora buio, ma non ci furono problemi a seguire il percorso del sentiero Tivàn; infatti, la neve indurita dal freddo era perfetta per le punte dei nostri ramponi. Il suo scrocchiare sotto le punte metalliche ci trasmetteva un senso di piacere e di sicurezza al tempo stesso. Sembra incredibile come certe immagini rimangano impresse nella memoria, nitide come sulla carta fotosensibile impressionata dalla luce che entra nell’obbiettivo della macchina fotografica. Il ricordo più vivo di quella giornata rimane la sagoma scura dei tre amici che si staglia davanti all’orizzonte che sta inondandosi delle prime luci dell’alba.
Ricordo in lontananza i profili delle montagne friulane dietro di loro e il cielo infiammarsi di rosso. Quell’immagine è diventata una diapositiva che non ho più avuto bisogno di guardare perchè è come se mi fosse rimasta stampata direttamente nella retina.
Dopo la foto, continuammo a camminare con il peso dei nostri zaini sulla schiena, mentre la luce del mattino prendeva il definitivo sopravvento. Quando arrivammo nella conca sotto alla Torre di Valgrande, questa ci apparve, lassù, ancora lontana, ma già un pò più “nostra”.
Facemmo un autoscatto, noi quattro in primo piano e la Torre, con la sua parete nord est, sullo sfondo. Nella foto siamo tutti sorridenti con quel sorriso pieno che hanno le persone quando stanno vivendo un’avventura intensa e appagante.
Dopo avere fotografato e mangiato qualcosa, attraversammo la conca per cominciare a risalire il pendio nevoso che ci avrebbe condotto proprio ai piedi della parete nord est, su di un terrazzino che sarebbe diventato il nostro campo base di giornata. Quando, finalmente, vi approdammo potemmo vedere sul ripido pendio sottostante le tracce di passaggio che avevamo lasciato incise nella neve.

La giornata continuava ad essere magnifica e non una nuvola macchiava il cielo azzurro.
Adesso il sole aveva già cominciato a girare e la parete nord est era in ombra e ci rendemmo veramente conto del freddo che avremmo dovuto affrontare l’indomani.
Decidemmo di separarci in modo da ottimizzare il tempo.
Così Paolo e Stefano indossarono le imbragature per accingersi ad affrontare in cordata la cengia che li avrebbe condotti all’attacco della via normale e sotto la verticale della fessura che caratterizza la prima parte della scalata. Nel contempo io e Andrea cominciammo a scendere per rientrare al bivacco con il compito di sciogliere neve per ricavare l’acqua necessaria a preparare le bevande per la sera e il the da portare con noi il giorno successivo.
A sera, riuniti attorno alla tavola del bivacco, considerammo che la nostra giornata da “portatori” era andata secondo le previsioni: tutto il materiale alpinistico si trovava sotto la parete, la corda fissa sulla cengia d’attacco era stata posizionata, il tempo era stabile e noi ci sentivamo ottimamente, pronti e “carichi” per la salita. Non solo ci eravamo divisi i compiti durante la giornata, ma avevamo anche assegnato le posizioni per la scalata dell’indomani: Paolo avrebbe condotto la cordata, assicurato da me, seguito da Andrea, mentre Stefano avrebbe chiuso raccogliendo tutto il materiale e togliendo gli eventuali chiodi piantati. 

5 febbraio 1982: finalmente arriva il giorno della scalata

La sveglia suonò prestissimo quella mattina, ancor prima del giorno precedente.
Fuori era ancora completamente buio; alla luce della candela scaldammo la colazione ed uscimmo nel freddo della notte. Imboccammo il sentiero Tivàn senza profferire parola, ognuno chiuso nei suoi pensieri, concentrato solo su quello che lo aspettava nella giornata.
Camminammo decisi e lesti, tanto che arrivammo al terrazzino sulla cengia che era ancora buio, al punto che non si poteva scalare. Ci accovacciammo, imbragati e pronti, a guardare il sorgere del sole e attendere le prime luci per poterci muovere. Lì accovacciati, nel freddo che precede l’alba, stavamo assistendo ad uno spettacolo che è precluso “all’Homo domesticus”, quello che vive nelle case, con i termosifoni accesi e le ciabatte a fianco del letto.
Finalmente si cominciò a vedere qualcosa e la nostra salita potè cominciare.

Seguita la cengia ingombra di neve arrivammo alla prima sosta e Paolo iniziò a salire sulle difficoltà contenute della via normale, in quel tratto coincidente con la Pollazzon-Rudatis.
Ricordo che quando toccò a me partire il sole lambiva ancora la parete e non percepivo una sensazione di gran freddo, al punto che decisi di togliermi i guanti di lana, arrampicando a mani nude. Me ne sarei ricordato nei giorni successivi, quando la pelle dei polpastrelli cominciò a divenire grigia, per poi sollevarsi e infine staccarsi. Per parecchi giorni fu un tormento.
Mi ero inconsapevolmente sottoposto ad una vera e propria crioterapia che aveva necrotizzato i primi strati di pelle dei polpastrelli di entrambe le mani, eccetto i pollici.
Della scalata in sè, non ricordo tantissimo. Dicono che arrampicare è sempre uguale: cambiano i luoghi e le sensazioni che accompagnano il gesto. 
Le sensazioni che rammento sono legate a quel primo tiro di corda con la luce radente, ma priva di qualsiasi tepore.
Ricordo nettamente la fessura del terzo tiro di corda, quella che facemmo con tecnica d’incastro, non senza una buona dose di fatica fisica. Ricordo ancora la parete, che da sotto era sembrata completamente sgombra di neve, apparire da sopra prevalentemente bianca, per effetto della neve ghiacciata che era depositata su ogni piccola cengetta e sporgenza rocciosa.
La sensazione più intensa la provammo tutti al quinto tiro, quando, dopo una traversata verso sinistra, la via va a finire sul lato sud del pilastro e, per pochi metri, potemmo risalire con la carezza del sole, per subito dover ritornare nell’ombra fredda della parete nord est.
Ancora tre tiri nel freddo, quel diedro di quarto grado superiore dove Paolo, scivolando su una placca di ghiaccio, rischiò di volare; la traversata delicata con il passaggio di quinto grado superato oramai pensando che era l’ultima difficoltà tecnica che ci separava dal pianoro sommitale e dal sole del pomeriggio. Il panorama intorno era stupendo e il Pelmo, maestoso nella sua imponenza, sembrava lì ad assistere alle nostre fatiche. Arrivò Andrea, sorridente, ed infine Stefano, bardato all’inverosimile di tutto quanto lasciato da noi. 
Cordini, fettucce, moschettoni, staffe: aveva tutto a tracolla e sembrava una specie di Babbo Natale dell’alpinista.

Non pensavamo, in quei momenti, di avere concluso la nostra “prima ripetizione invernale”, ma solo al fatto che eravamo in cima alla Torre di Valgrande e c’era tutta la via normale da percorrere in discesa, a corde doppie ed arrampicando, per poter tornare al nostro accogliente bivacco.
Ci calammo quindi senza esitare, lasciando un pò a malincuore la cima invasa dal sole, per ridiscendere nel freddo della parete est. Ricordo ancora il “malefico” tratto in traversata che ci avrebbe portato sulla direttiva del camino, da scendere con le ultime tre corde doppie.
Sono le cenge, quelle dove d’estate si cammina agevolmente o si fa primo grado, che d’inverno offrono gli ostacoli più imprevisti: se la neve è farinosa si sprofonda e procedere diventa molto faticoso, se la neve è ghiacciata, per contro, servono ramponi e piccozza e grande attenzione.
La nostra discesa non poteva certo essere delle più celeri dal momento che ogni manovra doveva essere ripetuta da quattro persone.
Potemmo così vedere la luce calare gradatamente ed annunciare l’arrivo della sera, mentre il freddo aumentava quasi in proporzione diretta. In effetti, non è che la cosa ci preoccupasse, perchè avevamo messo in conto di scendere con il buio, per cui il suo arrivo non era temuto più di tanto.
Ricordo l’ultima doppia su di un “piton” che avevo piantato personalmente al mattino; un chiodo completamente nero, ma che avevo saputo ritrovare con facilità, alla sola debole luce della luna.
Riattraversammo la cengia d’attacco e raggiungemmo il terrazzino dove potemmo infilare tutta l’attrezzatura alpinistica negli zaini: adesso sì che era fatta; rimaneva solo da camminare.
Alle ventitrè varcammo la porta del locale invernale.
Ricordo che Paolo si stese sulla branda, sfinito.
Era, dei quattro, quello che, oltre alla fatica fisica, aveva speso maggiormente dal punto di vista psicologico, avendo “tirato” tutta la via da capocordata. Ne eravamo ben consci e pensammo noi a preparare qualcosa di caldo da mettere nello stomaco. 

In effetti, a parte Stefano che aveva mangiato qualche cioccolatino e qualche caramella, nessuno di noi aveva toccato cibo, nè bevuto per l’intera giornata, tanto era stata totale la concentrazione della scalata. 

6 febbraio 1982: il ritorno a valle

Al mattino successivo ci svegliammo con una sensazione di appagamento e di soddisfazione.
Il sole splendeva nuovamente e, questa volta, avevamo il tempo di godercelo.
A dire il vero, io avevo proposto agli amici di rimanere al bivacco un altro giorno, ma non trovai grandi consensi, anche perchè non avevamo modo di avvisare casa e nemmeno la signorina della biglietteria di Alleghe, che sarebbe stata in dubbio se allertare o meno il Soccorso Alpino.
Mentre eravamo stesi al sole, intenti nei nostri discorsi, arrivò Renato De Zordo, il gestore del rifugio Sonino che, d’abitudine, saliva al locale invernale per dare un’occhiata e controllare che tutto fosse a posto. 
Fu un piacere parlare con lui, raccontargli cosa avevamo fatto e sentire i suoi complimenti. 
Ci fece una proposta: se lo avessimo aiutato a spalare la neve che il vento aveva accumulato davanti all’ingresso del rifugio ci avrebbe concesso di telefonare a casa. 

Naturalmente accettammo, liberando l’ingresso che, nonostante la tettoia di protezione, era intasato di neve per effetto del vento che, vorticando, l’aveva accumulata maggiormente proprio in quel punto. Non potevamo immaginare che il telefono, sollecitato dal buon De Zordo, sarebbe rimasto muto. 
La logica conseguenza fu l’inizio dei preparativi per il rientro: la mia idea di rimanere un altro giorno era stata bocciata, tre contro uno.
Al momento di rifare gli zaini ci accorgemmo di quanta roba da mangiare fosse rimasta ed io ripensai all’amico Giancarlo Milan ed al suo “... non stà portàr niente da magnàr, tanto te và tuto de adrenalina”. Così era stato e noi lasciammo nella dispensa del bivacco tutte le scatolette e il cibo non deperibile che avevamo inutilmente portato.

Scendemmo rapidamente a riprendere i nostri sci per proseguire verso Malga Pioda; peccato solo di non saper fare a sciare. O meglio, Paolo sapeva fare benissimo, poi, a seguire, Andrea, Stefano ed infine io che ero un semplice scivolatore da pista battuta e, in neve fresca, pagai lo scotto con ripetute cadute faccia avanti e venti chili di zaino a spingermi ancora più a fondo nel manto nevoso.
Paolo, resosi conto delle mie difficoltà, mi si affiancò dandomi i consigli giusti per riuscire a divallare in quel di Alleghe. Raggiunta l’auto e caricati gli zaini, non rimaneva che avvisare la ragazza della biglietteria, la quale fu molto sollevata di vedermi e di potersi togliere il pensiero di quella responsabilità. 
Subito dopo la 127 blu di Stefano partì alla volta della Val Padana e la nostra avventura si concluse. 

Nei giorni successivi avemmo anche il nostro piccolo, e appagante, momento di gloria.
Il giornale locale dedicò “all’impresa alpinistica” un trafiletto con tanto di foto; proprio quella che ci vedeva sorridenti alla base di quella Torre di Valgrande che avevamo salito.
In sezione al Cai ci fecero tutti una gran festa: non era certo usuale che alpinisti ferraresi facessero scalate del genere, anzi, era la prima volta in assoluto per una cordata tutta ferrarese.
La nostra ambizione fu così soddisfatta.
Ma quell’ambizione che ci aveva dato la spinta per compiere una prima ripetizione invernale, poggiava sicuramente su una base di passione autentica per l’alpinismo e la montagna, quella che ci aveva fatto sopportare disagi e fatiche senza che nessuno dei quattro se ne lamentasse, anzi, godendo a pieno delle sensazioni, dei panorami e degli stessi disagi. Come quattro spugne avevamo “assorbito” tutto, caricandoci di un ricordo che dopo oltre vent’anni è rimasto integro: tanto lontano nel tempo, quanto vicino e forte nello spirito.   

A distanza di qualche anno, quando uscì la ristampa della guida del Civetta e lessi alla pagina 132 il nome mio e dei tre compagni di cordata con i quali avevo effettuato quella prima ripetizione invernale, scoprii come nessuno dei pensieri che mi erano girati per la testa negli anni precedenti mi venisse alla mente.
Non potei certo pensare ad ambizioni appagate, più o meno legittime che fossero, né indulgere ad auto elogi che nulla avrebbero potuto aggiungere alla mia modesta storia alpinistica.

Mi resi conto di quanta stupida ingenuità fosse contenuta nei pensieri di neofita dell’alpinismo.
Oggi, l’unica cosa che veramente mi sovviene leggendo i nostri nomi su quella pagina, è il ricordo intenso dei giorni vissuti, delle sensazioni forti e piene, la memoria viva di un’avventura, una di quelle che, in assoluto, più di tutte mi è rimasta nella mente e nel cuore. 
I nostri nomi su quella guida alpinistica ne sono, solamente e semplicemente, la logica e naturale conseguenza.

Gabriele Villa

Ferrara, 10 aprile 2005


Gruppo del Civetta
Torre di Valgrande  (2715 m)
Pilastro est della parete nord est
Cesare Pollazzon – Giovanni Rudatis  (11/9/1941)
Sviluppo: quasi 300m     Difficoltà: III+/IV, con tratto di IV+ e uno di V
1° Invernale: Paolo Gorini – Gabriele Villa – Andrea Corallini – Stefano Battaglia
5 febbraio 1982

Dolomiti Orientali – Civetta – Oscar Kelemina editore.