Monte Paterno, una via per un ricordo
di Alessandra Panvini Rosati
Sepp Innerkofler nasce a Sesto di Pusteria nel 1865, da una
famiglia di alpinisti.
Nel 1889 diventa Guida Alpina insieme al fratello Christl.
Dopo la scalata della parete nord della Piccola di Lavaredo (28 luglio
1890), ritenuta impossibile, la sua popolarità cresce e diventa la guida più
ricercata della zona.
Gestisce con la moglie il Rifugio sul Monte Elmo, poi il Rifugio Zsigmondy,
per finire con il Rifugio Drei Zinnen, ora Locatelli, posto ai piedi delle
Tre Cime, della Torre Toblin e del Monte Paterno (Paternkofel).
L’inizio della Prima Guerra Mondiale, alla fine di luglio del 1914,
sconvolge popoli, nazioni, il mondo intero ed anche le Dolomiti.
Sepp, non più giovane, non è richiamato alle armi.
Trascorre in apparente tranquillità, nel suo rifugio, il primo inverno di
guerra.
I clienti però scarseggiano, c’è ben altro cui pensare che a scalar
montagne…l’epoca d’oro dell’alpinismo s’interrompe bruscamente.
Allo scoppio delle ostilità con l'Italia, nel maggio del 1915, le cose
cambiano di punto in bianco costringendo il Comando di difesa del Tirolo a
predisporre un fronte, proprio nella zona di “lavoro” di Sepp.
Si abbandonano diverse località (fra cui Cortina d'Ampezzo), perché
considerate indifendibili o problematiche ma riducendo il fronte a meno di
350 chilometri.
Il grosso problema è la mancanza cronica di truppe e di soldati addestrati
da impiegare nella zona dolomitica.
Nel 1914, infatti, sui campi di battaglia della Galizia, si decimano i
reggimenti tirolesi dei Kaiserjäger e dei Landesschützen.
Di conseguenza, gli uomini disponibili sono più che altro guardie di confine
o reclute in addestramento, di certo non esperte in tecniche militari.
Sepp, con il figlio Gottfried e i fratelli, si arruola fra i volontari.
E’ uno Standschütze.
Gli Standschützen - presenti fin dal 15° e 16° secolo come corpo volontario
in ogni valle del Tirolo per la difesa del territorio - sono allo stato
delle cose, legati agli arruolamenti per la guerra, ragazzi troppo giovani e
uomini troppo vecchi compresi gli inabili.
Sepp si trova a combattere nel punto cardine del sistema difensivo tirolese:
tra il Passo Monte Croce e la Valle di Landro: punti di accesso strategici
ed importanti che fanno gola agli italiani.
Lo sfondamento di questi punti di passaggio è percepito come un disastro
perché consentirebbe agli Alpini di interrompere i rifornimenti austriaci,
raggiungere il Brennero e arrivare fino a Innsbruck senza trovare
resistenza.
L'ordine è uno: resistere ad ogni costo lungo le creste delle montagne.
Si formano delle pattuglie costituite anche da altre guide alpine della
zona.
La pattuglia di Sepp inizia la sua attività in guerra il 21 maggio, proprio
con la scalata del Monte Paterno.
Sepp conosce quelle rocce come le sue tasche e non ha problemi ad affrontare
scalate in condizioni difficili; lo ha fatto accompagnando i suoi clienti… lo
fa ora per difendere la sua Patria.
Compie azioni mirabolanti che fanno
ottenere alla squadra promozioni e decorazioni; per lui, che non è nemmeno
un vero militare, la cosa è ancor più meritoria.
A Sepp è assegnata proprio l’occupazione della cima del Paterno, da dove
assiste impotente alla distruzione del suo rifugio, da parte degli italiani
che avanzano inesorabilmente.
Il 29 maggio 1915, gli italiani riescono tuttavia a conquistarne la cima.
I tirolesi cercano di riconquistarla con ripetuti attacchi.
Non ci riescono.
Infatti, la cima del Paterno è piccola e per riprenderla si deve provare a
scalare il monte.
Può farlo solo un piccolo gruppo di uomini in modo da
sorprendere gli Alpini, appostati saldamente dietro un muretto quasi
ridicolo.
L'unica cordata che può avere un margine di riuscita è la ”Pattuglia
Volante” di Innerkofler.
Sepp e i suoi iniziano la salita all’una di notte del 4 luglio 1915.
Arrivano in cima, ma sono scoperti dai nemici che li respingono, con fucilate
e lanci di pietre.
Sepp muore.
"L'uomo caduto durante l'azione di pattuglia sul Monte Paterno è la Guida
Alpina Sepp Innerkofler…"
Questo il dispaccio inviato il 4 luglio 1915.
Informava della morte di un mito dell'alpinismo.
Le versioni della sua morte sono tre, così riportate da articoli dell’epoca
e/o libri recenti che trattano la sua storia:
1) Sepp si erge dietro un sasso, lancia tre o quattro bombe a mano, delle
quali forse solo una esplode. Viene poi visto dai suoi compagni colpito alla
fronte precipitare con un urlo giù per la parete e cadere sulla ghiaia.
2) D'improvviso appare, dritta sul muretto della vedetta della cima, la
figura di un soldato alpino - Pietro De Luca del battaglione Val Piave -
campeggiante nel tersissimo cielo, alte le mani armate di un sasso, rigata
la fronte di rosso della prima bomba. «Ah! No te vol andar via?». Prende
giusto la mira, scaglia con le due mani il sasso! Il Sepp alza le braccia al
cielo, cade riverso, piomba, s’incastra nel camino Oppel, morto.
3) scrive il figlio Sepp Jr: "… Mio padre si mise a maneggiare il fucile e
nello stesso tempo la mitragliatrice sulla Torre di Toblin (austriaca)
iniziò a sparare. Venne subito messa a tacere, ma era già troppo tardi,
perché all'istante vidi mio padre scivolare giù per la parete e giacere
presso il camino Oppel. All’esumazione sul Paterno (agosto 1918) non ero
presente. Alla seconda esumazione nel camposanto di Sesto ero presente e
vidi come la testa fosse perforata diagonalmente dalla fronte verso
l'occipite. M'immagino che mio padre si accorse che gli sparavano addosso da
dietro e che si voltò. Infatti, ho esattamente accertato che l'uscita della
pallottola avvenne da dietro".
Il 9 luglio l'Arciduca Eugenio d'Asburgo conferisce a Sepp Innerkofler la
medaglia d'oro al valor militare.
Gli Alpini italiani recuperano la salma, esponendosi al tiro nemico, e la
seppelliscono in vetta al Paterno come gesto di stima.
Egli deve giacere là, sulla cima del Paterno, per la quale e sulla quale è
morto.
Pongono sulla sua tomba una lapide con la scritta:
“Al morto re delle Dolomiti, i suoi nemici!”
Alla fine della Guerra, le spoglie di Sepp vengono traslate nella tomba di
famiglia, nel cimitero di Sesto.
Con la chiesa alle spalle, la tomba è la prima a destra.
La notizia della morte di Innerkofler addolora intensamente tutti gli
ambienti alpinistici del tempo, austriaci, tedeschi e italiani.
Pur essendo un fatto storico, diventa subito leggendaria.
Il 21 settembre 1997 presso il rifugio Drei Zinnen / Locatelli si inaugura
un cippo alla memoria di Sepp Innerkofler, alla presenza di Autorità e
convenuti.
La storia di Sepp Innerkofler è tragica, come solo una morte in guerra può
essere.
Fonte d’insegnamento per chi ha ancora un barlume di senso dell’onore e del
rispetto.
I suoi nemici hanno rischiato anch’essi la vita, pur di
recuperarne la salma e onorarlo da morto: per cosa era stato da vivo e per
cosa aveva saputo affrontare per tornare sul “suo” Paterno.
Se le sorti si fossero capovolte, lui e la sua pattuglia avrebbero compiuto
lo stesso gesto.
Quando mi reco in Val Pusteria, trovo sempre il tempo per andare a rendergli
omaggio nel piccolo e struggente cimitero di Sesto.
Quest’anno, centenario dello scoppio della Grande Guerra, ho sentito come un
mio personalissimo dovere il salire sul Paterno, seguendo la salita
classica, lo spigolo Nord Ovest (Wolf-Bolte).
Nel romanticismo dei miei desideri, mi piaceva pensare che fosse l’esatta
via percorsa da Sepp nella fatidica notte del 4 luglio.
So bene che non è
così perché quella via porta la data degli anni ’30 ma, su scalate alpine di
gradi relativamente bassi, i passaggi non sono quasi mai così obbligati;
perché non lasciarmi il dubbio che Sepp passò, magari per qualche metro,
proprio da lì?
Telefono quindi al mio amico e Guida Alpina (proprio come Sepp, tirolese
doc) Luis Strobl, che da anni sopporta le mie titubanze e i garbugli che
solo io riesco a creare sulle corde appena fatte passare…
Gli chiedo di allenarsi, ovviamente con ironia: quest’anno potrà portarmi
dove vuole a patto che mi accompagni anche sul Paterno.
Il secondo da trascinare nell’impresa è già pronto: Jean Luc, un caro amico
che da Annecy, regno del granito, viene apposta per arrampicare con noi su
calcare.
Luis mi chiede il motivo di una richiesta così singolare; sul Paterno porta
tanta gente ma dalla via Ferrata delle Gallerie.
Non sono molte le guide che fanno vie di roccia su quel monte e ancora meno
i “clienti” che le richiedono.
Rispondo che posso ormai vantare un bel po’ di scalate in queste zone.
Lui sa bene che ricerco via classiche, storiche, che non fanno curriculum e
i gradi che si misurano sono quelli dell’importanza storica più che degli
strapiombi superati.
Sono il cliente ideale che dice sempre: “portami dove vuoi, portami dove
sai che posso farcela” (come da vecchio insegnamento, in alpinismo i gradi
sono solo due: o passi o non passi).
Per questa volta, mi dovrà accontentare: quest’anno si sale al Paterno per
ricordare tutti i soldati che hanno combattuto su quel fronte, da una parte
e dall’altra, e per onorare un suo predecessore: il grande Sepp.
Luis accetta, non avevo dubbi.
Conosce questi monti meglio di chiunque altro e, forse, il motivo per cui ho
posto una tale richiesta lo ha stimolato e anche per lui sarà una scalata di
preghiera e memoria.
Lui, un tirolese che non potrà mai sentirsi italiano (una cultura non si
cancella con un nuovo tratto di penna su una cartina – parole sue e parole
giuste) arrampicherà con Jean Luc, francese, che ha avuto un nonno ucciso
nella Grande Guerra sul fronte di Francia ed una italiana, che non ha alcun
parente legato a quei tragici momenti, ma che vive profondamente il dovere
del ricordo.
Spiego a Jean Luc (con estrema fatica linguistica) - che mi ha raggiunto a
Dobbiaco - il perché di questa scelta.
Gli racconto la storia di Sepp e lo accompagno sulla sua tomba.
Ormai anche lui è entrato nell’onda della rimembranza.
Paterno: oui, définitivement.
E’ deciso.
Il meteo non è da sottovalutare quest’anno; bisogna attendere il giorno
giusto.
Arriva.
Sono emozionata. La notte prima dormo poco, scrivo un biglietto che lascerò
nel libro di vetta.
Preparo i ferri del mestiere e decido che indosserò la
mia giubba con distintivo ufficiale di AE del CAI.
Non ha alcun valore fuori dal mondo CAI, né io tengo particolarmente a
vantarmi dei titoli conseguiti.
Non so perché lo faccio, mi voglio vestire bene in segno di rispetto per la
simbologia di ciò che sto per compiere.
Come se ci fossimo messi d’accordo, Jean Luc si presenta con la giubba del
mio stesso colore!
Anche lui meglio vestito del solito.
Luis è invece sempre impeccabile, porta la giubba con lo stemma di
Bergfuhrer.
Così, noi tre, sembriamo una piccola pattuglia alpina, se il paragone non
risultasse irriverente.
Come al solito, partiamo prestissimo.
In ambiente e su certe pareti, poco frequentate e quindi sporche, la regola
è partire prima per essere i primi (rimarremo comunque gli unici).
Dal Rifugio Auronzo saliamo alla forcella Lavaredo. Salutiamo alcuni amici
che gireranno a sinistra verso l’attacco dello Spigolo Dibona alla Grande di
Lavaredo (per un attimo ci viene la nostalgia!).
Proseguiamo verso il Paterno, è ancora l’alba.
Gli ultimi venticinque minuti per arrivare al vero e proprio attacco sono il solito
sentiero per capre ubriache e frana tutto, ah che bello.
Superiamo un canalino ancora innevato, con qualche minima difficoltà, siamo
all’attacco già belli sudati.
La via è a nord, nord-ovest, quindi mentre indossiamo scarpette e tutto il
kit da bravo alpinista già capiamo che la sensazione di calore dovuta allo
sforzo aerobico durerà il tempo di fare un mezzo barcaiolo.
Ok, ci siamo.
Luis attacca e se ne sale con maestria invidiabile. Noi lo seguiamo
concentrati.
Il tiro offre roccia fredda e poco compatta, bisogna stare attenti a ogni
appiglio e ogni appoggio. E’ pericoloso.
Io sono tra il taciturno e il meditabondo, sento che nell’aria c’è qualcosa.
Quando in certi luoghi sono accadute vicende particolari, resta sospeso ed
immanente il soffio del ricordo, il peso opprimente di ciò che è stato, lì.
Provate ad andare a Varsavia, dove c’era il ghetto o ad
Auschwitz/Birkenau….un disagio nell’aria vi opprimerà fino a farvi avere
voglia di scappare via.
I tiri si susseguono e arriviamo a un terrazzino poco prima di un camino.
Ricordo anche una fettuccia che mi pare si trovi in una posizione che non
serve alla progressione. Mi sbaglierò, magari qualcuno abituato alle falesie
e alla sicurezza del trovare (anzi, dell’avere) il chiodo sempre ad altezza
testa, è arrivato fin qui e poi ha desistito…?
Il freddo gradisce la nostra compagnia, non se ne va.
Alle soste Jean Luc ed io cerchiamo di parlare, piano… Luis non gradisce che
ci si deconcentri.
Io mi sento come in “Totò, Peppino e la Malafemmina” nella mitica scena
davanti al Duomo di Milano.
Jean Luc parla francese, solo quello.
Io l’ho studiato anni fa ma non sono praticante.
Finisce che mischio inglese, italiano, milanese, francese.
La conversazione è delirante, ma ci capiamo lo stesso.
Abbiamo imparato almeno i termini di base per un nostro personalissimo
dizionario francese – italiano per scalatori.
Comunque il “Noio voulevon savuar le barcaiol e me racumandi tu tiens la
corde bièn tirèe …” resta un’antologia dell’arte di arrangiarsi.
Arriviamo ai tre tiri finali che da soli valgono la salita.
Un tiro è strapiombante ma non difficile, un muretto è ostico ma si fa.
Dobbiamo spostarci sullo spigolo con un bel traversino con spaccata nel
vuoto in discesa (i traversi, la mia passione).
Siamo ad un tiro lungo; la mia corda è bloccata da qualche parte e Luis non
riesce a recuperarla né sente i miei urli per avvisarlo.
Jean Luc va avanti fin dove riesce a farsi sentire e, sperando che Luis
capisca il suo linguaggio di cui sopra, spiega la situazione.
I due liberano la mia corda, bloccata dal solito spuntone ed io, molto ma
molto delicatamente, supero il passaggio davvero aereo e delicato.
Da lì, mi volto per guardare la Toblin, il Locatelli e il mare di gente che
ormai lo assale (dopo 100 anni, in pace).
Io non ci credo ma, se dovesse mai esistere un paradiso, spero sia
esattamente così o anche un po’ meno.
Mi fermo un minuto, ad asciugarmi gli occhi inumiditi o rischio di non
vedere gli appigli.
La roccia ora è più solida, il sole finalmente ci viene a trovare.
Mi arrampico bene, lo so…. oggi sto andando sull’onda della motivazione
interiore.
Arriviamo sulla caratteristica cresta orizzontale.
Innerkofler ci deve esser passato davvero, per forza, chissà quante volte
con i suoi clienti o con amici.
Vediamo la Croce, siamo fuori.
Luis ci attende con un sorriso che la dice lunga sul perché abbia scelto di
diventare una Guida.
Io sono sicura che oggi anche lui si sia divertito, abbia pensato e onorato
la memoria di chi, qui, ha perso la vita.
Nascondo la mia commozione e inserisco il biglietto, scritto la notte prima,
nel libro di vetta.
Il mio Bergfuhrer approva.
Foto, foto e foto… anche con l’immagine di mia nonna Maria, morta da tempo,
nata proprio alla fine della Guerra, nel 1917.
Su ogni ascensione importante
lei è con me.
Iniziano ad arrivare le orde di ferratisti dalle gallerie.
Meglio tornare giù, chiusi nei nostri pensieri.
Il tempo ci ha regalato una finestra di sole e panorami.
Il testo del biglietto che si trova nel libro di vetta è questo:
“E’ un dovere, per noi che ammiriamo queste cime spinti da puro spirito
estetico ed alpinistico, pensare almeno per un momento a tutti coloro che,
100 anni fa, proprio qui combatterono e spesso non fecero ritorno a valle.
Divise diverse ma stesso coraggio, stesse paure, stessa sorte.
Nel vento, mi par di ascoltare le loro voci…
Un pensiero speciale alla Guida Alpina Sepp Innerkofler, morto sul Paterno
il 4.7.1915.
Agosto 2014”
Muore soltanto chi viene dimenticato.
Alessandra Panvini Rosati
Monte Paterno, una via per un ricordo
Milano, agosto 2014