Un’arrampicata negli anni ’70: andata e ritorno
di Gabriele Villa
“Accidenti, al
centocinquantesimo!”
Quante volte l'avrò detto o pensato, tra me e me, nel corso del 2013?
Parecchie, a dire il vero, e spesso anche con aggettivi assai più
“coloriti”.
Era uno sfogo per protestare contro i tanti impegni piovutimi addosso in
seguito alle iniziative approvate dalla sezione del CAI di Ferrara per
contribuire a festeggiare la ricorrenza della fondazione del Club Alpino
Italiano, il centocinquantesimo per l'appunto.
Così mi ero trovato invischiato in alcune iniziative, prima fra tutte, la
preparazione di un filmato storico di una quindicina di minuti da proiettare
in serata pubblica, poi una mostra presso la Biblioteca comunale e, infine,
un'altra manifestazione, il tutto tra marzo e maggio.
In programma c’era anche una mostra ad ottobre che proponesse l'esposizione
di materiali storici e attrezzature per illustrare l'evoluzione degli
strumenti tipici usati dagli alpinisti nelle varie epoche. Gli inizi furono
difficili e gli sparuti collaboratori cominciarono a lavorare ognuno per
conto proprio, rimandando ad una riunione estiva una prima verifica del
materiale raccolto. In riguardo all’evoluzione dei materiali da arrampicata
mi resi conto che avevo parecchie cose da mettere a disposizione, anche
perché vari attrezzi e accessori li avevo conservati; si trattava solo di
farli riemergere dai fondi dell'armadio, o da qualche ripostiglio della
casa.
Curiosando a ritroso,
fino ad arrivare agli anni ‘70
Iniziai la mia ricerca e per primi sbucarono i vecchi scarponi di pelle
nera, comprati nel 1971 ad Agordo alla vigilia di un'escursione in Val
Civetta presso un negozio che ora non esiste nemmeno più. Dal fondo
dell’armadio rivide la luce l'imbragatura Cassin, originale solo nel
cinturone, perché cosciali e bretelle si erano consunti dopo anni di
attività e tante corde doppie alla Piaz prima e poi alla Comici; erano stati
sostituiti con fettucce da tapparella, rosse come il cinturone.
Emerse anche
uno spezzone di dieci metri, rimanenza gloriosa della mia prima corda da
arrampicata da 11 millimetri di diametro, dopo avere trattenuto un volo di
venti metri di un occasionale compagno di arrampicata, sfregando contro uno
spuntone di roccia in cui si era fortunosamente impigliata, consentendo così
di salvargli la vita e, probabilmente, anche il mio futuro di alpinista. Non
ci fu verso, invece, di trovare il mio primo casco, un Boeri del 1974, di
colore rosso, la cui caratteristica principale era la pesantezza.
Però mi sovvenne di una borsa di materiale fattami avere da uno dei miei
primissimi compagni di cordata che, superata la soglia dei settant’anni,
colpito da malattia, pensò che a quel materiale sarei forse riuscito a dare
una qualche utilità. Dentro c’era un casco Cassin, di colore bianco nastrato
di giallo, una mazzetta da alpinista con manico di legno, e vari moschettoni
e cordini sicuramente databili primi anni '70.
Completai la dotazione con
due cunei di legno, oltre a vecchi chiodi da roccia. Impossibile, invece,
trovare l’abbigliamento “originale”, così rimediai con i pantaloni rossi di
una tuta da ginnastica anni '80 e una camiciona di flanella di anni più
recenti, ma assai simile nello stile alle mie prime camicie da arrampicata.
Alle soglie degli anni
’80 era cominciata la “rivoluzione”
Inevitabile ritornassero alla mente i ricordi legati a quei vestiti e alle
attrezzature, con la differenza che, a distanza di tempo, ci si rende conto
che non solo gli abiti e le attrezzature erano mutate, ma soprattutto la
mentalità stessa dell’alpinismo e dell’arrampicata.
Nelle mie ricerche storiche, avevo trovato un articolo illuminante al
riguardo, riferito al luogo che frequentavo più spesso, cioè Rocca
Pendice ai Colli Euganei, quella che allora era una delle “palestre” di
arrampicata di riferimento per l’alpinismo veneto e, in buona parte, anche
per quello emiliano-romagnolo.
Lorenzo Trento, alpinista e fotografo padovano, nell’emblematico “L’età di
mezzo di Rocca Pendice” con fotografie degli anni ’70 e un testo didascalico
raccontava proprio gli anni in cui “…il periodo di più di un decennio che
si colloca più o meno tra le ultime significative realizzazioni in
artificiale del 1968-70 e l’apertura della Checco e Granchio nel 1981, fu in
effetti un momento di calma apparente più che una stasi per il mondo
dell’arrampicata a Rocca Pendice … che portò... alla rinascita che si
avrà col rivoluzionario avvento dell’arrampicata sportiva, di spit,
scarpette e magnesio, negli anni ’80.”
L’anello di congiunzione tra quella “rivoluzione” e la mia esperienza
personale lo trovai là dove Marco Simionato (uno degli arrampicatori
padovani allora all’avanguardia) raccontava: “Poi per caso incontro
Franco Perlotto, che come me ogni tanto va in Pendice infrasettimana con la
corriera, solo. Reduce da Yosemite mi folgora con i tranquilli racconti di
salite che per me sconfinano nella mitologia ma soprattutto con il foot hook
sullo strapiombino alle Numerate. Slegato. Chiaro che gli vado subito
dietro. Si apriva un mondo intero di nuove possibilità e movimenti prima
mai neanche immaginati …”.
Il foot hook, ovvero “uncino di piede”, sullo strapiombino alle
Numerate, lo avevamo visto fare, probabilmente proprio a Simionato, e lo
avevamo provato e ci era pure riuscito bene, nonostante gli scarponi con la
suola Vibram e le braghe alla zuava, ma cosa fosse e da dove traesse
origine… chi se lo poteva immaginare? Così, per istintiva emulazione, io e
il mio compagno di cordata di allora, avevamo applicato una tecnica moderna
di arrampicata proveniente addirittura da Yosemite, senza neanche sapere
dove e cosa fosse, noi stessi comparse marginali di quel cambiamento in
corso di cui non avevamo la ben che minima consapevolezza.
Talmente inconsapevoli che quando ci presentammo per la prima volta alla
Pietra di Bismantova, nell’ottobre del 1979, eravamo vestiti come se fossimo
sbarcati lì direttamente dal Passo Pordoi: salimmo la facile Pincelli–Brianti
(3° grado), con gli scarponi, però facendo una variante d’attacco di A1,
ovviamente con le staffe.
Nelle nostre frequentazioni dell’anno successivo
ci capitò di conoscere un tipo particolare, si chiamava Emilio Levati,
ragazzo brillante ed estroverso, capelli lunghi alla paggetto, vestito
sempre molto casual, con una tecnica d’arrampicata da fare invidia.
Lui
vestiva “moderno”, con abbigliamento da climber e, naturalmente, aveva le
scarpette, al mio contrario che avevo scarponcini scamosciati e vestivo da
alpinista classico anche in “palestra”. Chissà se fu per quello che nacque
un’istintiva simpatia, al punto che arrivò l’occasione di un’arrampicata
insieme.
L’anno era il 1981 e lui mi propose la via Nino Marchi. Lo vidi arrampicare
nel grande diedro, in ampia spaccata e, più sopra, lo vidi salire in A0
usando due moschettoni uno nell’altro agganciati al chiodo, appigliandovisi
con le mani come fossero due maniglie e salendo quasi con un balzo, aprendo
successivamente le gambe in spaccata per riequilibrarsi e riposizionare i
moschettoni al chiodo successivo: una cosa che non avevo mai vista.
Inutile dire che salii classicamente con le mie staffe e i miei Colorado ai
piedi.
Ci facemmo scattare una foto dopo la scalata e quando la guardavo mi
divertiva per quel palese contrasto nell’abbigliamento, ma in seguito
cominciò ad insinuarsi l’idea che, dal mio punto di osservazione di
arrampicatore di pianura, era evidente il ritardo nei confronti di quella
“rivoluzione” della quale non ci eravamo ancora accorti.
A distanza di più
di trent’anni tutto ciò, ovviamente, appare più chiaro.
Forse anche per
quello, di fronte alle mie vecchie cose da arrampicata pronte per la mostra
storica, si affacciò una domanda, prima blandamente, poi con una curiosità
sempre più insistente: cosa succederebbe se, oggi, andassi ad arrampicare
con questo vestiario e queste attrezzature anni ‘70?
Si va ad arrampicare … negli anni ’70
C’era solo un modo per rispondere a quella domanda … andare a provare
sulle Dolomiti.
A fine agosto si realizzarono le condizioni per formare la cordata da
tre che mi serviva, con uno che facesse sicurezza a me e un altro, lesto con
la macchina fotografica, a documentare la scalata.
Scelsi una via facile, ma
varia, sul Trapezio del Piccolo Lagazuoi e m'imposi la rigorosa dotazione
anni ’70: scarponi di pelle, imbragatura e casco Cassin, fettucce e cordini
a tracolla, mazzetta con manico di legno, una scelta di vecchi chiodi e due
cunei, qualche dado metallico; unica concessione due friends che, a essere
sinceri, stonavano decisamente con il resto.
Era nata come uno scherzo a me
stesso quella scalata, ma si rivelò spunto per varie riflessioni, la prima
delle quali fu la constatazione di quanto poco materiale si potesse
attaccare all’imbragatura con quei quattro anellini di ferro striminziti.
Del resto allora non c’erano rinvii rapidi e si portavano i cordini a
tracolla.
Molta parte della sicurezza stava, in quegli anni, dentro la testa
dell’alpinista piuttosto che attaccata alla sua cintura di arrampicata.
La seconda riflessione venne dall’impaccio trasmesso dall’imbragatura (però
anche per colpa di cinque o sei chili in più del capocordata) e dal “volume”
rigido degli scarponi, tanto che adottare la tecnica di schiena-piedi fu
molto spontaneo e naturale, piuttosto che voluto.
Alla prima sosta non mi ero fatto mancare nemmeno il recupero contemporaneo
dei secondi di cordata con i due nodi mezzo barcaiolo e il classico
moschettone trapezioidale interposto tra le due ghiere per evitare attriti
tra le corde, riscoprendo manualità evidentemente mai dimenticate.
Più sopra
avevo predisposto una sosta utilizzando la corda di cordata avvolta attorno
ad un grosso spuntone e, prima della cengia di uscita, avevo pure riprovato
l’emozione di infiggere un vecchio chiodo, anche se senza troppa
convinzione. Centocinquanta metri di arrampicata erano stati più che
sufficienti per rinfrescare i ricordi degli anni ’70, con la piacevole
sensazione di avere non solo appagato una curiosità, ma di avere raccolto
sensazioni “reali” che, più di tante parole e considerazioni teoriche, mi
avevano fatto ritornare allo spirito di quegli anni.
I cambiamenti,
impercettibili nella quotidianità della vita vissuta, erano diventati
concreti con quell’arrampicata e le sue implicazioni tecnico-psicologiche.
Rimaneva un’ultima sorpresa nella piacevolezza di scendere a balzi lungo il
ghiaione di discesa, cosa che con le moderne scarpette di avvicinamento è
meglio non provare.
Durante la “svestizione” ero contento dell’esperienza
fatta e, al contempo, sorridevo soddisfatto al pensiero che, il giorno
seguente, si sarebbe di nuovo andati ad arrampicare, questa volta con le
scarpette da arrampicata e in rigoroso “costume” degli anni 2000.
Gabriele Villa
Un’arrampicata negli anni ’70: andata e ritorno
Piccolo Lagazuoi (zona Trapezio), 31 agosto 2013
Nota della Redazione.
Le foto con didascalia sono tratte dal sito altitudini.it sul
quale il racconto è stato pubblicato nel settembre 2014.
La foto senza didascalia ritrae Emilio Levati e Gabriele
Villa alla Pietra di Bismantova nell'anno 1981.
Le foto che ritraggono l'autore del racconto in abbigliamento anni '70 sono
state scattate da Roberto Belletti.