Il fuocatore del Civetta

Ignazio Piussi - Storie e vite di altri tempi

di Emanuele Cassarà (da Gogna Blog)


Nel 1963 passò, d’inverno, lungo la via Solleder al Civetta (prima invernale) e riuscì a superare sette bivacchi sciogliendo la neve nel pentolino anche con il fuoco dei cunei di legno di assicurazione.
Appena sceso, Emanuele Cassarà lo intervistò per Tuttosport e ne nacque il famoso pezzo: Ignazio Piussi il fuocatore. Oggi (1998, NdR), a distanza di trentacinque anni, torna la penna del vecchio leone del giornalismo di montagna, per una nuova e avvincente intervista al Machiavelli dell’alpinismo. (Da Alp n. 159, luglio 1998)

Più di quarant’anni fa un giovane uomo, montanaro e povero, s’aggirava irrequieto tra quelle Alpi Giulie altissime e tetre, ruvide e ferrigne, che emergevano dalla notte dei boschi dell’alto Friuli.
Giovinetto, lo mandavano al pascolo. Lui scappava col fucile a inseguire i camosci. Poi appena crebbe, divenne taglialegna e lavorò anche nelle cave, da minatore. Divenne alto e possente. Alla leva lo mandarono nell’artiglieria da montagna. Era naturale. Lui intanto scopriva lo sport ufficiale, non come i più l’intendono, ma come l’intendeva lui: una fuga dai boschi per innalzarsi e scoprire che cosa c’era al di là dei suoi monti e se, in tal modo, fosse possibile conquistare un pezzo di mondo… Sci nordico, salto col trampolino a Tarvisio (allora famosa) e a Cortina; biathlon e bob, frenatore, figuriamoci: alla partenza, se fosse dipeso da lui e dalla sua spinta, il bob era già in testa… Conobbe i pochi alpinisti d’allora. Si impossessò di informazioni… Le pareti? Le conosceva da cacciatore ardito, ma scoprì che ci si poteva anche giocare. Allora si mise a giocare. E s’avventò sul Mangart, sulla Véunza e s’imbarcò da solo sulla Deye, di VI.
Per allenarsi, che allora voleva dire sgranchirsi quel tanto, aveva ripetuto la Comici al Riofreddo. Ma saltando dal trampolino di Cortina nel ’54 si lussò una spalla. Quel braccio, da allora, non si sarebbe più sollevato a dovere. Gli piaceva partire e poi ritornare nella sua Val Raccolana. Partire era importante: aveva bisogno di aria per respirare. Si fece zingaro delle pareti, il libro della sua vita (appena uscito) s’intitola Ladro di Montagne…
Gli parlarono della Scotoni, riserva protetta dei cortinesi. Allora disse: «Andiamo alla Scotoni». «Mai nessuno dopo gli Scoiattoli. Sei matto?» gli dissero. «È peggio del Capucin» (il Capucin, da Tarvisio, era la Mecca lontana).
«Ci andremo anche lì, dopo. Adesso vediamo questa Scotoni, se davvero è un babau».
Gli raccontavano di una piramide umana obbligatoria, sulle staffe, di Lacedelli, Ghedina e Lorenzi.
Ignazio visse sulla Scotoni un’avventura speciale. Bivaccò una sola notte, da solo, poi tirò a sé il compagno per centoventi metri, come un sacco, passò con un chiodo e così liquidò la fantomatica piramide umana.
I cortinesi si chiusero in casa (gli avevano addirittura “limato” un passaggio, per impedirglielo).

Piussi divenne un pistolero del West. Entrava nel saloon e chiedeva chi era il più veloce…
Accadde così anche sulla Torre Trieste, esordio in Civetta, via nuova al primo colpo. S’aiutò con molti chiodi, è vero, anche a pressione. Ma allora, sulle grandi pareti valeva una sola legge: passare! Chi passava aveva ragione. Gli ultimi bagliori della Grande Gara, degli “ultimi problemi”, direttissime e invernali. «Vai a vedere, se sei capace, cosa è giusto e cosa non lo è; l’etica: quale? Si martellava, certo – altro che polemiche sugli spit! – ma non tutti avevano saputo martellare come e dove si doveva su quei mille metri della Torre». Piussi all’improvviso esplode come una bomba sulla cerchia alpina.
Prende confidenza con le Dolomiti e intanto lavora, dovrà pur mangiare! Ma è attento, segue, s’informa.
Nel ’61 apprende della tragedia del Pilone del Frêney, salvi soltanto Bonatti, Gallieni e Mazeaud.
Lui aveva già programmato, prima di quel fatto, la gita a Chamonix per controllare da vicino quelle bianche montagne di laggiù. Piussi sul Pilone ci provò pochi giorni dopo Bonatti, con Pierre Julien e gli andò male. Ma il progetto rimase e si realizzò con Rene Desmaison, Pierre Julien e Yves Pellet-Villard (poi incontrarono, là in alto, la cordata di Chris Bonington).
Piussi venne avvertito che tutto era pronto.
Desmaison lo attendeva al Colle del Gigante, aveva poche ore per raggiungere Courmayeur da Tarvisio.
Ebbene, perché vi facciate un’idea dei tempi: a Tarvisio la gente si tassò per pagargli auto e autista per arrivare in tempo.
Come sarebbe potuto accadere per un Alberto Tomba: vai, vinci!

Vennero gli altri itinerari diretti in Civetta, la Punta Tissi e la Su Alto.
Ma quel conto si era già chiuso nel 1963 col capolavoro sulla Nordovest, via Solleder, d’inverno, compagni Toni Hiebeler e Giorgio Redaelli. Otto giorni. Ignazio d’un tratto precipitò, una cosa seria.
Ma dovette rincuorare Hiebeler terrorizzato. Quando lo intervistai, più di trent’anni fa, mi raccontò come riuscì a sciogliere la neve nel pentolino bruciando i cunei di legno utili alla salita. Col coltello, con metodo e pazienza.
Vinse così, perse un chilo di peso al giorno.
Titolai l’intervista: “Ignazio Piussi il fuocatore”.

A guardarlo, oggi come allora, la sua faccia appare dura, ostile, crudele. E invece si sa commuovere e gli occhi gli si inumidiscono. Leggetevi il suo palmarés, non c’è tutto, soltanto una arida sintesi della sua vita.
Piussi vi racconta senza bisogno di misurare le parole, non fa giri con le parole.
Ma capite che ama la sua terra, il prossimo, e tuttavia rimane libero, irrequieto, solitario, incapace di esprimere l’affetto delle apparenze, ma bisognoso anche lui dell’affetto del mondo.
E lo capite quando vi parla degli alberi, del suo bosco senza segreti, degli animali, dei fiori, del suo piccolo cane, Moretto, e vi parla degli alpinisti che stima di più: Cassin, Maestri, Messner.
Con quelle mani enormi posate sul tavolo, strumenti terribili del suo grande alpinismo.

Il tuo alpinismo, sei in credito o hai avuto il tuo?
«Tutto ciò che meritavo, forse di più».

Cosa hai chiesto all’alpinismo?
«Di vincere, di arrivare primo».

La stampa, anche quella alpinistica -specie torinese, che contava e conta – ti ha trascurato; ti dobbiamo qualcosa?
«Forse sì. Il primo giornalista importante che ha scritto di me, nel ’61, è stato Rolly Marchi, dopo il Pilone Centrale al Bianco. Però scrisse: Piussi ha pugnalato Bonatti alle spalle. Non era proprio vero. Volevo il Pilone, questo sì, era lì da fare. E ai miei tempi, come a quelli di Cassin, chi arrivava faceva. La pugnalata me l’ha data Marchi. Ma è finita lì. Nessun rancore».

L’alpinismo friulano: è vivo? I giovani ti ricordano?
«Sì. Sono sempre un punto di riferimento. Ci sono oggi più giovani che fanno buon alpinismo o che semplicemente arrampicano ad alto livello. Tra Tarvisio, Udine e Trieste ai miei tempi eravamo una ventina».

Questo mondo veloce: noi che apparteniamo a una vecchia generazione abbiamo ancora qualcosa da dire ai giovani o siamo inutili, fuori…
«C’è qualcuno che ascolta. Dobbiamo essere pazienti anche noi, umili, senza arroganza per cogliere i momenti giusti. Anche i giovani sono stressati, per inseguire il loro tempo rapido. Dobbiamo cercare, quand’è possibile, nelle pause, di farci sentire, dirgli ciò che dobbiamo, ricordargli».

Il destino di Vinatzer: un po’ vi assomigliate. Ti sei mai rapportato a lui?
«Era davvero un modesto. Si è chiuso in Val Gardena, si è bloccato. Chissà perché. Io non mi sono mai dato per vinto, sono uscito dalla mia terra, ho lottato sino all’ultimo per toccare i “tetti” di allora. Ma negli anni trenta in libera Vinatzer è stato il numero uno».

A Cassin è andata meglio, non si è bloccato…
«Ah, Cassin, una macchina fredda che nessuno fermava. Con un grande cuore, onesto, generoso, capace di commuoversi ma nessuno se ne accorge; una corazza di titanio per nascondere le sue emozioni.
Bisogna considerare la sua infanzia, dura, da orfano, la sua enorme capacità di sofferenza, e dunque di tenacia. Veniva da lontano, e poi officina, sport -era un buon pugile - e alpinismo. Ha sempre vinto».

Tu come Cassin, non avete mai alimentato i cantori dell’Alpe. Cassin è stato onorato dopo, un po’ tardi.

«Si andava al sodo. Si faceva ciò che si valutava di essere in grado di fare e possibilmente prima degli altri».

Pierre Julien guida francese insegnante a Chamonix, e non soltanto lui – Desmaison, Sorgato, Soravito, profeta delle competizioni - ha sostenuto che eri il più forte del mondo. Una bella accusa…
«Lui dalla vetta del Bianco giù al Colle di Peutérey scendeva faccia a valle! Mi aveva visto nel primo tentativo al Pilone; nel secondo – un mese dopo la famosa tragedia con Bonatti – con lui c’era Desmaison, e c’era Pollet-Villard. Sono sempre stato davanti. Quell’anno ero in stato di grazia: granito, calcare, ghiaccio, misto, fessure, andavo dappertutto ad alta velocità. Avevo un’ottima resistenza e anche forza. Così Julien s’impressionò e anche Desmaison. Con Soravito abbiamo anche arrampicato, mi vuole bene».

Bonington dice che vi annusavate come i cani per stabilire le gerarchie…
«In Civetta, pioveva, eravamo in tanti al Vazzolèr. C’era Philipp, c’era Don Whillans, c’erano Barbier e i tedeschi, i francesi, gente pronta alle vie dure.
Si arrampicava sui sassi di fronte, per gioco, passatempo e allenamento, ma erano gare vere e dure, anche se si rideva e scherzava; mi era capitato lo stesso con altri nella palestra di Courmayeur, dove ero militare alpino. Lì si vedeva, insomma.
Mai successo che un passaggio di altri io non lo superassi, anzi. Facevo bella figura, veloce, e mi stupiva la gente di nome che andava lenta, ma lenta.
Poi correvo in discesa dal terzo grado senza usare le mani.
Ma non farmi vantare, sono ricordi, magari non ricordo bene».

Tu non eri di casa al Bianco. Come hai potuto scendere dai Rochers Grüber al primo tentativo al Pilone del Frêney? Non c’eri mai stato.
«Ed era di notte. È l’intuito, l’esperienza della caccia in alto e d’inverno.
Chi nasce in montagna può.
Nella traversata del Frêney per il Colle dell’Innominata sono andato dentro un buco, un brutto affare, Julien era preoccupato. Scendere per me non è mai stato un problema; mai studiato i dintorni.
E per le salite, andavo d’istinto, per la linea estetica diretta».

Il tuo rischio più grande?
«Proprio sul Pilone nel ’61. Nel primo tentativo scivolo e m’infilo nel canalino, un imbuto di ghiaccio.
Fortuna? Ci vuole, ma io ho allargato le braccia, le mani come ramponi e mi sono arrestato, incastrato lì nel budello. Bloccato, sotto, il vuoto, sopra un rilievo di ghiaccio. Poi è andata. Mai sfidato il rischio, però non tremavo».

Il tuo primo alpinismo, con metodi e mezzi antichissimi, una specie di Whymper delle Giulie: scarpe, giacca, chiodacci, corde esauste di canapa, pane e formaggio. Come potevi?
«M’arrangiavo, mi regalavano qualcosa, i chiodi fatti in casa, moschettoni più tardi e per imparare guardavo gli altri. Berto Perissutti la domenica prima mi ha dato qualche lezione per le doppie, le manovre di corda.
La domenica dopo, via sulla Deye-Peters, la più difficile da queste partì. Avevo due chiodi vecchi che continuamente raddrizzavo, sempre quelli. Ma in libera indovinavo i passaggi».

Ti accusavano di troppi chiodi. E la libera?
«Per libera intendo senza chiodi e senza corda e io andavo così, i primi anni. Poi ho messo tutti i chiodi che ci volevano per non morire subito.
A pressione li ho usati alla Torre Trieste e alla Su Alto.
Ma era obbligo sulle vie che erano da fare, con le scarpe che avevamo.
Ma nell’artificiale difficile, per bucare a mano (il chiodino dentro due centimetri) ci voleva molta forza, molta maestria, mica roba per tutti.
Sono salito anche da solo, ma senza compagno per me non ha senso».

Sei mai partito coi vivi e tornato coi morti?
«Mai, nemmeno coi feriti. Fortuna e molta soddisfazione».

Dove eri meno a tuo agio?
«Sopra i 6000, in Himalaya. Non rendevo, non mi piacevo: la troppa assenza di vita mi demotivava».

Cassin dice che il “Sesto Grado” era questione di braccia.
«E di mani, ci vogliono corte e tozze, coi muscoli giusti».

Avevi dei modelli?
«Punti di riferimento, all’inizio. Comici, Cassin, Carlesso, ma non per imitarli o copiarli. Andavo per conto mio, decidevo io dove e come. Ho voluto dire la mia».

l migliori del tuo tempo?
«Desmaison, Bonatti – che aveva una sua maniera – e poi Maestri che in arrampicata è stato il primo ad avvicinare il piede alla mano, come le scimmie: che spettacolo!».

L’ambiente era poco amichevole, non gradivano i tuoi piedi nei loro orti. Gli scoiattoli di Cortina spaccarono un passaggio sulla Scotoni per non fartela ripetere…
«C’era ostilità, un po’ di gelosia, si capisce. Ma ne ho profanati tanti di orti, quello di Bonatti, quello dei cortinesi, quelli in Civetta, e, prima, dalle mie parti; ma poi sono diventati orti miei, con gran piacere».

Il “Sesto Grado”, come lo valutavi?
«Un limite tecnico e psicologico per i più forti. Nel cervello si accendeva la lampadina rossa. Rischio!
Dovevi decidere. Per qualcuno la lampadina s’accendeva prima e per altri dopo.
Oppure si accendeva tardi, e morivano. Chi sbagliava moriva. Quanti!».

Messner, un tuo giudizio.
«Il più grande. Ha cultura, studia, conosce i problemi, è capace di gestirsi.
Quando da solo ha fatto la Nord delle Droites nel Bianco, dall’Argentière sono saliti i maestri di Chamonix, per guardarlo salire.
Aspettavano di raccoglierne i pezzi. Ne parlavamo con Mazeaud.
Messner gli ha fatto la via davanti alla faccia in poche ore, li ha annientati…».

Il telefonino nel sacco: è sempre avventura?
«Un po’ modificata, adattata. No. Io ce l’ho perché mio figlio, così, mi trova nei boschi, dove vado a camminare».

La montagna, la salviamo?
«Si salvano i prati, invece i prati vengono mangiati dalla boscaglia. Si salverebbe con le bestie.
Io vorrei tenere tre o quattro capre, ma ci vuole la registrazione e la partita Iva.
I montanari sono scappati e la montagna si è intristita, è rimasta sola e povera».

Tu e il lavoro.
«Si lavora per campare, era meglio l’alpinismo, più divertente».

Tu e i soldi, in che rapporto sei?
«Problemi sempre, e di alpinismo non ho mai provato a vivere. Mi sarebbe piaciuto un rifugio da gestire».

Tu e la fame, l’hai conosciuta?
«Tanta, sempre in guerra».

Bonington sul Pilone te l’ha fatta grossa, si è preso i tuoi chiodi ed è sparito senza aspettarvi. Ma anche tu l’avresti fregato volentieri…
«Beh, volevo arrivare prima di lui, avevo trovato la fessura buona per passare attorno agli inglesi e superarli.
Ma Desmaison mi ha raccomandato prudenza…».

Bonatti ti aveva accusato di avere i chiodi a pressione.
«Ma li tenevo sempre nel sacco! Per scappare se c’era da scappare.
Quel Pilone l’avevano descritto come il diavolo, però poi non mi ha spaventato e non c’è stato bisogno dei chiodi a pressione. Certo, Bonatti aveva trovato la bufera».

Tu e la Civetta. Perché ti ha richiamato?
«Perché è bella, maestosa, una grande storia, più di mille metri di muraglia, la “Parete delle Pareti”, la solitudine selvaggia. Rudatis aveva scritto che, al centro, si sarebbe passati soltanto col ferro. Eccomi qua, ho detto, ci andrò col ferro e sono salito sulla Torre Trieste. Ci avevano provato Aste e Livanos».

La Civetta d’inverno e il Pilone Centrale. Quale dei due ti ha impegnato di più?
«La Civetta, 2-0 sul Pilone. La mia invernale non è stata mai più ripetuta e ci hanno provato, anche giapponesi e polacchi. Anche la Trieste e la Su Alto d’estate sono molto più del Pilone, per i passaggi. Il pilone poi è solo 500 metri. Certo, oltre i 4000 e c’è sempre il ghiaccio».

In Civetta come ci andavi?
«Avevo una moto; un Galletto Guzzi. Quante corse! Ma ne valeva la pena, ci arrivavi sotto ed eri un microbo, mica le Torri del Vajolet, là l’isolamento era totale, la Civetta era un grande teatro, come la Scala di Milano.
Chi vinceva lassù diventava padrone del mondo».

Emanuele Cassarà  (1929 – 2005), alpinista, giornalista e scrittore italiano.
Il fuocatore del Civetta
Tratto da Gogna Blog 12 Aprile 2021


Ignazio Piussi è nato a Pezzeit (Chiusaforte – Udine) il 22 aprile 1935. Dopo tanto errare, è ritornato nella sua antica casa di Piani Là, rimessa a nuovo. Autodidatta, parla benissimo tedesco, discretamente inglese e francese. Peso 86-92 chilogrammi, altezza 182 centimetri.

1950 - prime arrampicate;
1951 - muore il padre Giuseppe;
1952 - primo VI sullo spigolo Deye-Peters alla Torre Madre dei Camosci, con Umberto Perissutti;
1947-1970 - cacciatore (bracconiere) «onestamente, per mangiare»;
1954-1955 - minatore a Cave di Predil (zinco e piombo);
1954 - atleta tesserato – salto in alto – a Cortina si lussa la spalla sinistra e quel braccio rimarrà menomato;

1954 - Piccolo Mangart di Coritenza, parete nord, via nuova con Arnaldo Perissutti e Lorenzo Bulfon;
1955- campione italiano di combinata (salto e fondo) juniores (pratica l’atletica leggera e poi il bob);
1955 - Véunza, parete nord, pilastro orientale, via nuova con Arnaldo e Umberto Perissutti;
1955 - Scotoni, prima ripetizione via degli Scoiattoli con Bulfon;
1956 - servizio militare, artiglieria da montagna;
1957 - protagonista di film didattici per scuola di ghiaccio e roccia – Passo Sella e Colle del Gigante – (con la Scuola Alpina di Courmayeur);
1958-1960 - boscaiolo sulle pareti della Val Raccolana (exploit ancora da ripetere: taglio dei pini a corda doppia su pendio molto esposto…);
1958 - Torre delle Madri dei Camosci, via Deye-Peters, ripetizione in solitaria, in giornata;
1959 - Torre Trieste (Civetta), Direttissima sud, via nuova con Giorgio Redaelli, 4 bivacchi;
1960-1978 - lavora all’Enel di Pieve di Cadore. Poi fa l’imprenditore senza molta fortuna;
1961 - Monte Bianco, Pilone Centrale del Frêney con René Desmaìson, Yves Pollet-Villard e Pierre Julien, in competizione con la cordata di Chris Bonington, Don Whillans, Jan Clough e Jan Duglosz. Due giorni. Circa un mese dopo il tragico tentativo di Bonatti-Mazeaud e gli altri;
1963 - Civetta, parete Nord-ovest, via Solleder, prima invernale, otto giorni con Redaelli e Toni Hiebeler, mai più ripetuta, persi 8 kg (la seconda invernale, e da solo, la fece poi Marco Anghileri nel 2000, NdR);
1963-1964 - Eiger, parete nord, tredici tentativi con tempo sempre ostile – ritirata in doppia dal vertice del secondo nevaio, impresa eccezionale – con Roberto Sorgato;
1965 - si sposa con Elfrida;
1965 - Punta Tissi (Civetta), parete nord-ovest, via del Miracolo, prima ascensione con Pierre Mazeaud e Sorgato, 4 bivacchi;
1966 - nasce il figlio Alessandro: stessa ora, stesso giorno e stesso mese in cui morì suo padre;
1967 - Su Alto (Civetta), Pilastro nord-ovest, prima ascensione con Alziro Molin, Aldo Anghileri, Ernesto Panzeri e Guerrino Cariboni, 3 bivacchi;
1968 - Antartide, spedizione esplorativo-scientifica guidata da Carlo Mauri, Ignazio sale tre cime (due in solitaria) con pareti glaciali di oltre mille metri. Perde 18 kg di peso corporeo (da 90 a 72!);
1969 - Nepal, spedizione al Churen Himal;
1973 - scalatore-protagonista nell’emozionante pellicola Abîmes di Gilbert Dassonville, premiato a Trento;
1973 - Antartide, seconda spedizione scientifica: scala il Monte Obelisk;
1975 - nasce la figlia Anna;
1975 - Nepal, spedizione Cassin al Lhotse;
1997 - con Nereo Zeper si racconta in Ladro di montagne (ed. Muzzio), un ottimo e umanissimo libro di 267 pagine (poi riedito da Nuovi Sentieri).
2008 - muore all’ospedale di Gemona, l’11 giugno (NdR).