Daniele, ho fatto un sogno

di Paolo Gorini


La mattina all’alba Videsott lancia il segnale della sveglia e si presenta a colazione con uno sguardo carbonaro: «Domenico – dice – stanotte ho fatto un sogno. Ho sognato molto chiaramente un grande camino, ma non ho ben capito dove si trova». Poi aggiunge: «Penso sia vicino allo spigolo della Busazza, ma non ricordo più».
«Bene – risponde Rudatis – questo è un buon segno. Allora andiamo a cercare il tuo camino».
«D’accordo. Andiamo». (da Alp #159, luglio 1998; di Enrico Camanni).

Tutti sogniamo, facendo sogni belli e sogni brutti, riproducendo in modo fantastico pezzi della nostra realtà vissuta o immaginando cose che ci piacerebbe accadessero come le vorremmo. A volte capita che in sogno si intuisca la soluzione di problemi e forse è anche per questo che è nato il detto per il quale “la notte porta consiglio”.
Quello di Renzo Videsott fu un “grande consiglio” perché contribuì in modo decisivo a dare inizio alla meravigliosa storia del sesto grado dolomitico in versione italiana della cui lettura tanti appassionati del mondo della montagna e dell’arrampicata si sono riempiti la fantasia nella speranza di esserne emuli meritevoli.
E più giovane sei quando leggi di certe cose e più facilmente arrivi ad immedesimarti, perché anche tu da qualche parte hai il tuo problema da risolvere e ne sogni, questo è certo.

All’epoca del fatto di cui mi accingo a raccontare, i vent’anni erano ancora roba da grandi ma i libri di montagna che riempivano le scansie della libreria di casa per “colpa” di mio padre già aspettavano che, esaurita la raccolta dei libri di Salgari, i miei occhi li scoprissero alla ricerca di qualcos’altro che proponesse nuove avventure altrettanto avvincenti. Nel tempo scoprirò che sarebbero state ancor più avvincenti perché, fatte le debite proporzioni, si riveleranno avventure alla portata, mentre quelle vissute dagli eroi di Salgari sarebbero rimaste irraggiungibili: come mai avrei potuto possedere un “praho” per solcare “un oceano”?
C’era un grande masso sopra Coi in Valle di Zoldo, che è stata la valle su e giù per la quale ho avuto la fortuna di spendere le spensierate estati della mia adolescenza. Quel masso aveva una fessura e quella fessura, io ancora non lo sapevo, sarebbe diventato “il mio spigolo Sud-Ovest della Busazza”, pardon, il nostro, sì mio e di Daniele. Ribadisco, non avevo ancora vent’anni ma con Daniele, di me più giovane di un anno, e per questo ancor più ignaro di cosa volesse dire avere vent’anni, vagheggiavamo già di salite e arrampicate della cui esistenza sapevamo grazie alla famosa libreria.
Tutto però finiva lì. Oddio non è che finisse proprio completamente, perché già avevamo cominciato ad armeggiare con corde, chiodi e cordini, ma sempre marcati stretti da chi in vero era il responsabile di quella intraprendenza e cioè mio padre, quello dei “libri dopo Salgari” nella libreria di casa. Avevamo già fatto alcune ascensioni e già mi ero cimentato da capocordata, ma non eravamo da soli! All’epoca infatti il buon pater familias era saldamente ed irrinunciabilmente legato con un buon “bulino” (mica il nodo a otto!...che si chiamava doppio nodo guida) all’altro capo della corda, a dispensar consigli e a richiamar di continuo alla prudenza.

Breve inciso: se ripenso alla nostra attrezzatura di allora, parlo degli anni ‘75 - ‘76 del 1900, posso serenamente affermare che, per quanto l’uomo fosse già stato sulla luna (e da allora sta pensando solo ora di ritornarci), il nostro andar per monti era forse più assimilabile a quello di coloro che sognarono prima di noi che non a quello odierno. Avevamo gli scarponi di cuoio ai piedi, i calzoni di velluto drammaticamente infradiciabili sotto l’eventuale acquazzone, il maglione di lana rosso fatto a ferri dalla mamma; dei “friend” nemmeno l’ombra (pare che oltre oceano ne facessero già uso, ma oltreoceano! Ribadisco: chi ce l’aveva il “praho”?) e dei nut ed eccentrici giungevano a Ferrara, non si sa per quali vie, notizie vaghe per cui ricavarne dei simili tagliando tubi di metallo sembrava cosa logica ma l’uso rimaneva teorico, così rimanevano a ciondolare e basta dalla cintura di chi se ne era autoprodotto alcuni. Diciamola tutta: non si fidava. Che bella età! Fantasia allo stato puro e passione che annientava avvicinamenti senza sosta, e scatolette di tonno nello zaino.
Orbene quel masso era una cosa per noi assai importante, costituiva il terreno di arrampicata che ci era concesso. Le scalate vere no, ma andare ad arrampicare sui sassi in assenza del nostro mentore si poteva, promesso alle rispettive madri che saremmo stati attenti. La ricerca di massi adatti a noi un giorno ci aveva portati, risalendo le pendici boscose del Pelmo, proprio alla base di una bella, almeno per noi, fessura che incideva il versante meridionale di quel masso. I massi in vero erano due, uno addossato all’altro a costituire quella che in gergo si sarebbe definita una via tracciata dalla natura, la famosa via elegante, come avevamo appreso dai ”libri di avventura”. E se era la natura che indicava la via, quella doveva essere percorsa. Si trattava di poco più di una decina di metri (per un masso niente male, comunque!) che per noi costituivano il problema.
Quando l’approcciammo avevamo già individuato il “crux” (oggi si dice così per indicare quello che allora per noi era “il passaggio chiave”). A circa quattro metri da terra la continuità della fessura era interrotta da un grosso sasso incastrato. In buona sostanza il sasso dava corpo ad uno strapiombo da superare, oltre il quale la progressione sarebbe stata possibile a mo' di salita in camino (seppure stretto). La situazione suscitava non poche perplessità, anche perché fino al sasso nessuna ruga sulla roccia si prestava ad accogliere alcun chiodo di protezione.
Ma la nostra salgariana determinazione non riteneva ciò particolarmente rilevante, era lo strapiombo la causa delle nostre preoccupazioni: ed infatti! Giunto sotto il sasso incastrato mi accorsi che non c’erano appigli sufficienti, sporgenti dalle rocce circostanti, per riuscire ad intuirne il superamento. Ciò che avevamo potuto constatare durante quel momento di defaillance arrampicatoria, che lì per lì non cogliemmo nella sua risolutiva importanza, era che la fessura era senza fondo e che il grosso sasso incastrato era completamente circondabile al punto che con una mano ne avevo toccato la faccia nascosta, quella rivolta verso la profondità dell’anfratto che cercavamo di salire. Ribadisco, quel particolare sul momento non si rilevò nella sua determinante importanza. Il nostro entusiasmo subì un forte ridimensionamento ma questo non fu tale da annichilire il nostro progetto. Concludemmo che non eravamo sufficientemente “forti”. Probabilmente si trattava di VI: quindi non è che il progetto non fosse degno di attenzione, eravamo noi a non esserne ancora all’altezza. Ah, il VI! Poi però se al momento non la arrampicammo quella benedetta fessura e quel benedetto sasso incastrato, ne cominciammo a parlare, instancabilmente.
Eravamo fatti così: sapevamo perdere ma ci chiedevamo come si sarebbe potuto vincere.
Nel toccare quel sasso, mi ero accorto anche di un altro fatto che aveva contribuito a rendere oltre che ragionevole anche prudente la nostra ritirata. Avevo visto che il sasso non era proprio incastrato del tutto, ma spinto verso l’alto si muoveva. Certo, mai avrebbe potuto sfilarsi verso il basso ma altrettanto mai si sarebbe potuto piantare un chiodo fra lui e la parete della fessura e quindi non sembrava proprio possibile passare, neppure in “artif”. Che parolona! "Dai Daniele, è ora di tornare a casa, andiamo giù a Mareson prima che le mamme si arrabbino, è tutto il giorno che siamo in giro. Certo però che quella fessura è proprio bella."

Sì era proprio bella e tutta da pensare, sempre, giorno e notte; poi però di notte bisogna dormire e allora si sogna. Certo, se aveva sognato Videsott potevamo sognare anche noi. Ora non ricordo se fu nel dormiveglia, quindi con un residuo barlume di ragionevolezza che governava i pensieri che si scioglievano nel sonno oppure veramente in sogno, fatto sta che ricordo bene con quale soddisfazione all’indomani dell’ennesima notte di cui la nostra fessura era stata l’indiscussa signora comunicai a Daniele che avevo avuto un’idea.
Senti un po' - gli dissi - ma se il sasso incastrato è libero su tutti i lati tranne quelli per cui resta incastrato, non è che noi lanciando un cordino da una parte riusciamo a recuperarlo dall’altra e poi lo chiudiamo ingabbiandolo?
Il gioco sembrava fatto. Anzi era fatto, ne ero certo. Non stavo nella pelle perché Daniele non aveva obiettato niente dando così di fatto il suo viatico ad almeno un tentativo.
Prendemmo il nostro materiale e ne riempimmo gli zaini e poi vi aggiungemmo il cordino da ferrata di mio padre (allora le ferrate si salivano con un anello di cordino in vita, sufficientemente lungo per creare due rami ai cui capi venivano passati due moschettoni, e basta! E basta! Quello stesso cordino poi si trasformava all’occorrenza in imbragatura per arrampicare: sic!) perché stimavamo che fosse sufficientemente lungo per dare concretezza alla mia intuizione….E fu proprio così. Risalimmo strada, mulattiera e sentiero attraverso il bosco sotto il Pelmo ad una velocità che in seguito mai saremo più capaci di replicare e con tre metri di lingua fuori ci riproponemmo alla base della nostra fessura. Era come se anche qualcun altro avesse avuto la nostra intuizione e che a frotte ci fossero climbers che di quella fessura avevano fatto la sfida esistenziale e proprio quella mattina tutti ne avessero intuito il modo per vincerla. Corri Daniele, che non ce la devono fregare! E poi c’era anche l’entusiasmo di verificare se stavamo per risolvere un problema di VI.

Che tempi meravigliosi, bastava così poco per riempire una giornata, sognare, divertirsi come non mai e pensare di emulare i personaggi di quelle che dopo le Tigri di Mompracem erano diventati gli eroi interpreti delle letture preferite. E fu proprio così. Dopo non so quanti tentativi, il lancio riuscì. Uno dei capi del cordino oltrepassò il dorso del sasso e risbucò ciondolandone dietro e al di sotto, lasciandosi prendere per essere legato al gemello che tenevo ben stretto fra le mie mani. Avevamo imbragato il sasso. Le prove di trazione diedero esito positivo e con una staffa fissata a quell’anello di cordino, quasi avessimo pronunciato un formula magica, oltrepassammo l’ostacolo.

Avevamo “ucciso il nostro drago”. Erano quelle le stagioni in cui l’evoluzione dell’arrampicata teorizzava una caccia decisamente diversa contro il Drago: erano gli anni in cui il VII stava diventando realtà su molte pareti delle Dolomiti e non. Il “Nuovo Mattino” di Gianpiero Motti, ”Sesto Grado” e l’”Assassinio dell’Impossibile” di Messner e le teorie che erano alla base delle salite di Cozzolino stavano dimostrando che l’evoluzione dell’arrampicata su roccia non poteva passare attraverso l’uso indiscriminato dei chiodi e del dritto per dritto costi quel che costi (Alessandro Gogna: “Dolomiti e Calcari di Nordest”, Vivalda Editore 2007): e al “Drago” qualcuno aveva dedicato anche una via (Claude Barbier, Via del Drago - Lagazuoi Nord in “93 arrampicate classiche in Dolomiti” di L. Dinoia, Melograno Edizioni 1984). Il nostro cordino assomigliava molto a tutto ciò, al giustiziere dell’impossibile, ma era comunque un solo passaggio. Sopra il sasso incastrato, fin sotto al quale di necessità eravamo arrivati in libera e per giunta senza neanche uno straccio di sicura, la nostra arrampicata riprese “by fair means” e si concluse in capo al grande masso in un misto di gioia e soddisfazione che ben poche altre volte ho riassaporato al termine di assai più famose salite.
Ma eravamo ragazzi e quello era ciò che ci era concesso arrampicando da soli: e forse quel passaggio non era stato neanche così poco! Ma quel giorno rappresentò il nostro non plus ultra, il nostro Spigolo Sud-Ovest della Busazza: anche noi avevamo sognato.

Paolo Gorini
Daniele, ho fatto un sogno
Val di Zoldo, anni '70