Viàz dei Cengioni alla Cima Nord di San Sebastiano
di Gabriele Villa
Sulla guida "Pelmo e Dolomiti di Zoldo", della collana Monti d'Italia,
viene identificato con il numero 304 bis, con difficoltà "Facile" e un
breve passaggio di II grado, dopo essere stato percorso il 3 ottobre
1965 da Pietro Sommavilla, Giovanni, Corrado e Michele Angelini,
Gabriele e Federico Arrigoni.
Così lo descrive la guida: "Il viàz dei Cengioni è un lungo percorso di traversata orizzontale
che utilizza una serie
continua di grandi cenge e terrazze detritiche del versante occidentale
del San Sebastiano, che taglia a metà altezza (2.100-2.150 metri circa)
sopra il basamento roccioso intersecato da canaloni.
E' un buon percorso senza difficoltà alpinistiche, predisposto dalla
natura del monte, che consente una escursione attraverso tutto il fianco
roccioso che guarda il Passo Duran e va dalle pendici oramai guadagnate
dalla vegetazione della Cima dei Gravinài alla cresta Sud-Ovest sopra il
Sasso di Càleda; aggirata la quale prosegue poi sul versante bellissimo
del Van di Càleda e termina nel vallone alto di questo al colletto di
quota 2.190 metri."
Non ricordo quale fosse stata la molla a spingermi a percorrere quel Viàz
nell'agosto del 1991, assieme a Luca Marchetti, un giovane amico
ferrarese; probabilmente l'intento fu di ricognizione tant'è che pochi
giorni dopo scalammo in cordata la via Angelini alla parete ovest del
San Sebastiano con alcuni promettenti ex allievi del corso di
alpinismo sezionale, Michele Ghelli, Simone d'Iapico, Riccardo Aleotti e
Davide Tonioli.
Del Viàz dei Cengioni mi era rimasto un vago ricordo, in pratica solo
qualche flash, uno in particolare su un tratto, probabilmente
l'attraversamento di un canalone, con rocce bagnate e il timore di
scivolare.
Alla luce delle esperienze fatte di recente, grazie all'accompagnamento
dell'amico zoldano Pompeo de Pellegrin, sul
viàz del Fonch agli Sforniòi
nel 2015 e sul
viàz de l'Ors al Sasso di Bosconero nel 2016, ho
ripensato a quella lontana esperienza e ho voluto ritornare quest'estate su
quell'aereo percorso, anche per poter fare un confronto con quelle due recenti
esperienze e capire un po' di più su questo tipo di percorsi.
Dei viàz avevo sentito parlare tanti anni fa, ma li conoscevo solo a
livello "teorico", mai ne avevo percorso uno.
L'esperienza del 1991 non aveva trovato corrispondenza con le
descrizioni che mi erano state fatte e nemmeno con quelle più recenti a
seguito della conoscenza personale con Franco Miotto, l'uomo dei viàz
per antonomasia.
Percorrendo i viàz del Fonch e dell'Ors, invece, non c'era stato bisogno
di parole di spiegazione e sia i tracciati seguiti che l'ambiente
attraversato erano stati più che sufficienti a toccare con mano (e
piedi) la realtà di quei percorsi di camosci scoperti e praticati dai
cacciatori e, in seguito, tramandati a figli e nipoti, non più per necessità di
caccia e di sostentamento, ma per praticare un escursionismo dal forte
sapore alpinistico e di avventura.
Così li descrive Marco Albino Ferrari nel suo coinvolgente libro "Il sentiero degli
eroi".
"I cosiddetti viàz sono percorsi che sfruttano cenge sottili, a volte
sottilissime, e corrono nel cuore della parete, la attraversano, la
ascendono e la ridiscendono rimanendo sul filo dell'abisso. I viàz sono
difficili e pericolosi come vere e proprie arrampicate. Può capitare che
uno di questi corridoi naturali vada a morire nel mezzo del nulla: una
volta giunti al termine dell'esile striscia orizzontale, diventa
obbligatorio girarsi e tornare lungo i propri passi per cercare vie
alternative. Altre volte l'azzardo è premiato, e la cengia si connette a
dei terrazzi uniti a passaggi poco prima invisibili, perché coperti da
una zona convessa della parete. Pochi escursionisti sono in grado di
percorrerli e pochi vogliono cimentarsi in questi percorsi labirintici,
pericolosi, dove sai quando entri e non puoi sapere quando uscirai."
Ecco! I viàz del Fonch e dell'Ors avevano trovato perfetta
corrispondenza in questa spiegazione, mentre nulla di simile ricordavo
per il viàz dei Cengioni al San Sebastiano e da qui la voglia di
ripeterlo per averne una conferma.
Si parte da Passo Duran scendendo brevemente sul versante zoldano fino all'imbocco del sentiero CAI n° 536.
Davanti alla segnaletica si possono già fare alcune considerazioni
preliminari e la prima sarà la presa d'atto che per raggiungere il
cengione orizzontale sul quale si dipana il viàz ci saranno da superare
500 metri di dislivello.
La seconda sarà notare che il nostro percorso non ha numero di catasto e
quindi non è un sentiero segnato a vernice e soprattutto nessuno ne ha
la responsabilità di messa in sicurezza e/o di manutenzione, quindi bisogna
essere ben consci di quello che si sta facendo, ovvero un percorso con
caratteristiche alpinistiche ed assumersene in toto ogni responsabilità.
Una volta lasciato il sentiero segnalato ci sarà da seguire la traccia
lasciata dal calpestio e gli eventuali ometti di sassi che indicano la
direzione di marcia, presumibilmente si troverà qualche segno di vernice
qua è là, nei tratti rocciosi, a dare una indicazione di massima.
La prima parte del percorso sul fianco della Cima dei Gravinài è prevalentemente in mezzo ai mughi, ma ogni tanto si troveranno dei piccoli risalti di roccia da superare con facile arrampicata. Sulle relazioni certi passaggi non vengono nemmeno citati per la scarsa difficoltà tecnica, ma è sottinteso che sapere arrampicare è consigliabile per avere un buon margine di sicurezza, oltre ad essere abituati a muoversi su terreno sassoso e spesso friabile.
Capita anche di incontrare brevi passaggi in roccia che non sono nemmeno citati in relazione, per questo è sempre meglio consultare relazioni su guide o libretti diversi, anche se avere portato nello zaino una corda di una trentina di metri con qualche cordino lungo e alcuni moschettoni risulterà particolarmente utile e anche gradito.
Ci vuole quasi un'oretta e mezza per raggiungere la cengia, ma il panorama ripaga della fatica fatta: la val di Zoldo è laggiù sul fondo, Pelmo e Antelao si stagliano in lontananza e si può dominare dall'alto il punto di partenza del Passo Duran e più oltre l'imponente massiccio della Moiazza.
Adesso ci si inoltra nel cuore della parete alternando tratti di sentiero
discreto a zone dove la traccia è meno evidente e discontinua, ma non
difficile da seguire, oltre che con scarsa esposizione e qualche rado
larice.
Ci si appresta all'attraversamento del canalone della Cima dei Gravinài,
avendo come riferimento quello che la relazione di Giovanni Angelini e
Pietro Sommavilla chiama "torre a baldacchino", mentre la relazione di
Paolo Bonetti e Paolo Lazzarin denomina "singolare struttura del Fungo".
Un tratto in discesa porta a quello che la relazione definisce "facile passaggio esposto" e, in effetti facile lo è, ma il vuoto lo intuisci perfettamente, senza vederlo in maniera diretta; solo a passaggio completato, quando guardi indietro ti accorgi su quale vuoto sei passato. L'amico Pompeo mi aveva segnalato la presenza di un fittone per poter fare sicura, ma non lo abbiamo visto e così la corda, in questa occasione, è rimasta dentro lo zaino.
La usiamo poco dopo, appena girato lo sperone, nell'attraversare il piccolo canale di Cima Nord, non per la difficoltà ma per la grande friabilità del tratto detritico, arrivando ad un promontorio con gran bella vista sulla valle agordina.
Ora ci attende il canalone di Cima Livia,
l'unico punto in cui le
relazioni concordano nel segnalare un fittone per l'assicurazione, che
poi si scopre sono due e sembrano quelli per agganciare la fune
metallica da ferrata.
La relazione della guida Monti d'Italia concede un bonario "una bella
cengia appena un po' esposta, conduce al fondo di questo canalone",
ma ci sarebbe da discutere su quel "appena un po' esposta" e direi,
soprattutto sul "bella cengia" che sostituirei caso mai con un "bella
paretina assai esposta, che più avanti diventa cengia".
E' vero che gli scopritori di questi itinerari di croda avevano
confidenza con il vuoto ed erano avvezzi a muoversi senza corda di
assicurazione, però su una "bella cengia" non ci dovrebbe essere
necessità di arrampicare.
Oltretutto la nostra corda non è lunga a sufficienza per poter completare la
traversata, per fortuna un provvidenziale spuntone e un dadino da
incastro che mi ero prudentemente portato consentono di fissare una
sosta sicura alla quale posso recuperare gli amici.
Poi riparto e arrivo alla cengia vera e propria e dopo una paziente
ricerca trovo il sistema di posizionare un altro punto di sosta, questa
volta con un friend, l'unico che avevo portato, ma per fortuna della
misura giusta.
Pare che questi fittoni siano stati posizionati ad opera di qualche
gestore di rifugio della zona per rendere meno pericoloso l'itinerario,
certamente sono meglio di niente, almeno dove l'esposizione è più
evidente e può turbare l'escursionista poco abituato a muoversi senza
assicurazione. Comunque, rimane valido quanto detto all'inizio: sui
percorsi non numerati si deve essere preparati a questo genere di
situazioni e sapersi arrangiare.
In fondo al canalone troviamo piccole bacinelle naturali nella roccia
piene di acqua fresca e una bella bagnata di faccia rinfresca le idee
dopo il superamento di questo tratto che si è rivelato assai
"riflessivo". Ora mi viene alla mente quell'unico ricordo flash che mi
era rimasto in mente e lo collego proprio a questo tratto di viàz.
La cengia che segue sembra quasi rilassante dopo questa doccia di
adrenalina e ripartiamo pimpanti.
Segue un tratto di "escursionismo pattinato", in discesa ripida su ghiaie e macereto, mentre poco più avanti la vista della sottostante bifida cima del Sass de Càleda annuncia l'oramai prossimo raggiungimento dell'ultimo costolone della montagna, risalito il quale sbucheremo sul Van de Càleda.
I Tàmer si offrono alla vista, imponenti sopra il Van; sono le tre del pomeriggio e in tutto il vallone non si vede anima viva, nonostante la magnifica giornata. Ora siamo sull'altro versante del San Sebastiano e la cengia prosegue in quota fino all'ultima difficoltà che ci attende, un "saltino roccioso di due metri in un ampio canale", secondo la guida dei Monti d'Italia, un "passaggio d'arrampicata non banale", secondo la guida Bonetti - Lazzarin.
Giunti a questo punto, dopo avere fatto sicura ai compagni con la corda e constatato che i due metri sono diventati otto e voi non avete più voglia di stare lì a pensare, potrete anche concedervi una breve ma piacevole discesa in corda doppia, poi riprendere la traccia tra i mughi in vista del colletto erboso di quota 2.190 metri.
C'è ancora da rimanere concentrati, sia sul tratto finale di sentiero che, soprattutto, sull'ultima paretina, di buona roccia, facile ma esposta, poi ci si potrà sdraiare sul prato e dichiarare concluso il viàz dei Cengioni, anche se rimarranno seicento metri di dislivello in discesa sul sentiero non troppo agevole del Van de Càleda per rientrare al Passo Duran e concludere definitivamente la giornata.
Arrivati al Passo Duran potrete gustare la vista della parete del San Sebastiano e proprio là, circa a metà parete, vedrete/intuirete il percorso del Viàz dei Cengioni e la soddisfazione per la giornata trascorsa lassù sarà completa.
L'escursione per me è stata l'occasione per la conferma di ciò che
avevo dedotto dall'esperienza diretta: il viàz dei Cengioni, viàz non si
dovrebbe chiamare. Non è, infatti, un percorso di camosci scoperto,
frequentato e tramandato dai cacciatori che inseguivano gli animali su
per le crode, antesignani degli alpinisti che sarebbero venuti in anni
successivi a scalare le montagne.
A dire il vero non ho fatto altro che scoprire ... l'acqua calda, perché
una più attenta rilettura della relazione sulla guida "Pelmo e Dolomiti
di Zoldo" di Giovanni Angelini e Pietro Sommavilla mi ha fatto vedere
che questa considerazione era già stata sottolineata: "Il nome è di
tipo montanaro, ma assegnato da alpinisti; non si hanno notizie sulla
conoscenza dei cengioni da parte di vecchi cacciatori, conoscenza che
parrebbe probabile per lo meno verso le due estremità (pendici di Cima
dei Gravinài e versante del Van de Càleda)".
Probabilmente queste poche righe di precisazione le avevo già lette
anche anni fa, ma senza capirne il significato, mentre le recenti
escursioni sui viàz "veri" me lo ha fatto comprendere prima di
ri-leggerle.
Una conferma che la frequentazione attenta delle montagne e dei loro
percorsi è anche un'attività culturale.
Gabriele Villa
Viàz dei Cengioni alla Cima Nord di San Sebastiano
Passo Duran, 2 agosto 2017 - Ferrara 20 settembre 2017