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Un sogno a forma di diedro

(Scalata del gran diedro Livanos–Gabriel alla Cima Su Alto, in Civetta)

di Gabriele Villa


I sogni non hanno scadenza, nemmeno quando vengono realizzati, anzi, le emozioni provate nel concretizzarli si rafforzano nel tempo, ne esaltano in noi le sensazioni sperimentate, aggiungendo a volte un pizzico di nostalgia al ricordo, tal altre rivestendo di una patina di epicità ciò che si è vissuto, aggiungendo sostanza alle emozioni che hanno inciso la corteccia cerebrale in maniera indelebile.
Gli alpinisti, forse più di altri, hanno la fortuna di coltivare sogni (che si chiamano “vie da ripetere”), di poterli realizzare e subito rinnovarli inventando altri sogni che possono essere fatti di tante sfumature: l’importanza storica di una via, la sua esteticità, la fama dei primi salitori e di famosi ripetitori, il fascino di una cima, la sua eleganza, le stesse difficoltà tecniche e/o di ambiente.
Ho avuto la fortuna di provarlo di persona, ho sperimentato e assaporato tutti gli ingredienti di questa miscela esaltante (una specie di T.N.T. psicologico), ne conservo dentro di me memoria indelebile e pure l’ho riconosciuta negli occhi e nelle parole di amici che hanno vissuto e realizzato sogni ancora più grandi dei miei.
Questo è il racconto di uno di quei sogni di cui ho gioito assieme a loro, all’inizio quando me lo comunicarono al telefono mentre erano ancora sul sentiero di rientro dopo la scalata, successivamente, dopo oltre un anno, in un colloquio di cui avevo conservato la voglia e che è arrivato senza fretta, con naturalezza e spontaneità, rinnovando il piacere dell’esperienza vissuta sia nel ricordo di chi la raccontava che in chi la ascoltava e ne scriveva.

 


 

Per cominciare, ecco le impressioni e considerazioni personali scritte “a caldo” in un post da me pubblicato su intraisassblog in data sabato 20 settembre 2008.

 


IL DIEDRO DEI DIEDRI

La telefonata mi aveva raggiunto mentre, seduto al computer, stavo scrivendo assorto:
Sono Chicco, sono con Paolo e stiamo scendendo per la Val Corpassa. Ti dico solo un nome Georges … ti dice niente?”.
Non riesco a fare subito mente locale e sento la voce che continua:
“S
u Alto …”.
Mi sfugge un “
Nooooo… avete fatto il diedro Livanos alla Su Alto? … siete proprio forti”.


Scrive Alessandro Gogna in “Dolomiti e calcari del Nordest” della CDA & Vivalda Editori.
[ Nei tre giorni di salita, 10, 11, 12 settembre 1951, Livanos e Gabriel piantarono 99 chiodi (più 26 di sosta). Siccome lo zoccolo non ne richiede l’uso, il numero deve essere ripartito su quattrocento metri: la media è quindi di circa un chiodo ogni tre metri, stesso livello quindi della Comici-Dimai alla Grande. Le due medie simili non ingannino: tra le due salite esiste un forte dislivello di difficoltà di chiodatura, colmabile soltanto dalla maggiore esperienza di diciotto anni di differenza storica.
Anche il materiale era diverso: già nel 1945 erano apparse le prime corde di nylon… Pierre Allain nel frattempo aveva costruito i primi moschettoni superleggeri (e questo nell’arrampicata artificiale volle dire molto); erano apparsi i primi cunei di legno (anche se Livanos nel gran diedro ne piantò uno solo con la scusa che dove entra un cuneo entra anche una mano…) e le prime staffe a gradini di metallo o di legno; i chiodi erano prodotti da alcune ditte. … Ciò che preme sottolineare in ultimo è il perfetto equilibrio che con questa salita si creò tra libera e artificiale. Dopo di essa vennero le esagerazioni. Come ben dice Motti, in quel tempo “il lavoro di chiodatura arriva a dei livelli veramente artistici, richiedendo grandissimo intuito nello scoprire i buchi nascosti e le fessure superficiali. Molti arrampicatori di questo periodo hanno veramente creato dei capolavori lungo le strapiombanti pareti dolomitiche; con i soli mezzi normali, senza mai forare la roccia, sono riusciti a passare dove moltissimi altri probabilmente avrebbero dovuto “bucare”. In questo senso l’arrampicata artificiale ha tutta una sua dimensione altamente creativa… ]

E Gino Buscaini in “Le Dolomiti Orientali” – Zanichelli – 1984
[ Oggi c’è una tendenza a sottostimare le vie con tratti in arrampicata artificiale. Direi che il diedro Livanos si presta a rivedere qualche giudizio un po’ superficiale di questo tipo; anzitutto perché la risoluzione dell’itinerario risulta logica e con bella dirittura, in secondo luogo perché l’impegno tecnico è molto elevato anche con l’impiego di chiodi e di cunei (intendiamoci: di chiodi normali e di cunei di legno – la via è del 1951) ]

Se c’era qualcosa del Civetta che si vedeva bene da Pecol di San Tomaso era la “Triade”.
Credo sia stato lo zio Mario a insegnarmi i nomi di quelle cime: a sinistra la De Gasperi, in mezzo la Su Alto, a destra la Terranova.
Quando ero più piccolo credevo fossero quelle le cime più alte del Civetta, poi crebbi un po’ e imparai cos’era la prospettiva, ma ciò non cambiò la mia considerazione per la Triade perché dalla visuale di Pecol, sembrava incombere, presenza “estetica” e dominante, sfondo alto e lontano delle mie estati adolescenziali.
Delle tre mi piaceva maggiormente la Su Alto, ma solamente per via del nome che mi aveva suggestionato, ancora ragazzino. Successivamente mi piacque anche esteticamente ed era proprio per quel suo cangiare di colore che ad ogni tramonto si rinnovava, soprattutto nelle sere di enrosadira.
Cosa fosse un “diedro” mica lo sapevo, ma avevo ben imparato che il cambiare di colori che sembrava dividere la cima Su Alto in due parti, dallo zoccolo fino alla vetta con una grande ininterrotta “sfessa”, era causato da quelle due pareti che si incontravano ad angolo e a sera riverberavano diversamente la luce solare verso il tramonto.
Sono passati gli anni e con la passione per l’alpinismo e la lettura dei tanti libri che lo raccontano, imparai molto più di quelle cime, delle vie difficili ed impressionanti che vi erano state tracciate sopra.

Sono contento che i miei amici Michele Scuccimarra (Chicco) e Paolo Gorini (il Doc) abbiano ripetuto tra le tante vie storiche, difficili ed “importanti”, proprio quella del diedro Livanos. Sono contento che a Ferrara ci siano alpinisti in grado di ripercorrere le vie dei “grandi” e, questa volta, ancora più di altre, mi sono sentito vicino a loro.
E la cosa che ho invidiato loro è stato proprio il tramonto goduto nella grotta del bivacco, guardando verso ponente, verso la montagna di San Tomaso, un specie di panorama “all’incontrario” di quello goduto da me nelle felici estati giovanili.


Credo che il post faccia ben comprendere quanto la notizia della scalata mi avesse colpito toccandomi fino nell’intimo, vuoi per la familiarità dei luoghi che per la conoscenza della montagna che ne era stata protagonista.
E siccome di “impresa” alpinistica si trattava eccomi rinverdire i miei trascorsi giornalistici e prendere carta e penna (si fa per dire… perché da quando ci sono i computer si deve parlare di video e tastiera) e scrivere un comunicato per i quotidiani cittadini e così la notizia dell’ascensione aveva trovato un meritato riscontro anche sulla stampa locale:

Ripetuta da una cordata ferrarese la scalata del Gran Diedro Livanos alla cima Su Alto nel gruppo del Monte Civetta.

Nei giorni scorsi una cordata ferrarese ha compiuto una notevole impresa alpinistica sulla parete nord-ovest del Monte Civetta, in Valle agordina, ripetendo la difficile e rinomata via del Gran Diedro della cima Su Alto.
Si tratta di Michele Scuccimarra e Paolo Gorini che nei giorni 29/30/31 agosto hanno ripetuto la via dei francesi Georges Livanos – Robert Gabriel, aperta in tre giorni di scalata nel lontano settembre del 1951 e considerata a tutt’oggi una delle “classiche” più difficili del gruppo.
Si tratta di un percorso lungo circa 800 metri, composto nella prima metà da uno “zoccolo” di terzo e quarto grado e nella seconda parte da un diedro regolare di roccia gialla e friabile in cui si concentrano le difficoltà che arrivano fino al sesto grado in arrampicata libera e al grado A2 in arrampicata artificiale.
I due ferraresi partiti da Ferrara ancora prima dell’alba il 29 agosto si sono portati in Val Civetta e qui hanno risalito i primi quattrocento metri dello zoccolo per andare a bivaccare in una grotta naturale situata proprio all’inizio del gran diedro, già bivacco dei primi salitori.
Trascorsa una notte abbastanza confortevole hanno ripreso a salire il 30 agosto arrampicando fino a sera ed issando con la corda il saccone contente tutto il materiale da bivacco, in modo da poter arrampicare più leggeri.
Una volta arrivati in vetta hanno subito iniziato la discesa raggiungendo, alla luce delle pile frontali, il bivacco fisso Cesare Tomè al Giazzèr (una struttura a semibotte con quattro cuccette) dove hanno trascorso la notte del 30 agosto per riprendere la discesa verso valle al mattino dopo e tornare all’auto e fare rientro a Ferrara.
Pur molto diversi nelle rispettive professioni, Michele Scuccimarra (che è orafo artigiano) e Paolo Gorini (che è medico chirurgo), condividono la grande passione per le scalate.
La loro cordata è certamente la più affiatata in ambito ferrarese e non è nuova a queste imprese avendo già salito sempre sulla parete nord – ovest del Civetta, vie come la storica Solleder – Lettembauer, (1250 metri con difficoltà fino al sesto grado inferiore) e la difficile Aste – Susatti (800 metri con difficoltà fino al sesto grado superiore).


Decantati i ricordi e le sensazioni, archiviata la scalata come prestazione alpinistica, rimaneva la voglia di quella chiacchierata per poter entrare nei dettagli “intimi”, cioè nelle sensazioni, emozioni, visioni, fatiche, timori, speranze, gioie vissute dai due protagonisti.
E da dove avrebbe potuto venire, finalmente, lo spunto per quella tante volte auspicata chiacchierata se non da un fortuito incontro sulle mura cittadine con Paolo il “Doc”, durante i rispettivi momenti di allenamento?
Quando ci vediamo per quella chiacchierata sul diedro Livanos?
Guardo i miei turni e ti telefono la serata libera, poi tu ti accordi con Chicco
Già, perchè era lui il perno della questione con i suoi turni in ospedale e le serate di reperibilità, ma quella sera il telefono aveva squillato dopo cena e … ecco fissato l’appuntamento: venerdì 9 ottobre 2009, alla palestra di arrampicata del Monodito.

Il venerdì sera la palestra è sempre poco frequentata, ma quella sera “fa gioco” perché garantirà tranquillità, anche se la mia “intervista” sarà comunque sui generis perché io ho il mio quadernone degli appunti e la penna (e scriverò), loro… imbragatura, scarpette e secchiello per la sicura (e arrampicheranno).
Me l’ero immaginata un po’ diversa questa chiacchierata ma, conoscendo i personaggi, non mi meraviglio più di tanto, per cui prendo una seggiola, mi sistemo vicino alla parete di arrampicata prescelta e comincio con la prima domanda.

 

Come vi è venuta l’idea della salita?
Chicco: perché è bella e ci sono retaggi storici.
Paolo: era un’idea che mi girava da tempo nella testa.
Chicco: leggi sui libri le storie dei salitori, senti l’enfasi, al contempo si crea anche curiosità.
Ma, nel concreto, come vi siete accordati nella scelta?
Chicco: è successo che ho telefonato a Paolo e gli ho detto:
Senti, avrei pensato al diedro Livanos alla Su Alto”.
Paolo: gli ho risposto “
Ho appena chiuso il libro sulla relazione della via”.
Chicco: puoi ben immaginare che a quel punto il 50% era già fatto: non potevano esserci altri obiettivi se non quello.
Paolo: così è successo, più o meno, anche per la via Solleder - Lettembauer al Civetta.

Scrivo con la testa china sul mio quadernone mentre sento le due voci che si rincorrono, senza mai sovrapporsi, in un discorso a “tiri alterni”, come in cordata affiatata, per dirmi che dalla telefonata intercorsa ai preparativi per la salita erano trascorse al massimo 72 ore.
La sera stessa della telefonata (il mercoledì) si erano trovati in palestra per cominciare a parlare della logistica e cominciare ad abbozzarla, decidendo già la partenza per il venerdì mattina con l’obiettivo di arrivare a bivaccare nella grotta alla base del diedro.

Pur se la decisione era stata fulminea, mi pare però che le idee le avevate chiare.
Chicco: volevamo vivere la scalata alla Armando Aste, per intenderci, cioè stare sulla montagna, goderla senza fretta, e quindi abbiamo scelto di conseguenza la strategia.
Paolo: per me era il primo bivacco progettato a tavolino, cioè voluto e organizzato.
Chicco: abbiamo fatto tutto in stile big wall, con il saccone da recupero al seguito.
Per arrivare alla grotta ci sono tre tiri impegnativi dopo lo zoccolo, con un traverso marcio di V+.
Con 20 chilogrammi sulla schiena puoi ben immaginare che “festa” sia stata per me.

Mentre parliamo i mie due amici infilano le imbragature, si legano e iniziano ad arrampicare.

 

Beh? … e l’intervista?
Chicco: ma guarda che ti sentiamo, eh? Intanto ci alleniamo.


Intanto Paolo continua a parlare con occhi trasognati, come se fosse ritornato in parete.
Paolo: il bivacco in parete fa la differenza: sei lì con la testa e solo lì. Non è che il giorno dopo ti svegli e non ti va di arrampicare …
Quando Livanos arrivò lì in fase di apertura della via trovò la grotta col fondo già spianato e con il muretto a secco già preparato.


Lo sapevano tutti gli alpinisti di quella grotta, ed era come l’abbiamo trovata noi.

 

 



A che ora siete arrivati alla grotta?

Chicco: siamo arrivati alle cinque e mezza del pomeriggio perché siamo saliti con comodo. Sapevamo fin dall’inizio che saremmo arrivati lì e solo lì.
Paolo: dal saccone è uscita anche la polenta coi funghi, ma a parte quello l’emozione grande è stato leggere i nomi dei “grandi” scolpiti sulle pareti della grotta a martellate.
Chicco: è la cosa che più ti rimane questa emozione. La via la perdi, le emozioni rimangono.
Paolo: … e tutto il variare dei colori mentre si è spenta la giornata e alla fine sono rimasti solo i profili scuri delle montagne intorno.
Chicco: e il rifugio Tissi ad un certo punto era al buio e noi ancora illuminati dal sole. Arrivare alla grotta con ancora quattro ore di luce ti permette di goderti il bivacco, tanto che l’idea di attrezzare due o tre tiri di corda l’abbiamo accantonata subito.
Paolo: poi ci sono state le telefonate a casa e agli amici. Uno di loro (Paolo Montanari NdR) non aveva capito subito che eravamo in parete e dentro la grotta e quando realizzò la cosa ne fu entusiasta.

Si senti la voce uscire dal cellulare, quasi a gridare: “Mitici!”.
Chicco: devo dire che per me il bivacco è stato un’emozione superiore a ogni aspettativa.

Oramai sono in piena parete i miei due amici, cavalcando l’onda del ricordo e allo stesso tempo sono in parete pure realmente, su quella artificiale di legno con le prese avvitate e si alternano a “tirare” sulle linee che guardano gli specchi, di fronte a me che, seduto, continuo a scrivere.

E con il dormire come l’avete messa? – chiedo immaginando le emozioni di quella notte.
Chicco: devo dire che io credo di essere odiato dai miei compagni di bivacco perché dopo due secondi che mi sono coricato, mi addormento e russo.
Paolo: io ho pensato a ciò che mi attendeva il giorno dopo, lui ha rispettato le sue abitudini.
Ho pensato a ciò che avevo sopra la testa, quattrocento metri di diedro di estrema difficoltà.

E la colazione al mattino successivo?
Chicco: abbondante e ottima.
Paolo: ricordo che alle sette e trenta ho detto, “
sarà mica il caso di muoversi?
Abbiamo preparato il the caldo, marmellate, biscotti, ma … tranquilli, senza fretta.
Chicco: a Nord Ovest non si può partire troppo presto, fa freddino, non conviene.

Sicché alle otto e quaranta tutto è pronto per la scalata e i due amici attaccano il diedro e arrampicano per tutto il giorno senza interruzione, ad ogni sosta recuperando il saccone con tutto il loro materiale da bivacco al seguito e alle venti e quaranta (cioè esattamente dodici ore dopo) sono sulla cima della Su Alto.
Dodici ore di scalata che Chicco riassume abbastanza sinteticamente.
Chicco: siamo andati abbastanza veloci fino al tetto, poi siamo andati verso destra dove abbiamo visto il bivacco dei primi salitori, da lì si va a sinistra fino ad imboccare i camini finali. Si tratta di strettoie e imbuti e poi c’è ancora un traverso in alto.

 

Quindi la bellezza della via non è nella buona qualità della roccia?
Paolo: l’arrampicata nel diedro è molto bella, oltre che sostenuta. Meno piacevole è la parte alta. Va detto che per avere la fama di via in artificiale c’è tanta, ma tanta arrampicata libera.

Oramai è calato il tramonto e i due amici iniziano la discesa versò il Giazzèr dove sanno di poter trovare riparo nel Bivacco fisso Cesare Tomè.

Paolo: mi ero documentato bene e siamo scesi nella direzione giusta, trovando anche qualche ometto di segnalazione. Il problema è stato la nebbia.
Devo dire che è stata utile una foto del libro di Visentini che ricordavo di avere visto sul libro delle vie normali al Civetta. Una foto scattata proprio al Bivacco Tomè che mi è stata molto utile per trovare l’orientamento. Poi Chicco è arrivato al bivacco.
Chicco: per merito tuo che mi hai orientato.

Sono oramai le ventitre quando i due arrivano a mettere piede nel bivacco.

Chicco: abbiamo trovato un minestrone scaduto nel 2005, lo ricordo esattamente.
Per prudenza lo abbiamo fatto bollire un po’ di più di quanto era prescritto e … com’era buono!
Anche se i piselli sembravano sassi di malachite.
Della nostra roba ci era rimasto del formaggio e l’occorrente per la colazione del mattino dopo.
C’era euforia nell’aria, dentro al bivacco, e siamo rimasti a lungo a parlare, a confrontarci.
Paolo: il bello è che le cose sono andate come le avevi pensate e anche quella era una soddisfazione.
Fondamentale però è stato il momento della telefonata tra di noi precedente al via e la contemporaneità con la quale entrambi ci avevamo pensato.

Il più era indubbiamente fatto, ma la discesa che vi rimaneva da fare l’indomani era ancora lunga, anche se non certo da perderci il sonno di un’altra notte.
Chicco: dal Tomè c’è ancora da brigare un po’ e bisogna farla con una buona visibilità, se no puoi rischiare di farti del male.
Paolo: ero al corrente che Livanos aveva tribolato in discesa, facendo svariate corde doppie senza sapere dove sarebbe arrivato.
Chicco: il bivacco Tomè è una perla incastonata tra le rocce. Poi c’è il libro delle arrampicate che è un collegamento tra tutti gli alpinisti che sono passati di lì. Mentre vai via ti giri in continuazione a fotografarlo e quando arrivi a casa e guardi le foto ti chiedi “
ma quante gliene ho fatte?”.

 

 


Intanto la serata sta volando via e i miei amici, esaurite le salite del “versante est” passano ad arrampicare sul lato del tetto, mentre io mi sdraio sui materassi sotto al boulder reclinabile.
Loro faticano e io rileggo gli appunti che ho scritto.
Sono pochissime le note tecniche circa l’arrampicata, si è parlato poco di gradi di difficoltà, ma tanto di sensazioni, di visioni, di emozioni.
Ho visto la luce dei loro occhi mentre le raccontavano con entusiasmo ben quattordici mesi dopo la salita, un entusiasmo che ho condiviso immedesimandomi nella loro avventura e rivivendola assieme a loro.

La chiacchierata si conclude con un’ultima riflessione di Chicco:
"
Credo ci sia una cosa che la dice lunga. Sommando le vie che io e Paolo abbiamo salito singolarmente nel gruppo del Civetta ne cumuliamo qualcosa come quarantacinque e questo mi pare spieghi bene perché ci intendiamo così bene. Il fatto è che la Civetta o la ami o la temi."

Si sente una punta d’orgoglio nella voce del mio amico, ma mi pare più che giustificato.

Concludo anch’io con una riflessione che ho fatto tra me e me:
Loro la Civetta la amano e la scalano, io invece l’amo anche senza scalarla perché è la montagna al cospetto della quale ho trascorso le mie felici estati di fanciullo e di ragazzo a Pecol di San Tomaso Agordino”.

 

 

Quindi non posso che ripetere quanto ho scritto nel post di intraisass:
[ E la cosa che ho invidiato loro è stato proprio il tramonto goduto nella grotta del bivacco, guardando verso ponente, verso la montagna di San Tomaso, un specie di panorama “all’incontrario” di quello goduto da me nelle felici estati giovanili. ]

Cioè la parete nord ovest della Civetta, e la “triade” (con le cime De Gasperi - Su Alto – Terranova) e al centro la Su Alto segnata nel mezzo da quel diedro che nelle sere di enrosadira sembrava incendiarsi per metà.


Gabriele Villa
Ferrara, mercoledì 13 gennaio 2010