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Una gita in montagna 

di Marco Pedretti

Quando entrammo nel rifugio la porta cigolò, tutti i presenti della sala smisero di mangiare e chi era di spalle si voltò a guardarci. Dopo averci rapidamente squadrato, tutto tornò normale ed il brusio e il rumore delle posate sui piatti riempì nuovamente la stanza. Il gestore del rifugio si avvicinò e con un gesto del capo mi indicò uno dei due tavoli presso la stufa a carbone. Tutto attorno alla stufa era un caos di scarponi e di calze ad asciugare. 
Fuori stava calando la notte e dalle piccole finestre entrava ormai pochissima luce, cosicché era difficile distinguere i presenti che comunque erano quasi tutti di giovane età.
Allineammo i nostri scarponi a quelli degli altri e appendemmo le calze ad un filo che correva dalla parete al tubo della stufa. Quasi tutti avevano terminato di mangiare quando entrarono altri due alpinisti, ma nessuno fece loro caso perché il rumore della conversazione aveva coperto il cigolio della porta. 
Una volta sistemati eravamo impazienti di mangiare e tramite un ragazzino ordinammo tre minestroni di verdura e uova al tegamino. Iniziammo a mangiare quasi al buio, prima ancora di avvertirlo il gestore se ne accorse e ordinò al ragazzino di accendere le lampade ad acetilene sopra i tavoli. Nella sala si erano formati dei gruppetti, alcuni attorno ad un tavolo giocavano a carte, alcuni a dama ed un gruppetto aveva cominciato a cantare. 
La cosa un po’ ci infastidiva.
Dopo un caffè abbastanza forte ci mettemmo a parlare del più e del meno, non considerando minimamente quelli che tentavano di coinvolgerci in qualche coro di montagna. Vanni prese il diario del rifugio, che aveva appena posato una ragazza, alla ricerca di qualche conoscente che ci aveva preceduto. Poi prese la penna e cominciò a scrivere i nostri dati, la nostra provenienza e la destinazione della nostra gita prevista per il giorno seguente. 
Il ragazzino tuttofare aveva finito di accendere le lampade e stava cominciando a rimettere in ordine i tavoli, mentre una luce tremula e biancastra si era diffusa per il locale. Passandomi accanto sbirciò sul diario la nostra destinazione e con una luce di orgoglio negli occhi ci disse che il rifugio dove eravamo diretti era gestito da suo padre. 
Poi mentre stava per compiere il gesto di prendermi il diario ritirò la mano e corse precipitosamente in cucina. 
Spostati i piatti in un angolo Piero stava per accendersi un sigaro che Vanni prontamente gli aveva passato. 
Eravamo già in procinto di andarcene a letto quando il gestore, che era il nonno del ragazzino, si avvicinò e quasi per cortesia o per prassi ci chiese se non ci fosse stata, per caso, qualche altra comitiva dietro di noi o se avessimo incontrato qualcuno nel venire da quel sentiero così poco frequentato. 
Ci guardammo in faccia e negammo con il capo. 
Il vecchio se ne stava andando quando Vanni si ricordò che effettivamente un incontro lo avevamo fatto, ma non erano alpinisti bensì alcuni militari del corpo degli alpini. 
Alle parole di Vanni il vecchio si bloccò e tornando sui suoi passi si sedette al tavolo con noi. 
La sala era ormai vuota e noi eravamo abbastanza stanchi e volevamo andare a dormire, ma il vecchio gestore con aria molto seria volle raccontarci di una leggenda che circolava in quelle zone. 
Parlava molto lentamente e cercava di tradurre in italiano alcune parole in dialetto per farsi comprendere meglio. "Come ben sapete in queste zone si è combattuto duramente durante la prima guerra mondiale e molti alpini italiani ed austriaci sono morti non solo in combattimento, ma anche per il freddo, travolti dalle slavine o precipitati dentro profondi crepacci. Ogni tanto il ghiacciaio restituisce il cadavere di qualche soldato, o di mulo, oppure si ritrovano ossa, ecc. Molti non si ritroveranno mai più, sepolti sotto montagne di detriti o dentro i crepacci più profondi.
Di tutti questi dispersi, alcuni appartengono ad una stessa compagnia scomparsa misteriosamente nel '17.

Con un cenno del capo ordinò al nipote qualcosa e questi corse via  tornando poco dopo con un pacco di giornali e riviste. Erano tutti giornali ormai ingialliti ed alcuni articoli erano sottolineati. 

"SEMBRANO SCOMPARSI NEL NULLA GLI ALPINI DELLA PATTUGLIA" 
"Forse catturati dal nemico durante una perlustrazione" 

Titolava così il primo articolo. 

"SMENTITO DAGLI AUSTRIACI QUALSIASI SCONTRO CON I NOSTRI ALPINI" 
"Si fa’ più fitto il mistero della pattuglia scomparsa. Forse vittima di una disgrazia a causa della nebbia che gravava sulla zona ." 

Poi gli articoli proseguivano: 

"A CINQUE MESI DALLA FINE DEL CONFLITTO NESSUNA TRACCIA DELLA PATTUGLIA SCOMPARSA. APERTA UN
A INCHIESTA." 

Seguivano alcuni articoli dove erano fotografati, uno ad uno, gli alpini dispersi ed ognuno aveva un trafiletto con la propria storia, ma dalle foto ormai sbiadite era impossibile un qualsiasi riconoscimento. 
"Li avete visti bene quegli alpini?" chiese il vecchio. 
Stavo per prendere la parola quando ricominciò a parlare. 
"Ci fu chi sostenne che gli alpini avessero disertato, ed infatti nei primi anni del dopoguerra tutte le inchieste che furono aperte non esclusero questa ipotesi. Ma la leggenda invece vuole crederli scomparsi, perché stanchi di combattere in quella guerra assurda. C’è chi sostiene che tutta la pattuglia si sia dileguata nel nulla e che i fantasmi degli alpini vaghino per le montagna quando scende la nebbia.
Ci fu un attimo di silenzio poi Vanni prese la parola: 
"Uno di loro si è avvicinato e ci ha indicato il sentiero per il rifugio, gli altri erano lontani e la nebbia era così fitta che distinguevamo a malapena le loro ombre, ma quello con cui abbiamo parlato non sembrava un fantasma.
"Ma non credo fosse la pattuglia fantasma, molti reparti passano qui l'estate e non è raro incontrare qualche pattuglia in addestramento.
Ribatté il vecchio e dando uno sguardo all'orologio continuò: 
"E' tardi e per raggiungere il rifugio di mio figlio dovrete alzarvi molto presto. 
La colazione è già pronta sul tavolo. Buona notte.

Raccolse tutti i giornali e scomparve in cucina. 
Un po’ scossi  dal  racconto ci alzammo avviandoci nelle camerate dove tutti stavano già dormendo da più di un ora. Solo dopo esserci spogliati al lume di una torcia elettrica e dopo esserci coricati Vanni emise un lungo respiro liberatorio e ruppe il silenzio che era calato tra noi. 
Ripensavo a quello che aveva detto il vecchio e a quello che era successo. Volevo chiedere qualcosa a Vanni e a Piero, ma prima cercai di ricordare come era avvenuto l'incontro con la pattuglia di militari. 
Ricordo che si stava camminando lungo un facile sentiero quando scese una fitta e pesante nebbia che impediva di vedere anche gli omini di pietra che segnavano il sentiero ogni 50 metri. 
Procedevamo così alla cieca da più un'ora su di un altipiano brullo che assomigliava al Carso per via di alcune profonde voragini che si aprivano improvvisamente nel terreno. Ad un tratto il terreno pianeggiante si sfaldava in grossi gradoni che facevano presupporre la fine imminente dell'altipiano. 
Ci fermammo sia per fare il punto della situazione con le carte, sia per riposarci un poco. 
Piero estrasse la borraccia e cominciò a bere mentre Vanni cercava inutilmente di accendere un sigaro con i fiammiferi troppo inumiditi dalla nebbia. 
Io tirai fuori dallo zainetto alcuni scacchi di cioccolata e cominciai a succhiarli avidamente. 
All'improvviso dalla nebbia comparve un militare e dietro di lui confusi tra i cespugli di rododendro se ne stavano a parlottare alcune figure in divisa. 
"Buon giorno" disse 
"Salve - rispose Piero - lei capita a proposito, con questa nebbia ci siamo un po’ confusi, per il rifugio si va in quella direzione vero?
E facendo un gesto con la mano indicò alcune grandi rocce. 
"Si, ma dovete tenervi a destra delle rocce perché a sinistra c'è il precipizio.
Nel frattempo Vanni, che aveva già rotto una decina di fiammiferi, imprecava borbottando. 
Senza dire nulla l'ufficiale estrasse un pacchetto di fiammiferi e glielo porse. 
Vanni ne mise assieme due per maggiore sicurezza, anche perché nel frattempo si era alzata una leggera brezza. 
Entrambi si accesero al primo colpo e Vanni fece il gesto di restituire il pacchetto di fiammiferi all'ufficiale. 
"Li tenga pure a noi non servono
"Grazie" rispose Vanni dopo la prima boccata. 
Il vento continuava ad aumentare e la nebbia si stava diradando. 
Qualcuno chiamò l'ufficiale che salutò e scomparve. 
Anche noi imbracciati gli zaini proseguimmo per la direzione indicata dal militare. 
Poco dopo la nebbia svanì e potemmo vedere distintamente il rifugio. 
Nulla di anormale quindi, probabilmente i militari erano in addestramento e del resto non era la prima volta che ne incontravamo. Mi veniva da sorridere pensando a come, caduti ormai tutti i tabù sulle montagne inviolabili, gli uomini hanno ancora bisogno di creare delle leggende su di esse. 
Ripensavo a quando, tanto tempo fa, le popolazioni valligiane credevano i boschi popolati da streghe o che sulle cime delle montagne vivessero orchi e  mostri orribili. La storia della pattuglia fantasma forse aveva lo scopo di alimentare queste leggende, aggiornandole con fatti più attuali.
E pensando ad altre leggende che popolano le montagne mi addormentai. 

Era quasi l'alba quando Piero mi svegliò. 
In silenzio ci alzammo e vestimmo uscendo dalla camerata con le pedule in mano per non svegliare gli altri. 
Giù nella sala, dopo aver consumato una veloce colazione, ci imbragammo e uscimmo sul ballatoio davanti al rifugio per metterci i ramponi. Il sole spuntava in quel momento all'orizzonte ed era così sereno che si poteva vedere quasi tutto l'arco alpino centrale. 
Il fondovalle era coperto da una coltre di foschia, ma in alto l'aria era tersa. 
Era così bello vedere le cime imbiancate dalla neve e brillanti sotto i primi raggi di sole che mi scordai di chiedere a Vanni e a Piero le loro impressioni sui discorsi della sera precedente. 
Salivamo in cordata ed io ero l'ultimo, Vanni era al centro e Piero in testa. 
Fu alla prima sosta che mi avvicinai a Vanni. 
Ci trovavamo sulla cresta che collegava le due cime principali, qui il ghiacciaio formava una piazzola riparata dal vento. Vanni stranamente non aveva ancora fumato, probabilmente accusava il fatto che eravamo oltre i 3500 metri e che la salita era stata breve, ma ripida. Eravamo in procinto di ripartire quando Vanni estrasse dalla tasca i suoi Toscani, ne leccò accuratamente uno se lo mise in bocca e poi estrasse i fiammiferi. 
Stava per accendere il Toscano, quando impallidì, la scatola gli scivolò tra le dita e il vento la scaraventò contro un blocco di neve ad un passo tra noi due. 
Vanni strattonato da Piero si rimise automaticamente in cammino ed il sigaro ancora spento gli cadde tra i piedi e fu tranciato dai suoi ramponi. 
Un altro strattone di Piero e Vanni proseguì molto lentamente. 
La scatola mossa dal vento stava per scivolare giù lungo il ghiacciaio. 
Solo un attimo prima che questa scomparisse per sempre riuscii a leggerne l'etichetta "Regio Esercito". 
Vanni si voltò con lo sguardo perso in direzione della scatola, ma ormai era solo un punto confuso in mezzo a tanto bianco.  

PS 
Questo racconto di fantasia (forse), è il riassunto di più di 30 anni di escursioni in montagna.
Quelli che frequentano i rifugi da tanto tempo potranno riconoscere certi particolari che ora non esistono più.
Il rifugio della sera era il Mantova, sotto la cima Vioz, prima della recente ristrutturazione e che a quei tempi aveva ancora l’illuminazione ad acetilene.
Il vecchio gestore era il Maestro Demetz che una sera, nel suo rifugio sotto il Sassolungo, volle raccontarci come la montagna è bella e pericolosa e come morì suo figlio Toni colpito da un fulmine durante una scalata.
Il rifugio del mattino era il rifugio Casati ai piedi del  ghiacciaio del Cevedale e le due cime ghiacciate scalate all’alba sono quelle del Cevedale.
L’altopiano brullo e carsico (come tanti nelle Dolomiti) è quello tra la Bocca del Tuckett ed il rifugio Grostè.
La nebbia miracolosamente svanita ci ha impedito di precipitare in un burrone al ritorno dal bivacco Tresero sotto la cima omonima, mentre infuriava una tempesta di neve.
I militari che abbiamo incontrato nella nebbia stavano mangiando intirizziti dal freddo tra le trincee della forcellina del Montozzo vicino al passo del Tonale e per noi potevano essere lì da più di 50 anni, identici nella divisa e nella fatica.
Le leggende sono quelle dei monti pallidi.
I miei compagni di tante gite erano in questo racconto Vanni (Bollettinari) e Piero (Stefani). 

Marco Pedretti

Novembre 2005