Cose di spiegazioni incerte e nascoste nella maestà della natura
di Angelo Bolognesi e Michele
Pifferi
Partimmo prima che fosse giorno. Quando arrivammo, l’erba era
verde sui prati.
Il sole saliva dietro le cime di levante. Ci guardava
tra i grandi tronchi dei pini.
Per un attimo, un pino grande e nero lo trafisse, poi il sole continuò a salire e se
ne staccò.
L’erba si agitava monotona nella brezza che si
risvegliava, quando ci fu detto di indossare tutta quanta la nostra
attrezzatura da arrampicata. Per molti di noi,
quell’esortazione ebbe gli stessi effetti di un indovinello avvolto in
un mistero all’interno di un enigma. Spesso i problemi,
nascono proprio in posti di straordinaria bellezza.
A volte si ha la sensazione di essere soli al mondo.
Altre volte lo si sa di sicuro.
Nelle poche ore che servirono a dare una parvenza di
organizzazione al disastro, le nuvole cominciarono
a passare, calme, sopra le cupole di roccia.
Miracolosamente, ci trovammo belli e pronti, senza un
numero eccessivo di vittime.
Come sempre, ci aveva pensato Dio. Una ditta che
risolve molti problemi. Oltre che crearli.
Il resto della giornata la passammo con il naso in su,
bolliti dalla meraviglia.
Guardavamo i nostri maestri che si tenevano in vita
per la punta delle dita danzanti. Poi, toccò a noi.
Fu una rottamazione di buoni propositi.
Nervosi come duchesse che non trovano il bagno,
cercammo di eseguire in maniera guardabile i movimenti e le
operazioni che ci furono proposte.
Alla fine, morti come faraoni, tornammo al rifugio.
Dopo una doccia gelata che ci costrinse a cuocerci di singhiozzi in bagno, azimutammo allegramente per trovare i nostri posti a tavola.
Inutile.
Un esemplare di “Biagicus Vorax “ aveva spazzolato anche le stoviglie. Un dramma
esistenziale.
I nostri magnifici maestri si avventarono al bar.
Cinque minuti dopo, erano già più sbronzi di un congresso di reduci.
Uscimmo, allora per sgranchirci la coscienza. Avevamo
il silenzio attorno, e su di noi il peso del cielo e delle stelle.
Rientrammo, stecchiti dal freddo e dal nulla.
A volte
si ha la sensazione di essere soli al mondo. Altre volte lo si sa di
sicuro.
Passammo attraverso i corpi alla deriva dei nostri valorosi istruttori. Esalavano odore
di grappa.
Nelle loro vene
l’alcool presentava alcune tracce ematiche.
Scandalizzati come ragazze di buona famiglia in visita
ad un bordello, andammo a dormire.
Ci coricammo. Sull’orologio un’ora inservibile.
A volte, si ha la sensazione di essere soli al mondo.
Altre volte, lo si sa di sicuro.
Da quel momento, come le nuvole scorrono in cielo,
passarono 20 o 25 anni.
Poi, tornò la luce. Il gruppo si risvegliò e si
mosse come un unico, grosso pachiderma.
Ci inerpicammo dolorosamente, verso il punto in cui le
rocce prendono l’ascensore verso il cielo.
Arrivammo
con il diaframma impazzito. Se ne resero conto anche le genziane
che, per poter ridere senza che ci offendessimo, si
girarono verso il sole.
Dopo aver schivato diversi simpatici macigni locali,
molto pittoreschi, piovuti dall’alto, ci riunimmo tutti all’attacco
della via. Lì, ascoltammo, senza
batter ciglio, i paterni consigli e le accorate
raccomandazioni dei nostri insuperabili maestri: «mai mollare le mani
dalla corda, se cado mi devi tenere!» … chissà poi perché tutta quest’ansia della caduta,
come se la montagna fosse per fare sgambetti a chi l’accarezza.
Senza batter ciglio, le dimenticammo, e iniziammo
l’arrampicata.
Procedemmo fluttuando nell’aria tra spigoli, camini
e quant’altro ci riservava quella cattedrale
di pietra.
Nei punti di sosta
ci dava conforto l’apparizione dell’Arcangelo Micaele.
Dall’alto della sua celeste bontà,
ci correggeva ogni piccolo errore, con un “NAAAA
!!” pieno di amorevole disgusto.
Tra il 4° e il 5° tiro di corda, fu lapidato tra gli
applausi e gli incitamenti degli astanti. Fu un bel momento.
Anche la nostra guida apparteneva di diritto al fior
fiore della gerarchia celeste.
Era, infatti, l’Arcangelo Gabriele.
Egli guidava, con impareggiabile sapienza, la nostra
cordata: «dai … risolvi quella situazione!» era l’invito amichevole con cui, dalla sosta
successiva, attendeva paziente la nostra mossa curiosa.
Comunicava con noi mortali attraverso l’emissione di
suoni la cui modulazione dipendeva dalla posizione che teneva sulla parete e la cui
provenienza, non sembrava essere propriamente la laringe.
L’incontro tra un ostico passaggio 4+ e il
contemporaneo metabolismo di certi legumi, diede origine ad un momento
di sincera commozione.
Dai Santi Pertugi Celati dell’Arcangelo, si liberò netta e distinta, la melodia di “Vecchio Scarpone “.
Quelli che erano nelle condizioni per poterlo fare, si abbracciarono
senza ritegno.
Molti occhi brillarono per le lacrime. Sentimmo lo
spirito delle montagne aleggiare intorno a noi. E che spirito.
Proseguimmo la nostra ascensione protetti da Re
Laurino, Soreghina, un po’ di Fanes
e dalle Forze del Cosmo.
La vetta fu raggiunta dopo un conciliabolo tra i
nostri Maestri e Dio, per stabilire chi, tra loro e Lui, dovesse avere il
controllo sulle condizioni meteorologiche. Stabilito
che non rientrava nelle Sue competenze, completammo la
scalata sotto una varietà di cirri, nembi e cumulo
nembi, mai vista in tutto il sistema solare.
La cima ci regalò, come ovvio, momenti di
raccoglimento quasi mistico.
La vista della valle laggiù lontana, ci
provocò una minzione di riflessioni di rara lucidità.
L’apice fu raggiunto quando capimmo che la montagna
è come la prostituzione, una di quelle questioni che
appaiono molto diverse secondo che si considerino dal
di sopra o dal di sotto.
L’uragano ci sorprese durante questa sorta di trance
meditativa.
Silenziosi come chiostri, iniziammo la discesa sempre
nella scia del nostro Arcangelo Gabriele che però,
aveva interrotto le comunicazioni. Lo spirito non
aleggiava più.
Un’ora dopo, eravamo sotto la pioggia da un’ora.
Cordini, moschettoni e ammennicoli vari, ci pendevano
addosso come alghe umide. Raggiungemmo le auto esausti, ma felici. Inzuppati come pan di Spagna,
ma con un certo decoro da cattolici andati a male.
Intrecciammo veli e ghirlande e intonammo canti di
ringraziamento alle Potenze Estreme e alle Maestà Benedette
dei Cieli.
A completamento dei rituali, furono immolati due centesi grassi.
Le loro
viscere vennero disperse sui declivi erbosi, accompagnate dal canto di gioia “Scu - l’è - son! Scu
- l’è - son!“.
Il nostro abituale, precario equilibrio, ci riprese
solo più tardi, quando si smorzò la baldanza sibaritica che si
era impossessata di noi.
Riprendemmo posto sulle nostre automobili e ripartimmo
sparati verso il dubbio.
La nostra meta ora, erano i panini. Tanti, belli e
introvabili.
La pioggia si era calmata e un leggero vento invitava
le piante alla musica.
Che dire, una bella gita !
Bibì & Bibò
Ferrara, luglio 2005 |