Autostop "alpinistico"
di Daniele Spiniella
Tutto
inizia come dovrebbe sempre iniziare, con nove amici che partono per
un’uscita in montagna, e finisce come dovrebbe sempre finire, con nove
amici che tornano da un’uscita in montagna, anzi nove + uno!
Partiamo dal principio: c’è un gruppo di persone appassionate di
montagna che forma lo zoccolo duro di un’associazione escursionistica di
un paesello della pedemontana veneta. Una volta all’anno si fa
un’uscita di “spessore” alpinistico e quest’estate la méta è il
Carè Alto dalla cresta est.
Il Carè Alto è la seconda cima del gruppo dell’Adamello e da sempre
vive nell’ombra del fratello più famoso.
Non gli manca né la bellezza
né la storia, ma per noi italiani l’Adamello rimane un luogo della
memoria e la sua fama oscura il vicino meno inclito, ma in fondo è giusto
così.
Io sul Carè ero gia stato nel 1993, alla fine del primo corso roccia Cai,
e avevo serbato di quell’uscita uno speciale ricordo, probabilmente
sublimato dal magnifico affiatamento che noi allievi avevamo con gli
istruttori.
E comunque oggettivamente quella cresta di misto era bella, emozionante e
non troppo impegnativa.
Il nostro gruppo è eterogeneo per età e capacità, ma al di là di 30 m
di III grado non ricordavo particolari difficoltà se non il breve
affilato tratto di cresta detta “schiena d’asino” che comunque avrei
affrontato io da primo riducendo in tal modo i pericoli per il resto della
truppa.
Parcheggiamo così le macchine in val Borzago in un’uggiosissima
domenica mattina e prendiamo con passo sicuro il sentiero che porta ripido
al rifugio Carè Alto, nostra accogliente tappa intermedia sulla via della
cima.
La pioggia, neve e grandine che nell’ordine ci accompagnano non servono
che a spronarci sulla via e così, chi prima chi dopo, in tre ore scarse
raggiungiamo il gestore del nostro ricovero che si dimostra simpatico ed
efficiente.
Verso sera il tempo volge al bello, preludio di quello che sarà la
giornata successiva, e durante il solito girettino pre-cena noto con
disappunto che il ghiacciaio che nella precedente visita mi aveva
dolcemente portato alla base della cresta si è ora visibilmente ritirato
lasciando affiorare una zona di ghiaccio vivo e crepacci con pendenze
marcate che non lasciano prevedere niente di buono.
Chiedo conforto della
mia impressione a Sergio il rifugista che mi conferma la regressione del
ghiacciaio tanto da sconsigliarmi per il giorno successivo il ritorno
dalla normale com’era invece nei miei programmi, ma mi riservo la
decisione al momento di scendere.
Dopo la solita notte nel dormiveglia passata a contare i metri cubi di legna
segati nel sonno dai miei
compagni di tavolaccio, partiamo con le frontali in una meravigliosa alba
foriera di una splendida giornata, che ci lascia spaziare lo sguardo su
una lassa pianura. La temperatura si aggira sui 4 C°, ideale per
camminare, e perciò guadagniamo velocemente quota raggiungendo in
un’ora circa il cannone austriaco posto a 2900 m.

Il vecchio “ferro”
fa la guardia diligentemente alla vedretta sottostante da circa 90 anni ed
è bello constatare che i resti dei bossoli sono stati posati nelle sue
vicinanze, ad ulteriore ricordo della sua storia.
Sono certamente più
educativi in quel luogo piuttosto che a casa di qualche collezionista
della domenica!
Riprendiamo la marcia dopo una breve sosta e mi sorprendo a pensare che 12
anni prima a questo punto eravamo già legati e ramponati, mentre ora ci
troviamo a camminare tra morene e sfasciumi.
Raggiungiamo il ghiacciaio dopo un’ulteriore mezz’ora di via, a 3100 m
di quota e finchè ci leghiamo guardo un po’ preoccupato lo scivolo
ripidissimo che ci separa dalla cresta vera e propria.
Leggo altrettanta preoccupazione negli occhi di alcuni amici ma nemmeno il
tempo di pensarci troppo che Paolo (uno dei tre capi cordata) rompe gli indugi e parte dritto come un fuso verso la cresta.
Lo seguiamo prontamente e la necessità di schivare grossi crepacci ci
porta a zigzagare e attraversare zone di ghiaccio vivo.
La pendenza
procura morsi ai polpacci iper sollecitati dal lavoro delle punte dei
ramponi e la necessità di riposo mi porta a sostare all’interno di una
spaccatura tappato dalla neve. Pianto la piccozza e quasi simultaneamente
sento l’urlo della cordata dietro - “bloccaaaa ”- mi giro e vedo
Bruno scivolare lungo il ripidio pendio.
Mi preparo allo strappo ma Simone, il mio secondo, ha già fermato il volo
e constatata l’integrità del malcapitato mi faccio raggiungere in sosta
dai due componenti della cordata.
Riparto subito per stemperare la tensione e finalmente raggiungiamo tutti
e nove la base della cresta.

A questo punto Bruno confessa onestamente di
non sentirsela e così fanno altri tre. Io però sono già partito lungo
il primo tiro di corda su marcio e sfasciumi che porta alla paretina di
III e impaziente smoccolo alla volta di quelli sotto.
Infine Rocky, il
terzo capo cordata, si sacrifica e accompagna giù gli indecisi ed io
Paolo, Angelo e Simone proseguiamo. La paretina è un po’ incrostata
dalla neve del giorno prima e ho portato un solo dado (da relazioni lette
avrei dovuto trovare qualche chiodo ma Sergio mi ha detto che non si fa
ora a metterli che subito spariscono) comunque salgo e recupero gli altri.
Proseguiamo poi in conserva sul filo di cresta su passaggi più o meno
sani proteggendoci in velocità fino alla schiena d’asino, molto esposta
ed emozionante.
A memoria il più dovrebbe essere fatto, e a conferma di ciò si
cominciano a vedere poco sopra a noi i resti delle baracche della Grande
Guerra. C’è solo un pendio di sfasciumi e parto a testa bassa per
raggiungere in fretta la cima ma presto mi trovo nel regno
dell’effimero, attorno a me tutto si muove e ad ogni passo sgancio
“televisori” di granito che sfiorano gli altri. Paolo prova a passare
più a destra ma anche li partono “lavatrici” e “microonde” tanto
che ad un certo punto lui
stesso si inserisce nella “lista nozze” e solo l’accortezza di
Simone che lo trattiene evita il peggio.
Ci consultiamo e, nonostante la grandissima voglia di arrivare sopra, la
saggezza ci consiglia di voltarci e tornare. L’idea originale come detto
era quella, una volta raggiunta la cima, di tornare dalla normale, anche
perché ci sono delle tracce lungo quella rotta, però un po’ i consigli
del rifugista, un po’ la riluttanza a lasciare la strada conosciuta per
l’ignota ci portano a ripercorrere i nostri passi calandoci da un kevlar
da noi posizionato sull’unico masso stabile. Ritorniamo così sul filo
di cresta ed in breve alla schiena d’asino. Decido di sacrificare un
altro cordino per calarci in sicurezza e a tal pro attrezzo una sosta su
un bel masso incastrato a cavallo del vuoto quand’ecco sento una voce
arrivare dal basso; ascolto con più attenzione convinto che la stanchezza
stia facendo brutti scherzi ed invece è proprio qualcuno che chiama. Mi
sporgo nel vuoto a sinistra ed in piena verticale vedo sbucare una
testolina che mi osserva con occhio speranzoso.
Chiedo “serve una
mano?” e lui “magari, pensavo di passare in basso ma è tutto
ghiacciato“.
A quel punto, una volta raggiunto dai tre miei amici gli lancio un capo di
corda con un ghiera attaccato e gli urlo” prima recupero te e poi il tuo
compagno” ma lui mi fa “sono solo” e così dicendo si arrotola la
corda attorno ad un avambraccio e ci raggiunge.
Lo guardo basito, non ha nemmeno l’imbrago e forse per il mio stupore
sul viso si giustifica “mi avevano detto che era più facile e così ho
pensato di seguire le vostre tracce”.
Non so da quanto sia inchiodato in parete ma sembra tranquillo, quasi
fosse normale trovarsi a 3400 m senza attrezzatura e senza compagni. Gli
chiedo se vuole aggregarsi a noi e annuisce con riconoscenza.
Scendiamo
perciò in formazione “allargata” e tra varie calate e manovre di
corda giungiamo sul ghiacciaio alle 14.
Di qui l’ignoto ospite sparisce
più veloce della luce (ci dirà poi al rifugio di essere uno sky runner,
infatti la mattina era partito dal parcheggio alla stessa ora in cui noi
avevamo lasciato il rifugio) mentre noi sempre più affaticati caliamo al
nostro ricovero notturno alle 15.00, dieci ore dopo averlo lasciato
all’alba.
Non facciamo tempo a varcare la porta d’entrata che subito ci accoglie
il resto del gruppo; ci hanno seguiti col binocolo del rifugista per buona parte della giornata e non hanno voluto pranzare
per aspettare noi quattro.
In fondo alla sala “l’autostoppista delle
alte quote” ci guarda solitario, pronto ad offrirci il pranzo, ma
accettiamo per cortesia solo un bicchiere di vino. Non mi riconosco nel
suo modo di andar per monti, non per il fatto di andare solo ma per la
confidenza eccessiva accordata al Carè Alto. Ci vuole rispetto per la
montagna e questo concetto l’ho imparato seguendo i corsi del tanto
vituperato (o meglio vituperato da tanti) CAI. Non lo dico per i concetti
veteri e ormai triti e
ritriti di lotta all’alpe e conquista della montagna, ma al contrario
per una cultura basata sul rispetto per noi stessi (e perciò della nostra
vita) e per i luoghi dove, che ci piaccia o no, siamo ospiti.
Noi nove amici lo sappiamo e certamente la bottiglia di Valpolicella
stappata al parcheggio a fine giornata ha suggellato una bella avventura
che comunque ci ha insegnato la consapevolezza nei nostri mezzi.
Sicuramente se fossimo stati più preparati saremmo saliti in cima e
questa certezza sarà lo sprone per organizzare con ancora più
motivazione la prossima uscita.
E come ho letto recentemente in un forum
l’importante è “Tornare
vivi, tornare amici, arrivare in cima: in quest'ordine” e questo è
anche il mio punto di vista.
Daniele Spiniella
Zevio (Verona) Dicembre 2005
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