di Maurizio
Caleffi
Più di due ore per
salire quarantacinque metri!
Che razza di follia è questa: ora che ci penso non so se esserne
orgoglioso o preoccupato.
È la seconda volta che mi faccio questa domanda nel giro di poche
settimane.
La prima è stata in Valnontey in quegli incredibili ultimi cinquanta
metri della cascata di Patrì quando, sotto una doccia gelida e
completamente inzuppato, m'infilavo nella goulotte finale con le mani
insensibili dal gelo. Sopra di me un cielo azzurrissimo e l'incoraggiante
presenza di Franz che cercava di immortalare quel momento incredibile con
la sua macchina fotografica. La situazione tecnicamente era sotto
controllo ma il disagio di trovarsi ad arrampicare in quelle condizioni
richiedeva uno sforzo psicologico non comune!
Franz, che per primo aveva aperto quell'ultimo tiro, era partito come il
solito piranha per divorarsi l'ultimo tratto che ci divideva dalla fine
dalla nostra salita. Non appena si affacciò sotto la verticale di quella
goulotte, che si era trasformata, a causa del caldo, in un vero e proprio
torrentello d'acqua, tornò subito indietro per indossare la giacca in
gore e non appena ripartì esclamò con un po’ di stupore:
"…ben, ben: mi un quel acsi an lò mai fat!!" (…una cosa così
non l'ho mai fatta!!).
Alberto, il suo secondo, si rifiutò di recuperare i chiodi e chiese a me
e Riki di poterli lasciare per evitare di rimanere sotto quella doccia un
solo secondo in più del necessario.
Riki invece non dice mai niente: chi lo conosce bene, come me, apprezza
questo suo modo di fare e trae dal suo silenzio una tranquillità
incredibile. Quando toccò a lui partire gli diedi una pacca sulla spalla,
in segno di grande amicizia, e quando lo osservavo grondante sotto quella
cascata d'acqua, mi vennero in mente le parole di Cesare Maestri, quelle
che ho scritto sulla T-shirt che gli amici mi avevano regalato per il mio
compleanno:
"…guardai
i miei compagni appesi a quella parete e provai per tutti un
affetto così grande che mi diede un dolore fisico
fortissimo…".
Al comando di Riki capii
che era arrivato il mio turno: scafandrato dentro alla mia giacca in gore,
già immaginavo cosa mi aspettasse e soprattutto ero conscio del fatto
che, essendo l'ultimo, avrei dovuto svitarmele tutte io quelle viti. Capii
subito che il problema del bagnarsi era pressoché risolto dopo un metro:
con o senza gore l'acqua era già entrata ovunque ed ero ormai inzuppato
dalla testa ai piedi! Il problema vero era la concentrazione: la fretta
con la quale desideravo uscire da quella situazione non doveva farmi
dimenticare quello che erano le regole principali del nostro gioco! Cadere
in quel tratto non era un problema, essendo da secondo: la corda avrebbe
immediatamente fermato il volo, ma psicologicamente la cosa era già molto
"intensa" così e non c'era assolutamente bisogno di altri
traumi. Sbucai fuori da quel budello bagnato con un fiatone incredibile,
quasi come se l'avessi fatto di corsa. Il calore del sole fece subito il
suo effetto e il suo caldo abbraccio era la cosa di cui tutti avevamo
maggiormente bisogno.
"… a son propria malà!! (sono proprio malato!!)…"
Questo esclamai ad alta voce quando mi accorsi che nella mia mente il
sentimento più forte era quello di compiacimento e orgoglio per essere
riusciti a dominare quella situazione particolare. Ma poi mi accorsi
subito, guardando negli occhi dei miei tre compagni di cordata, che non
ero solo io ad essere fiero di quello che avevamo combinato. In quel
momento la stessa grande passione per le cascate aveva trovato in noi la
giusta dimensione, una dimensione quasi folle e irreale che porta i
contagiati, come noi, a gioire di cose così particolari.
Solo pochi giorni dopo è
successa la stessa cosa: io ero ancora uno degli interpreti ma il compagno
era diverso e la cascata anche. Sottoguda, "Spada nella roccia"
con Davide, per gli amici "Obelix": già da venerdì sera avevo
nella mente questa cascata: salita tre anni fa, ma in condizioni
particolari che fecero si che una delle mie due corde nuove di zecca
perisse sotto il colpo di una mia piccozzata.
Era il 1999, io e il mio amico Riki (lo stesso della Cascata di Patrì),
in uno slancio di esaltazione, e comunque consci del nostro discreto stato
di forma, decidemmo di tentare questa che è una delle cascate simbolo
della gola. In quella occasione fu ancora il "grande" Riki a
salire da capocordata quella incredibile colonna alta quarantacinque
metri: allora usavamo ancora i cordini per potersi appendere ogni tanto a
rifiatare, e assicuro che furono abbondantemente utilizzati! Un piccolo
errore di Riki (l'unico che io gli abbia mai visto commettere!!!) non ci
permise il recupero della corda. Era, infatti, mia intenzione salirla da
capocordata avvalendomi solo del vantaggio di avere già le protezioni
installate. Era rimasta una sola soluzione: salire assicurati con un
prusik.
Chi crede che sia stata cosa facile si sbaglia di grosso!! Non solo; a
circa dieci metri dall'uscita centrai in pieno la corda sopra di me con la
becca tubolare della mia piccozza. Brivido!!! Era quella che mi doveva
sorreggere in caso di caduta!! Strinsi i denti (…e non solo quelli!!)
fino a che, salendo, non fui in grado di riposizionare l'autobloccante
sopra al punto in cui la corda era per metà tranciata! Quindi la
"Spada" aveva con me una specie di conto in sospeso…anzi due:
una salita da capo cordata e una corda tranciata.
Quest'anno era completamente diversa dal solito: due grossi buchi
interrompevano la sua continuità e sopra di loro una massa di ghiaccio
azzurra ed imponente incombeva nel vuoto. Ma la via di salita più a
destra era ben ancorata alla roccia e il ghiaccio non faceva una goccia
d'acqua.
Un solo problema: gli ultimi dieci metri, quelli dal secondo buco in su,
sembravano strapiombanti!
Dopo i dovuti preparativi, simili ad un rito preparatorio per la salita,
attaccai la base di questa fantastica candela. Per niente semplice e molto
atletica a causa del fatto che il ghiaccio, che solitamente arriva a
lambire il torrente, arrivava a due metri di altezza con una frangia molto
fragile. Piantate le piccozze nel modo più affidabile possibile, non
rimaneva che tirarsi su di forza, senza il minimo aiuto da parte dei
piedi!
Fortunatamente i metri successivi erano più tranquilli e subito ne
approfittai per avvitare la prima vite.
Affrontare una colata in simili condizioni e come soffrire di vertigini al
contrario: guardando verso l'alto da quella prospettiva era netta la
sensazione di entrare nelle fauci di un drago. Il grande buco sembrava
un'enorme bocca pronta ad ingoiarti e i grossi candelotti che ne
sovrastavano il bordo superiore, dei grossi e minacciosi denti.
Questa vista, unita alla netta consapevolezza di affrontare una salita
dura ed impegnativa, faceva crescere l'ansia di quel momento, tant'è che
mi accorsi che evitavo il più possibile di guardare in alto.
Altre volte ho provato questa sensazione: la concentrazione è massima e,
nel desiderio che nulla e nessuno possa distrarti da quello che stai
facendo, ti isoli da tutto e da tutti. Sei solo tu e quel tratto di
ghiaccio che ti si oppone di fronte: non pensi alla fatica, alle difficoltà,
ai pericoli che ti circondano. Piantare bene le picche, muoversi in
equilibrio senza sbagliare nulla, proteggersi adeguatamente rinviando in
modo opportuno, respirare dopo ogni movimento e cercare di recuperare
forze in ogni momento e ragionare, ragionare e ancora… ragionare!
In questo modo stacchi tutti gli altri ricettori: non esiste il freddo,
non esiste il tempo, cerchi di non fare esistere la paura! Immerso in
questo mondo irreale, metro dopo metro sali, compiacendoti di essere
avanzato ancora un pochino e ignorando forzatamente quanto ancora manca
realmente alla sosta.
In questo momento è fondamentale la massima fiducia nei confronti del tuo
compagno di cordata: tu cerchi di non sbagliare ma sei consapevole che se
anche dovessi farlo, sotto c'è uno che sa cosa deve fare ed è sempre
pronto in ogni istante. Salivo, lentamente ma salivo; uscire fra le fauci
di quel drago era come sfuggire dai suoi morsi.
Improvvisamente lanciai l'attrezzo sinistro nel tentativo di piantarne la
becca: in un attimo a causa del colpo, un grosso blocco si staccò poco più
sopra di me e sfiorando il mio piede sinistro precipitò nel torrente
sottostante.
Il fatto fu talmente fulmineo che a malapena vidi con la coda dell'occhio
quel blocco partire. In quell'attimo molti ragionamenti mi passarono per
la testa, in modo freddo e con un cinismo a me inusuale. Davide era al
sicuro; la sua esperienza e il suo occhio lo avevano portato a sostare
sulla solida palizzata del ponticello sulla stradina (le soste di Obelix
sono sempre una vera garanzia!!).Io ero in perfetto equilibrio nonostante
la verticalità assoluta di quel tratto e quindi quel distacco non aveva
minimamente pregiudicato la mia stabilità. Tutto ok quindi e per
accertarmene esclamai, senza però guardare in basso:
"Tutto bene Davide?!"
"Tutto ok Mauri, sali pure!"
L'unica cosa che mi aveva dato una minima percezione di quello che era
accaduto era il grosso tonfo che quel blocco aveva fatto nel cadere nel
fondo di quella gola.
"Sarà che siamo qui dentro, ma mi sembra veramente un gran bel
ciocco!!" pensai fra me e me.
Solo dopo Davide mi disse che era grande come una lavatrice!
La fatica si faceva sentire: mi concedevo qualche sosta appeso agli
attrezzi mentre affrontavo gli ultimi metri. Del resto non devo proprio
lamentarmi: quel tratto era veramente duro per le mie capacità di
"arrampicatore della domenica" e il tutto mi era confermato
dalle grida di incitamento di Carlo, spiccozzatore del posto conosciuto un
paio di mesi prima ad inizio stagione. Come tutti i locali molto bravo e
forte, arrampica con due attrezzi che definirli piccozze è veramente
fantascientifico! Passava con un amico dentro alla gola per andare a
salire una delle tante cascate dei Serrai.
" Vai Maurizio, resisti, che li le dura !!" mi urlò dal basso.
Io, infatti, stringevo i denti; le mani erano gonfie dal freddo e dalle
immancabili botte prese fra il manico della piccozza e il ghiaccio. Le
braccia erano come pezzi di legno e i polpacci ad un millimetro da essere
colte da crampi feroci. Caparbiamente mi ostinavo a salire e in uno dei
pochi sguardi lanciati in alto vidi la sosta a tre metri da me. Era quasi
finita, ma non mi volevo far prendere dalla foga di uscire da quella
situazione: cercai di mantenere al massimo la concentrazione anche in quei
ultimi metri e finalmente……
"Davideeee, recuperoooo!!!"
Finalmente mi girai guardando il mio caro amico giù in basso: l'imponente
Obelix visto da qua sopra sembrava un bambino. Notai anche con stupore che
dalla mia posizione non vedevo la cascata sotto di me: per farlo allungai
la mia autoassicurazione di un buon metro e mi sporsi nel vuoto.
"Allora non era un impressione: era veramente strapiombante questo
ultimo tratto!. Cavolo che fatica….ma che salita! A son propria fort!!
(sono proprio forte!!)".
Obelix, che non è uno sprovveduto, aveva sicuramente osservato la mia
salita e aveva dedotto che era decisamente impegnativa. Infatti, mi disse
di scendere subito in doppia in quanto non credeva assolutamente di
farcela. Ho dovuto insistere almeno per due o tre volte prima di riuscire
a convincerlo a tentare almeno i primi metri. In effetti, con la sicurezza
della corda dall'alto, il tutto era diventato ormai una sola questione di
tecnica e resistenza e il granitico Davide di forza ne ha da vendere!
Sporgendomi dal terrazzino cercai di osservarlo mentre saliva: superò
brillantemente il primissimo tratto, quello senza ghiaccio, e affrontò
con sicurezza quello successivo fino all'inizio del primo tratto veramente
verticale.
Qui si fermò la prima volta per riposare ed osservare quello che aveva di
fronte.
L'effetto "vertigine al contrario" stava per impossessarsi del
mio compagno di cordata: vidi i suoi occhi prima spalancarsi come per
stupore e, in seguito, spegnersi sconsolatamente.
Con la testa piegata verso il basso, come fosse quasi un cenno di resa, mi
gridò di calarlo! Ancora non accettavo la sua resa e cercai di farlo
desistere dalla sua decisione di rinunciare.
" Forza Davide… riposati, prendi fiato e vedrai che ce la fai anche
tu!!"
Non so come, forse anche grazie all'enorme fiducia nei miei confronti, ma
decise di riprovare.
Recuperavo centimetro su centimetro le corde sulle quali era appeso
cercando di non fargli perdere nemmeno in piccola parte ciò che stava
faticosamente guadagnandosi.
Dal mio terrazzino lo osservavo attentamente, sia per dargli qualche
indicazione, che per incoraggiarlo durante il suo sforzo. Non potevo però
fare a meno di notare che le sue piccozze non entravano più nel ghiaccio.
Questo voleva dire solo una cosa: le braccia non ti funzionano più al
punto che non riusciresti a tenere in mano nemmeno una penna! In un attimo
capii che il grande Obelix non ce l'avrebbe più fatta e quello che stava
facendo non era per suo diletto ma solo per non tradire le mie
incitazioni.
"Come va Davide?"
Nemmeno mi rispose, sempre con la testa piegata in basso, senza nemmeno
guardarmi, appeso alle due mezze corde che lo sostenevano.
"Calami Mauri!"
Sembrava, più che una richiesta, una preghiera, ed allora fu lui a
convincere me di fare l'unica cosa giusta: accontentarlo. In un solo
momento tutta la gioia di essere riuscito in quella salita quasi svanì.
La sconfitta di Davide era in parte anche la mia: egoisticamente potevo
essere contento di aver portato a buon fine quel monotiro duro e difficile
ma la mia formazione alpinistica interiore fa si che riesco a gioire per
una salita solo se anche i miei compagni giungono in cima con me.
Ecco la grande differenza fra la "Cascata di Patrì" e la
"Spada nella roccia"! La prima mi vide all'uscita con tutti i
miei compagni e la seconda da solo.
*****
Spesso scherzosamente
prendo in giro la mia memoria e disattenzione: con i miei abituali
compagni di cordata ci si ride sopra dicendo che più di tanto non si può
fare quando nel cervello hai solo un neurone. Gli altri se ne sono ormai
andati tutti: colpa delle birre, delle grappine, e del tanto freddo preso
sulle cascate di ghiaccio.
Ma onore al mio unico neurone!
In momenti come quelli passati sulla "Spada", "Patrì"
(e tante altre volte!) mi è stato di grande aiuto.
Magari dimentico dove ho messo le chiavi del furgone o i guanti, gli
occhiali o l'orologio, ma quando i muscoli non servono più e il cuore
batte a mille mi accorgo che lui, discretamente e rimbalzando
vorticosamente all'interno di una scatola vuota, fa sempre il suo dovere.
Quando accenno ai miei colleghi di ufficio cosa combino i fine settimana,
loro mi guardano come se fossi un matto. Una volta uno di loro, fumatore
incallito, mi disse che rischiavo la vita: io quasi offeso gli risposi che
era meno rischioso salire una cascata a domenica che fumare trenta
sigarette al giorno!
Forse si, non è molto normale svegliarsi alle cinque di mattina per
salire un ghiacciolo più o meno grande, all'ombra e al freddo e magari
impegnarsi al punto di non sentire fame, sete, stanchezza e alla fine
esserne contento e soprattutto appagato!
Ma in quelle due ore e mezza ho fatto una cosa solo per me senza chiedere
nulla a nessuno e con me ci sono amici che provano la stessa passione. Si,
passione vera per quello che stai facendo, condivisa da pochi altri.
Forse è proprio questo il bello della nostra pazzia!