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13/02/2006 - Addio a Lafaille, rimasto per sempre sul Makalu, che tentava in prima invernale. 

Non è tornato, dunque non tornerà più. Il Makalu che sognava di salire, per la prima volta in solitaria nella stagione invernale, è diventato la sua tomba. L'alpinismo mondiale perde uno dei protagonisti di punta, la Francia piange un altro dei suoi eroi, muta di fronte a quella che pare una maledizione, perché nessuno degli scalatori che l'hanno fatta grande in campo alpinistico è mai riuscito a salire tutti i 14 ottomila della Terra. (Benoit Chamoux precipitò a pochi metri dalla cima del Kangchenjunga, il solo colosso che mancasse al suo appello; Jean Christophe Lafaille è caduto a due vette dal traguardo che sognava). Lui in Himalaya non voleva solo arrivare in fondo a una collezione di montagne: voleva battere la sua pista, lasciare una traccia originale. E ci era riuscito. Aveva scelto per sè l'alpinismo solitario, un filo da equilibrista teso su un baratro infinito. Lui e la parete, nient'altro, con la consapevolezza di poter contare solo sulle sue forze. Lo aveva fatto l'anno scorso allo Shisha Pangma (dove nel '94 aveva aperto una via nuova sulla parete Nord). In solitaria Lafaille aveva già concatenato in quattro giorni i due Gasherbrum nel '96, aprendo anche una via nuova sulla Nordest del G1. Senza compagni accanto aveva salito il Manaslu nel 2000, e nel 2003 si era ripetuto sul Dhaulagiri e anche al Broad Peak e al Nanga Parbat, questa volta condividendo pezzi di salita con altri compagni: nel secondo caso l'italiano Simone Moro (gran via nuova di 2000 metri fino a quota 7500), in entrambi l'americano Ed Viesturs. La corsa sugli ottomila di Jean Christophe era cominciata nel '93 al Cho Oyu (via polacca) ed era passata anche attraverso il Lhotse (nel '96, con i Ragni di Lecco Mario e Salvatore Panzeri), il K2 nel 2001 (parete Sud, sperone Tomo Cesen) e l'anno dopo l'Annapurna, salito al quarto tentativo. Sembrava dovesse essere quella, l'Annapurna, la montagna maledetta di Lafaille: nel '92 vi aveva perso un amico come Pierre Beghin riuscendo miracolosamente a rientrare ferito al campo base dopo un'odissea di cinque giorni: nel '97, ancora in spedizione con i Ragni di Lecco (di nuovo i fratelli Panzeri più Alberto Pirovano), era stato ricacciato indietro da una valanga che aveva travolto quattro sherpa, uccidendone uno. Invece la montagna maledetta di Jean Christophe doveva ancora venire: era il Makalu, già tentato due anni fa (via nuova sul versante Nord, ma rinuncia a 7500 metri) e ritentato con la spedizione che purtroppo non ha concesso ritorno. Dell'alpinista francese restano tutte queste orme nitide, in Himalaya. E le sue tracce restano sulle Alpi, nelle sue grandi salite al Monte Bianco (come ad esempio i 9 giorni da solo ai Dru per l'apertura in solitaria invernale di una nuova via grandiosa e durissima), nei concatenamenti, nelle cavalcata del «Grand Voyage» sulle dieci cime più prestigiose dei massicci di Oberland, Valais e Monte Bianco, inclusa "naturalmente" la trilogia delle Nord: Eiger-Cervino-Jorasses. Quieto, professionale fino al maniacale, capace di dividere con altri i meriti per una salita come dimostrò dopo il Lhotse che - disse - non avrebbe «mai salito senza Mario e Tore Panzeri». Lafaille era così: un giovanotto di 39 anni che aveva vissuto da protagonista anche la prima stagione delle gare di arrampicata e che difendeva con orgoglio il suo spazio, che con i fatti reclamava l'attenzione che sapeva di meritare.