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SPIGOLATURE.
18/07/2008 -
Da INTOtheROCKS vi proponiamo il ricordo di Karl Unterkircher

Ancora una volta "spigoliamo" da INTOtheROCKS uno scritto di Carlo Caccia che, con stile essenziale ed impareggiabile sensibilità, traccia un delicato ricordo di Karl Unterkircher, scomparso tragicamente al Nanga Parbat.


L'alfa e l'omega di Karl Unterkircher.


Karl aveva cominciato tranquillamente: per lui, ragazzino, l'arrampicata non era un'ossessione.
Aveva cominciato
sui massi, forse quelli della “città dei sassi” ai piedi del Sassolungo, e per il debutto in parete, due mesi dopo, aveva scelto la classica Via dei pilastrini di Glück e Rezzara sulla Prima Torre di Sella: una piccola avventura, l'Alfa di un sogno durato una vita. Soltanto più tardi, dopo il servizio militare, da buon gardenese decise di fare sul serio, cominciando ad allenarsi con determinazione.
Nel 1992, a ventidue anni, ecco la prima spedizione, poi le vie nuove sulle “sue” montagne e finalmente, nel 1997, il meccanico d'auto (come un altro grandissimo, sempre Karl ma di cognome) divenne guida alpina.
Gli orizzonti ristretti non facevano per lui: l'ex ragazzino della
Via dei pilastrini non voleva rimanere schiacciato dalla gran mole del Sassolungo. Eccolo allora sulla nord del Cervino, a sfidare invano l'Eigerwand e sulle fantastiche architetture andine: Alpamayo, Artensoraju, Torri del Paine (Centrale per la Bonington e Nord per la Monzino) e Fitz Roy (per la Via dei californiani).
E col terzo millennio, al termine del crescendo, i giganti dell'Himalaya e del Karakoram: l'Everest e il K2, certo, ma anche «luoghi dove nessuno è mai stato», come la nord del Gasherbrum II scalata l'anno scorso con Daniele Bernasconi e Michele Compagnoni.
Karl il sognatore, che non ambiva alla qualifica di “campione”, definiva tali «tutti coloro che hanno il coraggio di uscire dai sentieri già battuti, di spingersi sulle grandi pareti dove sono indispensabili una notevole esperienza e una grande preparazione atletica per superare le difficoltà tecniche».
Così, dopo il successo sul G
asherbrum II, ha ceduto al fascino terribile della parete Rakhiot del Nanga Parbat: il monumento di Hermann Buhl, che da lassù scese trasformato in leggenda, e l'Omega di Karl Unterkircher, che lassù resterà per sempre.

Da INTOtheROCKS di giovedì 17 luglio 2008, per gentile concessione di ANTERSASS, Casa Editrice. 

 

 

«Sono sdraiato nella mia tenda cercando di continuare a leggere.
Ma non riesco a concentrarmi: la mia mente è fissata su quella parete, su quello stramaledetto seracco.
Un mese fa, arrivati al campo base, la parete Rakhiot mi ha fatto paura.
Dal basso mi è parsa subito ostica, tanto da lasciarmi perplesso e scettico per tutto il periodo che abbiamo passato qui.
Sarà una scalata pericolosa: affronteremo la montagna come degli assaltatori di prima fila in guerra.
Al posto delle armi avremo piccozze e ramponi. Dovremo restare attentissimi, scegliere la linea meno rischiosa.
Ormai da una settimana teniamo d'occhio la seraccata per registrare ogni minimo cambiamento.
Quella fascia di seracchi è l'enigma della salita, che potrebbe compromettere il successo.
Nonostante il pericolo evidente siamo motivati e convinti.
Nella mia mente, tuttavia, la responsabilità mi procura ansia: penso frequentemente a casa, ai miei cari.
La cosa migliore sarebbe rinunciare al progetto.
Qualche giorno prima di partire per questa spedizione, uscendo da un bar, sono inciampato in un vaso sul bordo della strada.
Sono caduto, sbattendo il ginocchio sull'asfalto e procurandomi un dolore allucinante. Mi sono rialzato e zoppicavo.
Se in quell'istante fosse passata un'automobile, mi avrebbe sicuramente investito.
Il destino ha voluto che non mi succedesse nulla e adesso sono qui, ai piedi della parete Rakhiot.
Finora tutto è andato come da programma: ci tiriamo forse indietro adesso? Inshallah!».

Karl Unterkircher, dal campo base del Nanga Parbat, 13 luglio 2008

Essere fatalisti aiuta ad affrontare con freddezza i rischi dell'attività alpinistica, conoscere i pericoli della montagna e delle ascensioni stimola la prudenza ed affina i sensi, ma non consente di annullarne completamente i pericoli.

A noi piace concludere ricordando le parole di Lionel Terray in chiusura del suo libro "I conquistatori dell'inutile".


< Se veramente nessuna pietra, nessun seracco, nessun crepaccio sta attendendomi da qualche parte del mondo per fermare la mia corsa, verrà il giorno in cui, vecchio e stanco, saprò trovare la pace tra gli animali ed i fiori.

Il cerchio si chiuderà ed io diventerò il semplice pastore che sognavo di diventare da bambino. >