SPIGOLATURE. 23/02/2011 -
Dal bollettino della SAT, un
bell'articolo sull'alpinismo firmato da Palma Baldo
In occasione dell’incontro "La SOSAT nel
futuro – Quale domani delle Associazioni alpinistiche", organizzato
dalla SOSAT, a conclusione dei festeggiamenti per gli 85 anni di
fondazione della Sezione, tra i vari appassionati e competenti
contributi, ci ha colpito il lucido intervento di Palma Baldo. Sentire
parlare, oggi, di alpinismo, della sua etica e del suo futuro con la
competenza, la profondità e, se permettete, la dolcezza di Palma, non è,
attualmente, cosa facile.
(NdR: SOSAT - Sezione Operaia Società
Alpinisti Tridentini).
[Nel 1979
Palma Baldo, assieme a suo marito
Giovanni Groaz e a
Franco Perlotto compie la prima ripetizione femminile
Italiana del Nose collocandosi tra le prime donne in assoluto a scalare
questa parete. Giovanni racconta che in quella salita trovarono molto
ghiaccio nelle fessure e molta neve sui pianori sommitali di El Cap, che
li costrinse a fare il terzo bivacco lungo il sentiero di discesa.]
Il mio intervento sarà la descrizione in
modo succinto e approssimativo della metamorfosi che ha subito
l’alpinismo in genere, lasciandomi sfuggire qualche giudizio di valore.
La mia sarà in buona parte una testimonianza, perché sono entrata nel
mondo dell’alpinismo 37 anni orsono e spero di rimanerci gioiosamente
ancora per un bel po’.
Quello che sto per dirvi, dunque, sarà una lettura personale di fatti,
fenomeni e sensazioni, vissute tanto con la mente quanto con il cuore,
con l’aggiunta di brevi riflessioni e qualche interpretazione.
Il mio approccio con la montagna avvenne senza una motivazione ben
precisa: ricordo ancora il momento in cui cercai sull’elenco telefonico
l’indirizzo della SAT e subito corsi ad iscrivermi.
All’epoca avevo 17 anni, era primavera, e
quell’anno frequentai tutte le gite in programma.
Della montagna non avevo alcuna conoscenza ma ben presto imparai: ero la
più giovane e diventai la mascotte dei più esperti: li seguivo,
ascoltavo le loro valutazioni sul tempo, imparavo a camminare sui
sentieri, a conoscere i pericoli della montagna, a dosare la fatica, ad
apprendere i miei limiti, a cosa mettere nello zaino, a valutare
l’abbigliamento più idoneo.
Del bagaglio di conoscenze facevano parte il corretto comportamento nei
rifugi, il rispetto dell’ambiente, l’ossequio verso gli esperti, la
giusta considerazione dei valori e dell’etica della montagna.
A ragion veduta la SAT ha rappresentato
per me un’alta scuola di educazione alla montagna.
Fu così che la primavera successiva mi iscrissi al corso di roccia e
l’inizio fu disastroso: ben altre difficoltà si presentavano, ma
nonostante le umiliazioni impartite da qualche istruttore, continuai
imperterrita e, grazie alla disponibilità di cari amici esperti
alpinisti, cominciai a frequentare i luoghi tradizionali e a percorrere
le classiche scalate dell’epoca: in primavera sulle pareti della
Paganella, in estate sulle torri delle Dolomiti, nei gruppi di Brenta,
delle Pale di San Martino, per concludere la stagione, in autunno,
nuovamente in Paganella. Cominciavo a muovermi bene sulla roccia e
trovai, non senza difficoltà, nuovi compagni.
Si sa, i figli crescono e seguono la loro strada, i nuovi compagni, i
sogni e la voglia di percorrere le salite raccontate dagli alpinisti
famosi durante le serate alpinistiche presso la SOSAT e la SAT, le cime
descritte con fascinosi racconti dalle monografie alpinistiche e dai
vecchi libri di montagna, la gioia di riuscire ad arrampicare lungo
itinerari difficili, sempre più difficili.
Così, stiamo parlando degli anni ‘70, iniziai a guardare oltre, a
spostare più in alto i miei limiti, e così proponevo ai miei compagni
salite progressivamente più impegnative.
Dicevo delle serate alpinistiche: nel periodo in cui frequentavo la SAT
ed il Festival della montagna di Trento, ebbi modo di ammirare
diapositive e filmati che ricordo ancora oggi, grazie ai quali ebbi lo
spunto di scoprire l’alta montagna, il Monte Bianco, il Cervino, il
Delfinato, le montagne della Yosemite Valley in California.
Così avvenne l’incontro con altre montagne ed altri modi di affrontarla,
con differenti visioni dell’alpinismo, con altre culture.
Ebbi la fortuna di fare cordata fissa con un giovane alpinista che
successivamente è diventato compagno della mia vita: i suoi sogni erano
ancora più grandi e la sua sete di conoscere ed esplorare zone lontane
era inappagabile.
Fu così che iniziò una lunga avventura,
che prosegue ancora oggi.
Era il ‘75, la società già da qualche anno era scossa dal vento furioso
della contestazione studentesca, ma l’alpinismo sembrava non risentirne;
in realtà sotto il fuoco della passione covava la voglia di conoscere da
vicino la zona eletta dagli scalatori hippy californiani: la Yosemite
Valley.
Per me, trentina doc, non avvezza a lunghi viaggi, è stata una finestra
che si è aperta, davvero un nuovo mondo: una maniera diversa di
affrontare la montagna, una nuova cultura a cui si poteva attingere per
affrontare con spirito nuovo nuove esperienze alpinistiche.
Cominciò così una metamorfosi dell’alpinismo: la meta si sdoppia; la
difficoltà tecnica, il superamento del passaggio, l’estetica del
movimento, si affiancano al raggiungimento della vetta. La salita può
durare giorni e giorni, in parete si portano sacconi di materiale, acqua
e viveri, che si ricuperano con corde supplementari. Serve un
allenamento specifico, la parete va lasciata pulita, compaiono gli
Hexentrics (dadi metallici da incastrare nelle fessure) che si tolgono
dopo l’uso, e soprattutto si utilizzano esclusivamente le “scarpette” a
suola morbida, mentre fino ad allora venivano utilizzati sempre gli
scarponi.
L’impiego dell’attrezzatura tecnica per la progressione in parete deve
danneggiare la roccia il meno possibile, si sfruttano anche le più
piccole asperità della roccia e per soddisfare questa esigenza i
climbers californiani inventano i ganci, le teste di rame, i rurp.
L’esperienza vissuta anche da altri amici trentini rivoluziona
l’ambiente alpinistico portando alla valorizzazione della nostra
meravigliosa Valle del Sarca, ma, soprattutto, scuote le passioni: il
mondo alpinistico si muove e l’arrampicata è travolta dal nuovo
tecnicismo.
Gli scarponi, le “braghe alla zuava” si buttano via: è il tempo di
scarpe da ginnastica e Jeans, di corde, moschettoni e imbragature sempre
più leggeri e funzionali. Sembra il raggiungimento di una nuova libertà.
Ma non è così: le alte pareti vengono un po’ alla volta abbandonate e
trionfano le palestre di roccia: l’alpinismo eroico, con le tante
lacrime versate per i cari amici scomparsi e anche con le sue ipocrisie,
progressivamente si muta!
A suggellare il definitivo cambiamento, nascono le gare di arrampicata
sportiva.
Si comincia a classificare l’alpinismo, a trapanare di qua e
di là le pareti di bassa quota.
Gli arrampicatori diventano atleti, ed
anche loro, come in altri sport, possono mostrare muscoli, attrezzi ed
abbigliamento sponsorizzati, e le loro grandi qualità atletiche al mondo
intero attraverso i media che seguono le competizioni con tifo da
stadio!
E’ la completa dissacrazione della montagna e dei sui più alti
ideali, di sogni che si frantumano e nel contempo l’inizio di una
escalation di ipocrisie ancora più grandi, di risultati a tutti i costi,
di campioni e record, spesso artificiosi.
Le palestre di roccia e di ghiaccio al giorno d’oggi non sono più
sufficienti: il palcoscenico torna ad essere la montagna e allora
avanti, non più arrampicate in serenità, soste sulle vette a guardare
l’orizzonte, ad ascoltare il silenzio, a seguire il volo degli uccelli,
a gioire del luogo.
Ciò che non produce nulla di utile, che non crea campioni, che non porta
ad alcun record, non viene pubblicato dalle riviste specializzate, il
lettore non ha tempo per le emozioni che non siano determinate da
risultati sportivi, vuole avere come modelli uomini e donne di successo.
L’era dei concatenamenti, dei dislivelli, dei “no limits”, un tempo
riservata a pochi “pazzi”, ora si va estendendo, in qualche caso con
poca chiarezza. Per tentare di eliminare i rischi dell’alpinismo, non
c’è remora all’utilizzo spinto degli spit: si fa finta di negare il
pericolo perché non si accetta più l’idea della morte. Si vuole forse
una legge 626 anche in arrampicata, anche in montagna?
Un giorno sarà così, ma si continuerà a morire in montagna.
Anche le condizioni atmosferiche si vorrebbe fossero sempre più
presenti, assieme ai telefoni satellitari, ai personal-computer anche
durante le spedizioni, anche ad alta quota, per essere sempre collegati,
tramite internet, ai lettori, agli sponsor.
La tecnologia si sostituisce al cervello e
allo sguardo verso il cielo, all’interpretazione delle nuvole, così
belle sia con il bel tempo, sia quando annunciano la tempesta in arrivo:
ed io che ho “perso” così tanto tempo a fantasticare su nubi a
pecorelle, cirri, nuvole a pesce, rosso di sera, rosso al mattino…
All’inizio vi dicevo dei miei sogni alpinistici alla lettura delle guide
alpinistiche:
probabilmente sarà in atto una crisi del settore, perché internet
soddisfa un buon numero di informazioni alpinistiche, anche se in modo
molto superficiale, ma questo è quel che basta al giorno d’oggi!
Una volta si firmava il libro di vetta o si scriveva qualche commento
sul libro del rifugio, ora i campioni fremono per dare notizie di record
su internet e riviste.
E questo accade in ogni settore dell’alpinismo, prendiamo lo
scialpinismo: quale gara contro il tempo può sostituire l’emozione che
si prova dinanzi allo spettacolo della nascita di un nuovo giorno in
alta montagna?
La gioia che trasmette l’armonia della traccia che, come fa un artista,
si imprime su di un bianco pendio?
Il senso di libertà e la quiete che
assapori sulla vetta guardando lontano, lontano?
Oppure prendendo in
esame le salite su ghiaccio: spesso non sono una forzatura da suicidio
appendersi a delle esilissime candele che pendono nel vuoto, tanto che
sembra che la sola forza del vento le possa spezzare?
Eppure la salita
su cascata di ghiaccio offre a chi l’affronta coscientemente la
possibilità di esprimere al meglio la sua creatività.
La via di salita
si modifica di giorno in giorno influenzata dalle piccole variabili
atmosferiche, ed è questa l’attrattiva: la valorizzazione dell’effimero.
Queste sono le riflessioni sul mio alpinismo, si badi bene, perché
esistono tanti alpinismi quanti sono gli alpinisti che lo praticano.
Sono anche riflessioni fatte da un testimone particolare: donna e madre,
un testimone il cui alpinismo, negli anni giovanili, è stato lavato
dalle lacrime per la perdita in montagna di tanti amici, spesso nelle
arrampicate solitarie allora di moda, che è stato ferito dalle
vicissitudini della vita, ma che è sempre risorto dalle ceneri grazie
alla gioia ricevuta dalla montagna in generale e dall’alpinismo in
particolare, dalla serenità tratta alla fine di ogni salita.
Al mio alpinismo, per utilizzare un concetto del filosofo francese
Bergson, credo di avere saputo aggiungere un “supplemento d’anima”.
La domanda di oggi è: "Quali sono le impressioni, oggi, sull’alpinismo
tra passato e futuro?"
Io, dopo aver portato la mia testimonianza, posso pensare a come
progredirà il cammino dell’alpinismo.
Sicuramente crescerà ancora di più una superspecializzazione delle
specialità:
• in arrampicata in falesia ci saranno super atleti dall’8a in su, e
l’arrampicata verrà ammessa alle Olimpiadi;
• ci saranno specialisti di imprese himalayane: i 14 ottomila sono
diventati troppo pochi, ed infatti cercando bene ne sono saltati fuori
parecchi altri, nel senso che le sommità secondarie e le anticime dei
massicci dei tradizionali 8000 sono divenute vette indipendenti, ed
ovviamente da collezionare: chi sarà il primo a salirli tutti?
• Specialisti in dry-tooling arriveranno a stravolgere la disciplina:
hanno già cominciato a fare gare senza il ghiaccio, a quando la salita
di pareti di sola roccia alte centinaia di metri con piccozze e ramponi?
A quando, che so, la prima con le picche delle nord delle Lavaredo?
Poi, la tendenza alla chiodatura sicura
invaderà le pareti classiche di spit e di chiodi resinati, cosa che
piano, piano sta già avvenendo.
Queste trapanature dilaganti per fissare i moderni chiodi a pressione
rimangono una ferita che continua a sanguinare, ma in futuro verranno
sicuramente introdotte leggi che ne limiteranno l’uso, e dovranno essere
rispettate, a pena di sanzioni.
Sicuramente un giorno verranno
introdotte varie leggi che coinvolgeranno l’alpinismo.
Nei parchi nazionali americani, già da alcuni anni ho potuto
personalmente constatare che sono state introdotte rigide norme per
l’arrampicata.
Ad esempio, in California, nel parco di Joshua Tree, è assolutamente
vietato piantare nuovi spit o chiodi, e quelli vecchi vengono sostituiti
con esemplari mimetici. Ancora in California, nel parco di Yosemite è
assolutamente vietato, pena l’arresto, utilizzare il trapano a batteria
o a motore per piantare spit: è evidente che è un deterrente, perché
attrezzare a mano una parete di 1000 metri di durissimo granito è
un’impresa faticosissima.
Ultimamente è anche obbligatorio un contenitore stagno per le feci, per
chi sta più giorni in parete.
In caso di soccorso, chi non dimostra
adeguata preparazione e corretto equipaggiamento paga tutti i costi.
Un altro esempio di regole di rispetto ambientale l’ho sperimentato la
scorsa stagione in Canada, nella British Columbia, un paese con spazi
immensi, con territori per lo più disabitati, dove vige la regola che
chi abbandona rifiuti di qualsiasi genere viene punito con una sanzione
di 2000 dollari.
La mia sorpresa più grande la ebbi quando affrontai l’avventura in un
gruppo
montuoso ai confini con lo Stato dell’Alberta, vero gioiello
incontaminato di ghiacciai che scendono fino a 1600 metri, e picchi
aguzzi di un bel granito grigio. Lì ho avuto modo di effettuare un tuffo
nel futuro, ed in effetti credo che quello sia un esempio di avvenire
possibile per le nostre povere Alpi, e vi spiego perché.
Il gruppo dei Bugaboos, non coperto dal servizio telefonico cellulare e
dove è proibito il sorvolo turistico, è unito al resto del mondo da
un’unica strada sterrata di 50 km. In tutta l’area c’è solo un bivacco-
rifugio non custodito a 3 ore di cammino dal parcheggio dei fuoristrada,
i cui posti sono sottoposti a prenotazione e dove è necessario avere il
proprio sacco a pelo ed i propri viveri.
Per fare il maggior numero di arrampicate, però, si deve utilizzare la
tenda nei pochi punti consentiti, veri nidi d’aquila di nuda roccia
talvolta molto lontani dal bivacco. Non ci si può fermare più di una
settimana, e non più di 2 settimane all’anno; si paga una somma
giornaliera per l’utilizzo del posto tenda, che viene riscossa
quotidianamente da un volontario del Club alpino canadese, previo il
rilascio delle generalità.
L’unico sentiero che passando dal bivacco raggiunge il campo alto che
avevo come meta, era pulito, nessun segno di passaggio a cui siamo
purtroppo abituati in molte parti delle nostre Alpi.
Nel “campo” vigono poche, ferree regole:
1) è d’obbligo utilizzare il gabinetto presente, provvisto di carta
igienica e acqua di fusione, i cui reflui sono convogliati in capaci
contenitori che vengono periodicamente portati a valle con un
elicottero;
2) è vietato piazzare la tenda sull’erba;
3) non ci si può lavare nei corsi d’acqua;
4) non si possono accendere fuochi che non siano quelli dei fornellini a
gas;
5) i viveri vanno appesi ad apposite rastrelliere per non indurre in
tentazione i roditori;
6) non si lasciano immondizie, né si possono bruciare;
In altri punti strategici di maggior frequenza del gruppo montuoso, sono
stati costruiti altri piccoli gabinetti per evitare che ci siano in giro
le solite, disgustose tracce che purtroppo conosciamo.
Vorrei concludere con l’esempio di questa recente avventura alpinistica,
sicuramente per me una delle più belle, sia per il fascino dei luoghi,
sia per le magnifiche arrampicate, ma soprattutto per lo spirito vissuto
al campo alto: un ritrovare il vero silenzio, il guardare il brillare
delle stelle, l’osservare e interpretare ogni piccola variazione del
tempo, il fare amicizia con alpinisti animati da uno spirito che si
riteneva non esistesse più.
Ed infine, per aver portato a casa il sogno che con regole etiche e di
convivenza si può veramente ritrovare la gioia, quasi un inno alla vita
nell’avventura che chiamiamo alpinismo.
[ Dal BOLLETTINO SAT (SOCIETÀ ALPINISTI TRIDENTINI) - ANNO LXX - N. 1 -
2007 - I TRIMESTRE ]
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