a "Incontro con Lucio Calderone, il “galantuomo”

 

di Giacomo Bazzini

 

 

Mi permetto di aggiungere un mio piccolo tassello relativo alla bella intervista effettuata da Gabriele Villa a Lucio Calderone recentemente pubblicata.

Ho conosciuto Lucio (credo non si offenda, per noi tutti è “il Lucio”) solo da pochi anni, e ricordo ancora la prima volta che lo vidi allorché, fresco iscritto ad un corso di escursionismo, incrociai il gruppo del corso di alpinismo, per me allora mitico e … inarrivabile, guidato da una figura severa, quasi burbera, che, senz’altro per il carisma e fors’anche per l’aspetto barbuto, incuteva un certo rispetto, per non dire timore.

In questi pochissimi anni ho avuto modo di frequentarlo, abbastanza per conoscerlo un po’ e per apprezzarlo, fino ad avere l’onore di bivaccare con lui ad un corso ghiaccio del CAI di Piacenza (proprio quello dove è iniziata l’intervista).

 



Lucio ha sempre cercato di inculcare in noi allievi, in tutti questi anni di corsi, gli aspetti tecnici (e quindi nodi, manovre, ecc.), ma giustamente ci ossessiona con la “sicurezza” dell’andar per monti, limitando magari gli entusiasmi suscitati dai nostri primi piccoli successi… resta negli occhi di alcuni di noi una delle sue famose “piccozzate” a chi gli chiedeva baldanzosamente in sosta a braccia alzate con quale dei due moschettoni che teneva nelle mani dovesse auto-assicurarsi!


Credo non gli dispiacerebbe essere paragonato ad un seminatore, come sono tutti i maestri: fra le curiosità che ci ha suscitato ricordo una tiepida serata di luglio, sempre sul pianoro del Ventina, mentre le cime circostanti iniziavano già a rosseggiare, nella quale era intento ad illustrarci la manovra in corda doppia… in un certo momento di pausa ci ha additato un valico lontano, che chiudeva la valle prospiciente: era il Passo del Muretto e Lucio ha colto l’occasione per parlarci in breve di Ettore Castiglioni.

 

Da allora questa figura mi ha affascinato e sto divorando tutto quanto trovo su di lui (Diari, il volume di Marco Ferrari, ecc.) e mi piace paragonare il nostro Lucio a lui, quando dice “l’infinito è ben più vasto di quanto si possa stringere nel proprio piccolo pugno, la Natura, che abbiamo creduto di poter assoggettare, ci sommerge indifferente, come una pagliuzza sull’onda dell’oceano. Solo così, in uno stato di annientamento totale, abbandonati inerti nell’immensità del creato, solo così possiamo vivere di illusioni, ed elevarci almeno un istante verso una sfera più alta …”

 

oppure “… non è il sentimento di lotta e di conquista che mi sospinge, ma un sentimento di amore verso la montagna. Non ho desiderio di conquistarla, ma desiderio di conoscerla metro per metro in ogni suo segreto, per più poterla amare…”

 

o ancora “… la mèta, la conquista per me non sono proprio più nulla; il senso dell’alpinismo si risolve tutto nell’atto di comunione e di amore con la montagna e con il compagno di cordata…”

 

e infine “… l’alpinismo non è dramma, è serenità; non è conquista della montagna, né lotta tra l’uomo e la Natura; è tutt’al più conquista di se stessi.


Dove invece Lucio è del tutto differente è nel suo privilegiare non la frequentazione della montagna in solitaria, ma il rapporto umano con i compagni di salita, non il "dove" ma il "con chi".

 

Quante volte l’abbiamo sentito confidare che la cosa più importante dev’essere instaurare e consolidare tali amicizie prima ancora dell’arrivare in vetta … e questo spero umilmente contribuisca a fornire una pennellata in più all’avvincente ritratto che ha dipinto Gabriele.