A Vetan, si può dire NO

di Alessandra Panvini Rosati


Bighellonavo in quel di Vetan, 1700 metri di splendore, in Val d’Aosta poco sopra Saint Nicolas.
Era un luglio fiacco, non avevo gran voglia di affrontare salite impegnative né dal punto di vista fisico né da quello mentale. Mi accontentavo di fare le pulizie di primavera tra i miei neuroni.
Vetan era – spero sia ancora - un luogo particolare dove, oltre a un grosso albergo in pietra costruito con anni di lavoro dal proprietario, artigiano e scultore, poi condotto dai figli, c’era poco o niente.
L’albergo si trovava (si trova) in fondo al villaggio, alla fine della grande conca, dove termina la strada.
Ricordo la sala per la lettura, silenziosa e spesso deserta.
Là incontrai la scrittrice Lalla Romano; credo la persona più famosa mai transitata da quelle parti e grande amante della Val d’Aosta e di Vetan, dove si rifugiava per meditare, contemplare e scrivere nei suoi ultimi anni di vita.
Lalla Romano scrisse di questi luoghi nel libro "Nei mari estremi".
Qualche baita, qualche alpeggio, sparuti chalet per turisti, un agriturismo, una piccola chiesetta bianca, punto.
Se si può fare a meno delle “vasche” di “Courma”, Vetan regala il suo balcone naturale e gratuito sul gruppo dell‘Emilius, del Gran Paradiso e del Rutor.
D’inverno è meta di skialper per il Mont Fallere (3.601 metri) e di qualche fondista di poche pretese e poco fiato (misero anello di quattro chilometri).
D’estate si può sempre salire al Fallere; c’è poco da fare dal punto di vista alpinistico ma a volte l’inattività forzata regala sorprese.

Camminavo quindi sulla strada sterrata che dall’albergo porta su verso alcune malghe, strada comoda e di poca pendenza. Insomma, una passeggiatina che davvero non faceva curriculum.
Era mattino presto e l’erba ancora bagnava gli scarponi.
Dopo circa un’ora di cammino tranquillo, arrivai all’alpeggio più grosso della vallata e lo superai di qualche centinaio di metri per poi sedermi sul bordo della carrareccia, in ombra, su di un grosso masso che pareva essere stato messo lì apposta per me.
Desideravo scattare delle foto alle mucche, di pura razza Pezzata Rossa Valdostana.
Animali armonici e nel complesso di statura piccola, con il mantello pezzato di un intenso rosso carico che ricorda il colore della terra grassa e sana.
La testa è bianca con il musello di un rosa delicato, le corna corte e gialle.
Bestie tranquille, belle come solo gli animali mansueti possono essere.

Mi ritrovai di colpo bambina, in tutt’altra zona montana.
A Schignano (CO), dove mia madre aveva affittato un appartamento in una bella casa con giardino per farci stare – me, mio fratello e la nonna – nel periodo estivo, mentre lei lavorava in città.
Mi divertivo in quella casa; ricordi molto sbiaditi nella cataratta degli anni che passavano.
Solo quelli legati alle mucche (in quel caso Brune Alpine) divennero vividi e precisi come se il tempo si fosse riavvolto sul vecchio nastro di una musicassetta.

    “La memoria è lo specchio in cui noi rivediamo gli assenti"
                                                              
scrisse J. Joubert

Rivedevo il contadino, proprietario del terreno circostante la casa, che avvisava mia nonna di non lasciare aperto il cancello, pena il vedersi l’invasione delle sue vacche che, curiose, non avrebbero disdegnato di venirci a trovare.
Ascoltavo mia nonna che rassicurava il contadino: nessuno avrebbe aperto il cancello!
Ma figuriamoci!
C’erano i bambini, i panni stesi e il nostro gatto Dom Perignon che, trasportato suo malgrado da una terrazza di Milano alla vera vita agreste, era ancora alquanto perplesso sul come gestire la cosa!
Già, ma rivedevo anche me stessa: una bimbetta di quattro anni che sta mangiando un enorme panino imbottito di formaggino MIO (per la cronaca, buonissimo…) e che, non appena lasciata sola, spalanca appositamente (ci tengo a precisare) il cancello e invita le Brune Alpine a fare merenda con lei.
Alcune non degnano la bimbetta di uno sguardo, ma altre tre (le più simpatiche) invece SI.
Le vacche entrano nel giardino, la bimbetta offre il suo panino un po’ a ciascuna e sente per la prima volta sulla sua mano le lingue umide e rugose delle mucche, con quell’odore particolare che sa di latte, di erba, di formaggio in divenire, di cose belle e in quel caso anche di formaggino MIO!
E quei muselli (che la bimbetta chiama volgarmente nasi) così grossi e allettanti, che sembrano plasmati di pongo umido!
Risultato:
- il gatto è scappato,
- il giardino è stato sconvolto da deiezioni enormi,
- la nonna ha esclamato in milanese: “Uh Signur! El savevi!”,
- il contadino ha dovuto riprendersi le mucche e non ne era particolarmente contento.
L’unica sorridente ero io, felice con le mie mucche e le piccole mani ormai appiccicose delle loro salive.

Seduta sul masso di Vetan, ritornavo a quel primo incontro ravvicinato con le Brune Alpine e mi chiedevo il motivo magari inconscio della mia attrazione per loro; la domanda non ha mai avuto una risposta logica, considerando anche il non essere assolutamente vegetariana.
Scattavo foto, in particolare a due vitelline molto vivaci: si fermavano per un paio di minuti a guardare verso un loro orizzonte interiore, per poi saltare ritmicamente come a voler inscenare una lotta tra loro.
In effetti, è valdostana la tradizione della Bataille des Reines!
Trascorso forse un quarto d’ora, vidi uscire un pastore dalla malga; un uomo già in là con gli anni, con arti corti e visibilmente ancora forti.
Mi vide, ferma sul masso con la macchina fotografica in mano, mi salutò alzando un braccio.
Ricambiai il saluto come gesto di cortesia con la speranza che il mio sorriso introducesse una conversazione tra noi; ottimo fischio d’inizio per coinvolgermi con le Pezzate almeno per un po’.
La bambina di quattro anni era lì.
In effetti, andò proprio così.
Ci mettemmo a parlare e iniziai un interrogatorio in piena regola sull’alpeggio, sulla razza, sulla mungitura.

Antonio si presentò e fu entusiasta di avere qualcuno con cui scambiare qualche parola, qualcuno di umano, per intenderci, che gli tenesse compagnia.
Disse che aveva tempo; la prima mungitura era già stata fatta, le bestie ora stavano tranquille al pascolo e lui doveva solo ripulire la stalla, lavoro che si fa meglio quando le mucche sono altrove!
M’invitò a seguirlo ed io mi offrii di dargli una mano.
Mi guardò titubante perché, mi confidò, era abituato a vedere passare turisti con bambini che fotografavano lui e le bestie… ma che mai avrebbero toccato né lui né loro per paura di sporcarsi o di puzzare.
Gli spiegai che puzzavo già di mio e che non sarebbe stata un po’ di cacca a peggiorare la situazione!
Rise di gusto.
Aveva gli occhi tristi.
Volevo scoprire il perché.

Mi mostrò la stalla, grande e spaziosa, gli strumenti per la mungitura, i contenitori per il latte che ogni giorno, due volte al giorno, doveva riempire e trasportare a bordo strada dove sarebbero stati recuperati dal garzone della Cooperativa Sociale.
La mucca va munta due volte al giorno, con un intervallo di dodici ore, la parte più impegnativa è la preparazione e la pulizia delle mammelle, per evitare mastiti.
Poi, naturalmente, c’è la parte più banalmente faticosa di gestione della stalla e del non avere mai un giorno libero.
Affascinata dalla filosofia più che dalla pratica, gli esposi la mia consapevolezza su cosa realmente ci sia anche dietro ad un banale bicchiere di latte…
Mi propose di tornare dopo le sedici, ora in cui avrebbe rimandato la piccola mandria al coperto, per assistere alla mungitura serale.
Lo ringraziai dell’invito che accettai; me ne tornai sui miei passi per proseguire con la mia escursione.
Alle sedici in punto mi presentai alla stalla dopo essere scesa in auto fino a Saint Pierre per comprare una scatola di cioccolatini da portare ad Antonio.

Mi mostrò la malga, il resto della stalla, gli spazi dove viveva e dormiva.
Era davvero una situazione molto spartana, per usare un eufemismo.
Chiudo gli occhi e rivedo: un appendiabiti malfermo, un letto con materasso che aveva visto poche lenzuola, una cucina a gas a due fuochi, un tavolo di ferro, quattro piatti e due pentole, tre bicchieri di cui uno palesemente incrinato, una piccola credenza con del pane, delle mele, del formaggio e due confezioni di pasta.
Appesi alla porta, che ci separava dalle bestie, uno specchietto, un sacchettino contenente del sapone di Marsiglia e un rasoio.
Ancora: due sedie, una stufa a legna, un paio di stivali di gomma verde, un armadietto senza ante che ospitava una giacca a vento di colore ormai indefinito, una camicia logora e un vecchio maglione fatto a mano.
Come definire tutto ciò?
Povertà.
I miei cioccolatini stonavano, come una pernacchia durante il Minuetto di Boccherini.
Non avevo mai visto nessuno, prima, vivere in condizioni così misere.

Mentre le mucche venivano munte (artificialmente), Antonio mi offrì un caffè e naturalmente un bicchiere del latte ancora caldo.
M’invitò a cena, accettai.
Avevo capito che gli occhi tristi celavano qualcosa, un qualcosa che il pastore aveva bisogno di raccontare.
Quell’uomo aveva una dignità incredibile.
Mi fece sedere pulendomi la sedia, ogni volta che mi porgeva un bicchiere o un piatto si premuniva di controllare che fosse pulito.
Mise la pentola sul fuoco scusandosi per avere in “casa” solo della pasta e del formaggio e del dover cenare presto; per lui la sveglia suonava ogni giorno alle quattro.
Mentre attendevamo che l’acqua bollisse, io diedi una mano accendendo il fuoco nella stufa (nonostante si fosse in estate, in quel luogo fuori dal tempo c’era umido e freddo).

Presi il coraggio e gli chiesi da dove venisse, avevo percepito un accento del Sud, se fosse solo o avesse famiglia, da qualche parte.
Mi raccontò che era calabrese; proveniva da un paese caldo e brullo del tutto opposto alle fredde vallate valdostane.
Aveva lavorato per tutta la sua vita (aveva allora 65 anni) come muratore e piccolo imprenditore edile, senza avere mai visto una mucca o i ghiacciai perenni della Val d’Aosta.
Vedovo, due figlie già grandi e sposate, emigrate dal paese.

Iniziammo a mangiare la pasta.
Proseguì spiegando che si era auto esiliato dopo l’ennesima richiesta di un pizzo da parte della ‘ndrangheta locale. Pizzo che non voleva pagare, rifiutando tradizioni malavitose troppo consolidate nel territorio.
Aveva chiesto aiuto alle cosiddette Autorità, anni addietro, col solo risultato di vedere il pesce più piccolo farsi sei mesi di galera mentre lui avrebbe avuto la vita rovinata per sempre.
Gli attrezzi da lavoro rubati, l’auto bruciata, il cane bastonato, minacce di morte come se piovesse.
La ‘ndrangheta gliel’aveva giurata e lui per orgoglio se ne andò via, con la malinconia per la sua terra ma non per la sua gente.
Mi disse, guardandomi negli occhi, che se fosse tornato sarebbe stato ucciso perché certa gente non dimentica un presunto torto subito e non riesce a vivere senza odiare qualcuno, certa gente vive della morte altrui.
Parole forti, che non avrei mai scordato.
Antonio aveva perso tutto, abbandonato tutto.
Era stato rimosso anche dai parenti che, per paura di ritorsioni trasversali, avevano scelto di considerarlo già cadavere. Lui non gliene faceva una colpa, capiva che a parole siamo tutti eroi ma nella realtà la maggioranza di noi si ridimensiona!

Era partito con uno zaino da Reggio Calabria, anni prima col treno del mattino diretto a Nord, per approdare come un migrante o come un pellegrino d’altri tempi a Vetan.
Conobbe il proprietario della mandria; uomo scorbutico, chiuso e di poche domande che gli propose di lavorare per lui in malga nei mesti estivi e d’inverno nella stalla a Saint Nicolas, dove le condizioni non erano meglio.
Senza contributi, senza diritti, senza busta paga: “Io non chiedo e tu non pretendi”.
Prendere o lasciare.
Prese.

Non aveva rapporti con le figlie per motivi di sicurezza; non vedeva mai nessuno se non qualche turista che passava per salire ai laghi del Fallere.
In inverno era ancora più dura, quando il buio viene presto e tutto si fa bianco e freddo.
Mi disse che c’erano notti in cui si sentiva come il Bambinello nella grotta, solo che nessuno andava da lui a portargli un dono.
Io ero rimasta senza parole, a volte è già qualcosa sapere ascoltare.
I miei cioccolatini stonavano sempre di più… o forse ero io a non sapere più quale fosse la nota giusta da suonare in una situazione così greve.
Si era fatto tardi per lui, me ne tornai in albergo.
Il giorno dopo gli portai un pezzo di carta con i miei dati e il mio numero di telefono anche se sapevo benissimo che lui non ne possedeva uno.
Gli dissi che sarei tornata a trovarlo presto, prima dell’inverno, che mi facesse sapere se gli fosse servita qualche cosa. Mi rispose che non aveva bisogno di niente ma che mi avrebbe aspettato.

Quell’inverno tornai davvero.
Sapevo di non trovarlo all’alpeggio alto ma che avrei dovuto rintracciarlo a Saint Nicolas e non mi ci volle molto.
Era affaticato e con la schiena a pezzi; gli avevo portato un maglione caldo e dei guanti.
Lui contraccambiò con una forma di formaggio.
Pranzammo insieme nella stalla che divideva con le Pezzate; solito menù di pasta, cacio, mele.
In quel luogo c’erano solo mucche, solitudine, emarginazione.
Antonio non legava con alcun abitante del villaggio ma non ho mai capito se fosse una scelta dettata dalla paura di dover rispondere a troppe domande o dal desiderio di non suscitare pena.
Mi fermai un paio di ore, cercando di trovare spunti di conversazione non facili.
Poi fu tempo di salutarci.
Un abbraccio e una stretta di mano non sarebbero bastati ma era tutto ciò che potei fare per lui.
Gli scrissi alcune cartoline, indirizzate al Parroco di Sant Nicolas che, poi, gliele recapitava.
Difficile era il trovare qualcosa da raccontare che non fosse grottesca, fuori luogo, inopportuna… cosa si può scrivere a una persona così?

Tornai l’anno dopo sempre in inverno, lo ritrovai sempre più malconcio.
Provai anche a trovargli un lavoro altrove, nella mia città, ma non ottenni niente.
Per un paio di anni mantenemmo i contatti.
Mi telefonava, dal bar del paese, rassicurandomi: stava bene, la mandria era in salute, a Vetan c’era il sole o nevicava, il Prete gli aveva regalato una stecca di sigarette, alcune forme di formaggio avevano preso muffa, i turisti stavano tornando…

Poi, com’è nell’ordine delle cose, i contatti si sono interrotti e non ho più avuto notizie di lui.
Antonio ormai sarà morto ed io non sono più tornata a Vetan.
Mi piace ricordare le sue mani nodose e forti che mi hanno offerto il bicchiere di latte più buono del mondo.
Risento quel suo accento così fuori posto.

Da allora, quando vedo una mandria al pascolo, per un momento provo una forte tristezza e ricordo un grande uomo che ha saputo dire NO, con dignità.

Alessandra Panvini Rosati
A Vetan, si può dire NO

Milano, estate 2014