Una storia dimenticata

di Giovanni Morelli



L’albero, un Larice plurisecolare, lo conoscevo bene, anche se non ci incontravamo spesso: forse ogni due o tre anni… Lui, infatti, se ne stava in quota, subito sotto uno sfasciume di rocce, ma fuori dai miei sentieri abituali.

D’inverno era dura arrivarci, perché non c’erano tracce.
Ma d’estate, sapendo per dove salire, lo si raggiungeva bene.
E ne valeva sempre la pena.

Uscendo dalla pecceta, oltre un prato e in cima a un dosso, te lo trovavi proprio davanti a stagliarsi contro l’azzurro del cielo, enorme e quasi deforme tanto era contorto. Più morto che vivo, come solo i Larici sanno essere.
Il suo corpo raccontava di una vita inconcepibilmente dura, di una sedentarietà passata a resistere.
Il vecchio fusto, in particolare, era segnato da una profonda cavità rivolta a sud, parzialmente occlusa dalla crescita dei tessuti circostanti, ancora vitali. Se passavi di là in autunno le spaccature che attraversavano il fusto quasi da parte a parte erano tutte inghirlandate dagli allegri carpofori di Laetiporus dei quali, con il vento giusto, si sentiva il profumo già a un chilometro di distanza. Sotto la sua corteccia poi, tra le radici o sulle branche mezze secche o spezzate era tutto un correre, un brulicare, uno scavare, un crescere animale, vegetale o fungino …
Da tempo non era più un albero, ma un luogo, un pianeta affollato di mille vite aggrappate le une alle altre in un universo ostile. Gli uomini, invece, ormai da tempo l’avevano dimenticato.

Come già altre volte, anche in quel caldo pomeriggio di giugno giunsi all’ultimo Abete del bosco, dove il terreno si faceva piano, ma sull’altura di fronte a me non c’era traccia del severo Larice: il cielo era sgombro.
Compresi subito cosa fosse accaduto; quell’ultimo inverno era stato fatale.
E così, salito fino al colmo del dosso, vidi ciò che rimaneva del vecchio albero.
Il colletto era come un’orbita vuota tra le rocce, circondata da una corona di schegge appuntite là dove alcune radici, facendo forza sui contrafforti, avevano tentato di trattenere ciò che non poteva più essere trattenuto.
La parte superiore dell’albero giaceva poco oltre, puntando a ovest sul versante opposto; qui le grandi reiterazioni basse tipiche del Larice avevano attutito la caduta, preservando parzialmente ciò che restava dell’asse principale.
Mi avvicinai per osservare meglio, cercando di anestetizzare lo sgomento e la delusione con l’interesse professionale. Talvolta gli alberi muoiono, talvolta cadono, si sa… Succede...

Fu allora che, scrutando in quella che era stata la cavità del fusto, vidi qualcosa di conficcato nelle profondità bruciacchiate del legno, qualcosa che si svelava dopo anni, finalmente libero dai tessuti vegetali che, anno dopo anno, l’avevano reso parte dell’albero, ne avevano fatto un segreto. Allungai le mani e, non senza fatica, estrassi ciò che rimaneva dell’ogiva di un proiettile di artiglieria della Prima Guerra Mondiale.
Ecco il responsabile della ferita che aveva segnato il vecchio tronco.

Il peso del metallo - metallo italiano, evidentemente, poiché lì al tempo della guerra c’erano le linee austriache - mi portò con la mente a oltre un secolo prima, quando al posto del bosco di Abeti c’era una selva di reticolati da trincea e, forse, il vecchio Larice si stagliava tutto solo sull’orizzonte dei campi di battaglia.
Chissà se quel colpo fu parte di un’azione offensiva combinata o se, forse, si trattò solo una scommessa tra anonimi artiglieri su chi fosse così bravo da centrare quell’albero solitario che pareva sfidarli da lontano; una bravata tra ragazzi, insomma. Chissà se qualcuno - altri ragazzi, ovviamente - restò ferito, oppure ucciso nell’esplosione: forse il Larice fu l’ultima cosa che videro; oppure fu proprio lui a salvarli, attutendo il colpo.
Chissà, infine, se qualcuno di quei ragazzi, dopo tanto patire, da quella dimenticata frontiera tornò mai a casa.
Una frontiera che oggi non esiste nemmeno più...
Poi per oltre un secolo qui ha regnato il silenzio.

Fino allo schianto nella bufera invernale, forse simile a quell’esplosione di tanti anni prima.
Adesso l’albero non c’è più, o forse sì …
Restano solo legni sbiancati sul ghiaione, ma altri giovani Larici stanno già crescendo; godranno della benedizione di quel tesoro in decomposizione.
La vita continua, sempre e comunque.
Resta anche l’ogiva del proiettile, quasi un dono della memoria a svelare la relazione tra alberi e uomini, a spiegare cosa veramente significhi “Albero monumentale”.
E, finalmente, su quel remoto dosso regna la pace.

Ciò che ho raccontato è accaduto un paio di anni fa.
Non sono più tornato dal vecchio Larice, ma conservo ancora il frammento di granata.
Dopo un po’ mi sono dimenticato di questi fatti, così come se ne dimenticarono molti altri uomini e così come, nella sua caparbietà vegetale, se ne dimenticò certamente anche l’albero.
Oggi però, in questo giorno di festa, ho pensato che tutto ciò non fosse giusto.
Ho pensato che, se io non avessi raccontato la storia tramandata dal vecchio Larice, anche questo labile filo della memoria, fortuitamente strappato all’oblio, sarebbe stato interrotto.
Invece dobbiamo ricordare sempre e dobbiamo raccontare tutto, perché solo così potremo giustificare il nostro esistere qui e ora, rendere omaggio a chi ci ha preceduto e a chi verrà dopo di noi.

E gli alberi, che sanno attraversare gli abissi del tempo, sono le pietre di inciampo della nostra storia, sia essa personale o collettiva: hanno diritto di narrare e di essere narrati.

Giovanni Morelli
Una storia dimenticata
San Martino di Castrozza, Natale 2021