Una tigre nella mente

di Monica Fortini

 

C’erano solamente due possibilità, quel giorno.
Immaginavo come poteva essersi trasformata la Cattedrale dall’ultima volta che l’avevo ammirata. Ma il pensiero correva più avanti, lungo il sentiero, e provavo ad immaginare Excalibur.
Un brivido mi saliva dallo stomaco e mi procurava un’emozione che ancora non comprendevo bene.
Due sole buone possibilità rimaste a Sottoguda, e due sole cordate: "Riky e Franz", "Mauri ed io".
La nostra ferraglia, i sacchi, le borse, le corde e i cordini, gli indumenti di emergenza e le provviste erano tutti sparsi sulla neve attorno allo Scudo di Mauri e sui sedili posteriori abbattuti.
I preparativi erano laboriosi ma abbastanza spediti. Non vi era una fretta particolare e questo rendeva la preparazione del nostro "kit d’arrampicata" più serena e senza rischi di dimenticare qualcosa o di sistemarla dalla parte sbagliata dell’imbrago. Era tutto sotto controllo. Come piace a me.
La prima cordata era già pronta a partire quando io dovevo ancora sistemare le ultime cose.
Notai, però, che nessuno aveva parlato di come "dividerci" le due cascate. Supposi che doveva essere una cosa come: "il territorio è marcato dai primi che arrivano!".
Mauri ed io siamo partiti pochi minuti dopo, in compagnia del solito momento di panico:
"Dove sono i miei guanti di lana? Li ho messi nello zaino?".
Di solito si tratta delle chiavi dello Scudo - detto dal gruppo cascatisti: "lo scudiello" -, ma questa volta il mio capo cordata mi stupiva con qualcosa d’altro. Senza aspettare un mio commento, si è girato ed è tornato alla macchina.
Mentre lo guardavo rovistare nel bagagliaio, ho avuto la bella idea di controllare cosa contenesse il "fagottone" che aveva infilato con forza in cima al mio zaino. I guanti erano lì dentro, infatti.
"E’ il solito Mauri!" pensai con un grande moto di affetto nei suoi confronti.
Superato l’attimo di crisi, ci siamo incamminati, parlando del più e del meno e, tra le parole, incominciavo già a concentrarmi e ad "impostarmi" per un’arrampicata impegnativa. Improvvisamente, subito dopo la curva, spuntarono i caschi degli altri due che stavano già allestendo la partenza sotto la Cattedrale.
"Allora noi facciamo Excalibur!" gridò forte MIce.
Inizialmente provai un po’ di dispiacere, perché avevo voglia di salire quella cascata, ma appena mi si presentò di fronte la nostra mi fermai un attimo ed il respiro si arrestò per un paio di secondi. Lunghi attimi di pura ammirazione: era l’unica cosa che riuscivo a fare di fronte alla bellezza con cui si esprimeva la montagna in quel momento.
Una colata verticale, una vera e propria "spada" appoggiata sulla roccia, che sembra un monito per chi passa:
"Attenti! Io posso essere presa solo da pochi e solo da chi voglio io!".
Avvertivo una specie di "aura" intorno a lei, che sembrava diventare sempre più marcata, tanto da incutere in me un forte senso di rispetto. Non osavo alzare gli occhi su di lei, non subito. 
La sua imponenza mi faceva sentire un "essere inferiore".
L’appendice di candele terminali, distaccata dalla roccia, pendeva sul torrente e terminava a 40-50 cm dall’acqua.
"Una partenza atletica" urlò MIce nel tentativo ben riuscito di attaccarla.
Ho sorriso ed ho osservato attentamente i suoi movimenti. Come spesso capita quando si guarda chi è molto bravo, per copiarne le mosse, constatai che, in fondo, non era poi così strana come sembrava quella partenza. Quando è stato il mio turno, però, ho compreso che il "passaggino" era delicato e che non avevo per niente voglia di annegare in 60 cm di acqua!

Ho assistito attentamente Mauri, aiutandolo per quanto mi fosse possibile e assicurandolo " a corpo", al di qua del torrente. Ogni tanto venivo distratta da qualche passante e dai turisti tedeschi che chiedevano se potevano fotografare. Mi sentivo quasi importante!
Penso che debba suscitare un certo effetto vedere delle persone attaccate ad una cascata come quella, soprattutto quando non si ha un’idea di che cosa significhi e che cosa comporti.
Mano a mano che Mauri saliva, superando le difficoltà del primo tiro, la mia concentrazione aumentava sempre di più, aiutata certamente dal silenzio che si era creato intorno: avevo la sensazione di essere rimasta sola, con MIce là sopra, con tutt’intorno il nulla.
Una volta arrivato in sosta, dopo pochi minuti, si è affacciato a guardare di sotto e, con le braccia alzate, ha urlato: "Vieni! E’ solo una questione di testa, ricordatelo!".
Lo fissavo, con le due mezze corde tese, che spanciavano sopra l’acqua, tra me e la parete.
Mi ripeté la frase più volte, finché gli feci un cenno rassicurante.
Infilai le "dragonne" ed impugnai le mie Machine diventate, oramai, il prolungamento delle mie mani. Tirai un profondo respiro rilassante, ripercorsi con gli occhi ancora una volta la via per fissarla nella memoria, ed infine appoggiai lo sguardo sull’attacco. Mi uscì un:
"Eccomi a te, signora! Sono pronta, cerchiamo di non deluderci a vicenda, ok?"
Mi sembrava di chiederle il permesso di salirla e, forse, a qualche probabile spettatore sarò sembrata una pazza visionaria. L’importante per me è sentire, comunque, la "voce del ghiaccio", come per intuire se tutto andrà bene. Se poi qualche volta mi scappa qualche frase a voce alta non mi ritengo, per questo, così "pikkiatella".
Attraversai il torrente sui sassi affioranti, piantai le becche negli unici due punti possibili, e scoprii "piacevolmente" che ero molto sbilanciata verso destra con il busto, rispetto all’appoggio dei piedi. L’attacco dava direttamente sulla pozza profonda e bisognava solo trovare il giusto equilibrio e la sicurezza nelle mie due "prolunghe".
Risuonarono nella mia testa le parole che poco prima erano volate dall’alto su di me:
"…è solo questione di testa…", e mi ricordai di un antico detto sherpa:
"la tigre della mente è più feroce della tigre della giungla".
Ho sentito la mia tigre, e tutto il resto non ha più avuto importanza: eravamo solo io ed Excalibur, che mi aveva aperto le braccia e si lasciava arrampicare dolcemente.
La grande quiete interiore e l’elevato stato di attenzione mi hanno permesso di superare il primo lungo tiro, 50 m di 90°, di ghiaccio molto bagnato.
Non avvertivo nessun tipo di disagio, nemmeno l’ombra dell’ansia, della sofferenza o dell’irrequietezza. 
Tutto filava liscio e ogni passo, aggiunto al precedente, mi sembrava una piccola vittoria.

Scorsi MIce quando oramai ero in prossimità dell’uscita del primo tiro: esultava per me, con le mani alzate in segno di vittoria. Una vittoria che, probabilmente, sentiva anche sua, per avermi passato "in eredità" molto del suo sapere in merito. Si faceva sentire di nuovo quel potente solletico allo stomaco, che accompagnò i pochi passi che restavano per uscire dal tiro.
Un abbraccio forte con MIce, per il senso di solidarietà e di soddisfazione che provavo e per ringraziare colui che è un grande maestro per me. Grazie Mauri!
Mentre mi stavo godendo pienamente quei fantastici attimi di pura felicità, mi preparavo ad assicurare il mio compagno sul secondo tiro.
"Parto!".
Iniziai a dargli corda e, mentre percepivo i suoi movimenti attraverso le mie mani, osservavo il terzo tiro che sembrava buono, ma l’esperienza accumulata fino ad ora mi ho insegnato a prendere le dovute distanze dai giudizi affrettati.
"Ci penserò quando sarà il momento!".
Il rumore di due pikke mi distolse da questi pensieri: alle mie spalle stava uscendo dal tiro un ragazzo. Lo salutai ma in risposta ottenni una specie di "grugnito".
Mi rigirai subito verso Mauri, intuendo che questo era davvero molto arrabbiato.
Dopo pochi istanti sentii una voce: "Non ne posso più! E’ la terza volta che mi faccio il tiro per lei! Voglio vedere se stavolta viene su!" Era sempre più nero ed io sempre più in imbarazzo per la crisi familiare a cui stavo assistendo.
Sentii una vocina provenire dagli "inferi": "Ho freddo! Non ce la faccio! Non sento più le mani!! Adesso l’amico stava diventando feroce: "Non vieni? Torno giù? E dai! Sbrigati!".
Era talmente nervoso che non ho potuto trattenermi dal dire: "Senti, datti una calmata, per favore! Se non se la sente non puoi certo obbligarla. Non puoi pretendere che salga se non la sa fare. Si incomincia con cose più facili!".
Mi rispose ancora più seccato: "Non ne posso più! E’ anche caduta nell’acqua quell’imbranata! Non capisce niente!".
Il "collega" stava davvero esagerando e, per fortuna, il comando di "recupero" arrivò al momento propizio per cavarmene fuori. Ho sciolto la sosta in mezzo secondo e me la sono filata.
Salutando, naturalmente.
Forse il secondo tiro l’ho "corso" per allontanarmi in fretta; era più facile ma non banale per la presenza di numerosi cumuletti di ghiaccio trasformato sparsi sulla superficie del ghiaccio. In breve ho raggiunto Mauri che era già pronto per attaccare il tratto finale. Anche lui sembrava impossessato dalla tigre della sua mente.
Dopo avere osservato il tiro insieme, fui contenta di constatare che aveva scelto la stessa via che avevo visto anch’io. Come avevo sospettato alla prima sosta, il tiro era più impegnativo di quello che sembrava visto da più in basso. In ogni caso, ero carica come una molla e niente e nessuno mi avrebbe fermato. Ancora ghiaccio bagnato e un’uscita che si abbatteva, ricoperta di un grosso strato di neve fresca. Le ultime "spikozzate" hanno sempre un non so che di "solenne", come quando i tamburi annunciano la conclusione di un evento.
E questo è stato il mio "evento".
Sono salita, non solamente su una cascata, ma è accresciuta la mia consapevolezza, è migliorata la mia capacità di valutazione tecnica, fisica, e di pericolosità oggettiva del ghiaccio.
Un altro "solleticone" allo stomaco, un altro abbraccio di solidarietà e di riconoscenza con il sangue che stava rifluendo verso le mani: "Prometto che non griderò per il dolore!", dissi mentre Mice stava incominciando ad allestire la corda doppia. Pensai tra me e me: "Oramai mi sto abituando ad arrampicare anche senza sensibilità nelle mani e al successivo dolore quando si ripristina la circolazione del sangue. So che è solo questione di tempo, poi tutto passa e le mani tornano a funzionare perfettamente". 
Il dolore non è così importante rispetto alle soddisfazioni che ricevo in cambio.
Mauri si è calato subito ed è arrivato alla prima sosta a "pelo di corda". Bastava un passo in più e arrivava ai nodi. Abbiamo verificato che 55 metri di corda bastano per scendere gli ultimi due tiri in un solo colpo.
Appena arrivata in sosta, dissi a Mauri: "Chissà come verrà l’atterraggio sulla pozza!".
Ma, come al solito, meglio risolvere le cose al momento opportuno.
Mice era già pronto a filare giù e non appena si sporse sul bordo del primo tiro, guardò in basso e gli uscì un:
"Tio Be’! A vien al vomit a guardar zo’!" (nda: "Dio mio! Viene il vomito a guardar giù!").
Si è fatto una risatina ed è sparito nel salto.
Ero rimasta sola, in silenziosa compagnia di Excalibur.
Aspettando che si liberasse la doppia, cercavo di fissare nella memoria le immagini che avevo tutt’intorno. Respiravo profondamente, per inalare il profumo del ghiaccio.
Avevo la netta sensazione di far parte della cascata.
Poi, l’ultimo urlo di MIce: "Libera!", mi ha riportato alla realtà.
Nell’ultimo pezzettino di cascata, oramai sul torrente, ho dato corda – ma non troppo! -, ho spinto sulle gambe – ma non troppo! – e sono atterrata esattamente sugli unici sassi affioranti che c’erano. Non ho baciato i pesci.
Non è possibile dimenticare ciò che rimane dopo.
Eravamo già sui passi del ritorno quando avvertii un richiamo irresistibile a voltarmi indietro: un ultimo sguardo alla via, con ancora dentro di me ogni preciso istante dell’arrampicata, il suo silenzio, la sua ovattata maestosità, la sua potenza, la sua bellezza. Questa volta le inviai un pensiero:
"Grazie per avermi concesso di arrivare in cima, EXCALIBUR! Spero di non averti delusa!".   

Gli sherpa pensano che il richiamo di questi ambienti su noi alpinisti occidentali sia spiegato dal fatto che sono necessari per arrivare ad una maggiore consapevolezza interiore, in poche parole a ritrovare noi stessi. 

Desidero ringraziare Maurizio Caleffi, il "Mauri o il Mice" del racconto, per tutto ciò che mi ha insegnato e che continua a fare per me e per quella banda di cascatisti "pikkiatelli" del CAI di Ferrara, ma anche e, soprattutto, per l’amicizia e la spontaneità che sa offrire la tigre che vive nella sua mente.

Monica Fortini

Febbraio 2002