Incontro con Berto Brotto
Il custode del Paradiso
a cura di Eugenio Cipriani
Nato con la “patente”
Immaginate che qualcuno si offra di iniziarvi all’arrampicata e vi
faccia da capocordata ma che voi, mentre cercate di raggiungerlo in
sosta, a causa di un vostro errore, lo facciate precipitare a terra da
circa trenta metri d’altezza “regalandogli” due anni circa di ospedale.
Chi si offrirebbe più di iniziarvi all’arrampicata? Nessuno.
In più vi
ritrovereste in men che non si dica con la patente di “porta sfiga” come
il celebre iettatore di pirandelliana memoria.
Facendo cadere, in quel lontano giorno del 1947, Gino Saggiotti dal
“diedro della sbrega” a Lumignano, Berto Brotto, classe 1926, rischiò di
veder aperta e chiusa nel giro di pochi minuti la sua attività
alpinistica.
Invece non andò così
Anzitutto perché per fortuna Saggiotti, benché malconcio, uscì vivo dal volo; poi perché qualche mese
dopo Silvano Pavan, arrampicatore allora esordiente, ma con una tecnica
di tutto rispetto, decise di offrire un’altra chance al maldestro
“secondo” di Saggiotti.
E le cose questa volta funzionarono.
Talmente
bene che in breve tempo i due divennero una cordata affiatatissima in
grado di affrontare tutte quelle che allora erano considerate le vie più
dure delle Piccole Dolomiti e, qualche anno dopo, anche i “sesti gradi”
delle Dolomiti “vere”.
Pavan era un maestro nei passaggi di eleganza, dove c’era soprattutto da
lavorare con i piedi.
Brotto, di muscolatura più robusta, passava al
comando della cordata quando c’era da usare la forza bruta, come ad
esempio per innalzarsi lungo una lama o fuori da uno strapiombo.
Scarpette con la suola di feltro, corda di canapa attorno alla vita e
tanta voglia di arrampicare erano la loro “normale dotazione
alpinistica”, stilema oggi tanto usato nella manualistica di scalata.
Più per consuetudine che per necessità portavano con sé (non sempre)
anche un mazzo di chiodi ed un martello.
Pavan però nega di aver mai
avuto bisogno di piantare un solo chiodo.
Brotto, invece, confessa di
averne piantato uno durante un tentativo di prima ripetizione della
Soldà al Dito di Dio con Piero Fina.
Ma dice pure di essersene pentito
perché, una volta piantato il chiodo ed inserito il moschettone
nell’anello, prima di riuscire a passare la corda nel moschettone
l’appiglio al quale si era appeso per martellare il chiodo nella fessura
si è rotto e lui è piombato come un sacco di patate fin sotto la sosta,
per fortuna trattenuto in maniera esemplare da Fina.
I suoi compagni più affezionati sono stati Renato Gentilin, Mario
Carlan, Dino Miotti, Umberto Stella oltre ai già citati Piero Fina e
Silvano Pavan.
Nel 1956, anno in cui nasce la sua prima figlia,
Antonella, diventa “portatore”, cioè l’equivalente dell’aspirante guida
di oggi, solo che non poteva portare clienti oltre il terzo grado.
Nel
1958, mentre la moglie Jolanda sta per partorire la secondogenita,
Elisabetta, Berto è in Dolomiti a guadagnarsi il titolo definitivo di
guida alpina.
Nel 1960 nessuna novità alpinistica di rilievo ma solo, e
non è poco, un altro fiocco rosa sull’uscio di casa e su quello del
rifugio Campogrosso: è la volta della terzogenita, Paola.
Berto continuerà ad arrampicare ed a condurre clienti in giro per i
monti, dalle Piccole e grandi Dolomiti ai 4000 delle Alpi sino al 1973,
l’anno della “svolta”.
Basta con le crode, quindi, e basta con
Campogrosso: la nuova destinazione è un fazzoletto di terra circondato
dal mare, l’isola d’Elba. Dove resterà, lavorando d’estate come
direttore di un villaggio turistico, ma tornando d’inverno nella natia
Vicenza, sino al 2000.
Un piccolo grande rifugio da gestire col “pugno di ferro”.
Per alpinisti ed escursionisti è un “piccolo paradiso” quello che,
venendo da Vicenza, si schiude oltre l’Alpe di Campogrosso. E chi si
trova a gestire la “porta” di quell’eden fatto di rocce variopinte e
verticali, di foreste e canaloni, è una sorta di San Pietro
quotidianamente indaffarato in ogni stagione dell’anno a rifocillare
viandanti, offrire consigli, dare ospitalità.
Oggi le “chiavi del
paradiso” sono appannaggio di Davide Ferro, ma dal 1955 al 1973 il San
Pietro di turno si chiamava Berto Brotto.
Un santo tutto particolare che
ne ha viste di cotte e di crude e che ha sudato le proverbiali sette
camicie per offrire il miglior servizio possibile alla clientela.
E che
ha portato tanta pazienza.
Veramente tanta.
Al punto, un bel giorno, di
perderla completamente.
E di brutto!
Sia chiaro che in certe circostanze
l’avrebbe persa chiunque, probabilmente anche un santo!
Procediamo però
con ordine.
Berto nel 1955 oltre ad essere un alpinista ormai affermato nonché
“portatore” pronto a diventare guida alpina a tutti gli effetti, decide
di raccogliere il “testimone” lasciato per disperazione economica dal
precedente gestore, Lino Bassetto, e di prendere in gestione il rifugio
Campogrosso.
“Ero convinto - dice Brotto - che lavorando lassù sarei
riuscito a coniugare la passione per l’arrampicata col lavoro. Invece mi
sono sobbarcato un impegno totalizzante al punto che le arrampicate per
puro piacere personale potevo contarle annualmente sulle dita di una
mano mentre, per guadagnare, quasi ogni giorno dovevo accompagnare i
clienti a fare e rifare la GEI, il Baffelan, l’Apostolo, ecc.”
Il lavoro di guida si rivela quindi ben presto un po’ ripetitivo ma alla
fine Brotto ci si abitua.
Il vero problema è la gestione di quello che,
allora, era poco più che un “bivacco gestito”.
Brotto conosceva già un
po’ quel lavoro in quanto qualche domenica, negli anni precedenti il
1955, aveva dato una mano all’amico Bassetto aiutandolo a servire ai
tavoli o dietro il bancone del bar.
Ma la gestione in proprio si rivela
subito un osso duro.
“Il primo impatto fu traumatico – racconta Brotto - perché
l’edificio era in condizioni pessime, sia igieniche che di muratura. Per
prima cosa io e Jolanda, che era diventata mia moglie da pochi mesi,
facemmo pulizia ed ordine.
E lo facemmo al freddo, perché ricevemmo le
chiavi il sei gennaio!
Poi, aiutati anche da alcuni amici, sistemammo la
cucina e le stanze.”
Naturalmente non si deve pensare al rifugio Campogrosso del 1955 come si
pensa all’attuale.
La cucina era piccolissima e realizzata in buona
parte col sistema “fai da te”, la luce elettrica non esisteva e la sera
si accendevano le candele, telefono neanche parlarne ed i materassi
erano riempiti con paglia o foglie di pannocchie! Romantico, certo, ma
anche tanto scomodo, specie se ci dovevi vivere tutto l’anno o quasi.
Per non parlare dei rifornimenti a Recoaro, che venivano effettuati
parte a piedi e parte su mezzi a motore, talvolta di fortuna.
“Per contratto – spiega sempre Brotto – il rifugio doveva
essere aperto anche nei fine settimana invernali e con qualsiasi tempo,
salvo casi eccezionali. Io, che ormai avevo prole, d’inverno dal lunedì
al venerdì tendevo a stare con la famiglia nella casa di Vicenza, a
Lisiera, dove almeno un po’ di comfort era garantito. Ma ad un certo
punto non potei più farlo perché iniziai a subire sistematicamente furti
ogni volta che lasciavo il rifugio incustodito.”
Oggi, in una condizione del genere,
telecamere di sorveglianza e sistemi di allarme risolverebbero la
situazione.
A quei tempi bisognava ricorrere, anche in questo caso, al
“fai da te”.
E così il San Pietro di Campogrosso, persa la pazienza dopo
l’ennesima razzia, un bel giorno decide di trasformarsi nel “giustiziere
mascherato”.
“Una domenica sera mi congedai da moglie e figlie, mi nascosi in rifugio
senza accendere né fuoco né candele in modo che l’edificio apparisse
disabitato. Il primo giorno nulla, solo un gran battere di denti; il
secondo ancora nulla, ma finalmente il terzo giorno, verso sera, sento
qualcuno armeggiare alla porta.
Allora esco dalla finestra sul retro e
mi calo dal primo piano arrampicando lungo la parete per prenderli alle
spalle. La sorpresa mi riesce ma uno dei due, che riconosco in viso
perché l’avevo visto spesso in rifugio tra gli avventori, fugge a gambe
levate. Riesco invece, dopo una colluttazione violenta, a bloccare
l’altro e legarlo alla sedia. A quel punto non ci ho più visto dalla
rabbia e con tutta l’adrenalina in corpo gliele ho suonate di santa
ragione. Insomma, mi sono sfogato. Poi ho chiamato i Carabinieri.
Naturalmente c’è stato un processo al termine del quale i due lestofanti
si sono presi diciotto mesi di reclusione per furto ed io sei (con la
condizionale) per eccesso di difesa. Lo so, ho sbagliato. Ma al posto
mio chi non avrebbe fatto altrettanto?”.
Gli anni passano, le figlie crescono e vanno via di casa cosicché Brotto
può pensare a nuove sfide.
Un giorno un suo cliente, dopo una scalata,
gli propone di fare il direttore di un villaggio turistico all’Elba.
Brotto accetta e non solo abbandona il lavoro di guida alpina ma per di
più s’innamora del mare e delle sue profondità acquisendo, dopo qualche
anno, addirittura il brevetto di istruttore subacqueo.
All’Elba Berto
rimane fino al 2000, anno in cui torna definitivamente a Vicenza, in una
nuova casa a Creazzo, ormai felice pensionato ed innamorato, in ugual
misura, tanto delle montagne quanto delle profondità marine.
Nostalgie?
“Per le scalate no – dice Brotto – ma per le immersioni sì, specie
quelle all’Elba, dove ormai conosco ogni anfratto, o quelle a Ponza o
all’isola di Montecristo. Tutti posti bellissimi, più belli del Mar
Rosso!”
Le didascalie delle foto, dall'alto verso il basso
Foto 1) Berto Brotto sullo spigolo Soldà alle Due Sorelle
di Campogrosso
Foto 2) Berto Brotto a sinistra e Piero Fina a destra sulla Punta di Mezzodì
Foto 3) Berto Brotto a Campogrosso con la moglie Jolanda ed una delle tre figlie
Foto 4) Berto Brotto nella vecchia cucina del rifugio Campogrosso
Foto 5) Berto Brotto con la moglie ed un amico al rifugio Campogrosso
I “quattro dell'Ave Maria”
Da sinistra: Berto Brotto, Piero Fina, Berto Stella, Silvano Pavan
La voglia di arrampicare è passata per Brotto, ma l’amicizia con i
vecchi compagni di scalata no, ed anzi, col tempo, sembra essersi
rafforzata.
Con quelli che sono rimasti, ovviamente.
Purtroppo solo tre,
ormai: Berto Stella (classe 1924), Silvano Pavan (classe 1927) e Piero
Fina (classe 1930).
Si autodefiniscono “I quattro dell’Ave Maria”, sono
inseparabili ed assieme sono un vero spasso: continuano a prendersi in
giro, a punzecchiarsi a vicenda e “sganassano” come ragazzini.
Il
“decano” è Stella (peraltro il più “casinista” di tutti), i “tosi” sono
Brotto e Pavan, mentre Fina è il “bocia”, visto che vanta il minor
numero di primavere sulle spalle.
“Ho stretto tante belle amicizie in montagna – dice Berto Brotto
– e con persone come Berto (Stella), Piero e Silvano posso dire di
aver stretto un legame paragonabile a quello fra consanguinei.
A parte loro e pochi altri, però, in tutta onestà non ho rimpianti per
il mondo alpinistico, specie dopo aver conosciuto quello degli
appassionati di immersioni subacquee.
Fra i sommozzatori, infatti, non esistono tutte quelle invidie, quelle
acrimonie, quelle maldicenze e quelle rivalità che hanno sempre fatto, e
continuano a fare, tanto male all’alpinismo.”
Negli "archivi" anche una foto degli alpinisti vicentini con Walter Bonatti
Da sinistra in basso in senso orario: Norino Salvaro, Francesco Padovan, Piero Martinuzzi, Gastone Gleria, Tarcisio Rigoni (con gli occhiali scuri), Walter Bonatti, Severino Casara, Berto Brotto, Giuseppe Gambaro, Walter Cavallini, Giovanni Pranovi e, al centro, Berto Stella e Silvano Pavan.
Eugenio Cipriani
Incontro con Berto Brotto, il "custode del Paradiso"
Vicenza, marzo 2014