U
n sogno chiamato Verona

 di Mauro Loss

Sono al lago con Renata, sdraiato sull’erba a prendere il sole dopo aver fatto il bagno in un’acqua decisamente tonificante, penso a domani a cosa ci aspetta, a quello che servirà.
Qualche dubbio affiora nella mia testa ma ormai è deciso: si và. Il nostro obiettivo è la parete Est di Cima Brenta.
Il mio pensiero vola verso quella parete rossa che incombe sulla Val Perse ed ad una serata di tanti anni fa quando, alla Sosat, furono presentate le diapositive della prima invernale alla via Verona. Un itinerario che subito mi aveva fatto sognare ma che per le strane vie del caso era rimasto relegato nel profondo di un cassetto dimenticato. 
Poi quella telefonata Adriano che me la propone e d’improvviso un cassetto si apre e la polvere vola via con uno sbuffo. Ceniamo tutti assieme, un giro per Molveno, un gelato e poi via a dormire dopo gli ultimi preparativi.
Alle 05,00 Adriano entra nella camera e mi chiama sottovoce. Mi alzo piano per non svegliare Renata che ancora dorme, siamo di poche parole, colazioniamo in silenzio e poi via verso il rifugio Croz. 
Un saluto veloce e due chiacchiere con Felice già in piedi, intento nei primi lavori di giornata e poi su per la Val Perse senza un fiato, senza una parola, ognuno immerso nei propri pensieri.
Finalmente eccola la parete rossa, il sole comincia a darle vita, il suo colore rosso si accende, un attimo di sosta per una foto e per scrutare il paretone alla ricerca della via di salita e poi, sempre silenziosi, di nuovo avanti alla ricerca di una pace interiore che è il preludio alla concentrazione per ciò che ci attende.
Dopo due ore siamo all’attacco e ciascuno di noi inizia i preparativi, i soliti gesti lenti, metodici ma precisi si ripetono: si srotolano le corde, si indossa l’imbraco, si sistema il materiale, un’occhiata alla relazione e poi Adriano è pronto a partire, lo sa che a me non piace iniziare.
La parte bassa, sono quasi 300 metri, fila via velocemente sono tiri non difficili ma servono per prendere confidenza con la dimensione verticale. Una breve sosta sulla grande cengia, un sorso d’acqua, una barretta, un’occhiata in alto verso la parete rossa incombente sopra di noi che sembra schiacciarci, pare corta e subito salita, ci accorgeremo che non è così e che le successive saranno ore d'impegno intenso e concentrazione massima. Non ci interessa sapere l’ora. Non avrebbe senso, la nostra meta è là in alto, la giornata è ottima e tutto procede a meraviglia.
Iniziano le difficoltà, i chiodi sono vecchi ed artigianali ma ci sono e danno una certa sicurezza comunque, per non sbagliare, quando è possibile si integra ed in questo dadi e friend ci danno una notevole mano e ci consentono di non perdere troppo tempo e per ora le staffe rimangono ripiegate sull’imbraco. Sopra la sosta dove poco dopo mi raggiunge Adriano c’e’ il primo dei due tetti gialli e la difficile traversata a destra, rappresenta uno dei tratti chiave della via, e tocca ad Adriano. Parte sicuro e carico di materiale, fatica non poco anche perché, subito dopo il traverso, non si ferma e prosegue verso una sosta posta una decina di metri più in alto che sappiamo più comoda e sicura ma le corde fanno attrito ed è costretto a ridiscendere per allungare alcune protezioni e toglierne altre ma finalmente dopo un tempo che mi è apparso eterno lo sento gridare. È in sosta. 
Mi preparo ed al suo segnale parto, cerco di velocizzare la progressione ma lo zaino e il materiale che raccolgo mi impacciano non poco, afferro una staffa abbandonata in parete ma sul più bello, uno dei vecchi gradini di plastica rossa con un secco rumore si rompe, il cuore va a 1000, l’adrenalina sale ma è solo un attimo, proseguo e poco dopo sono in sosta con Adriano che mi chiede spiegazioni. Due parole in tanto che ci scambiamo il materiale, una stretta all’imbraco e via su per il successivo diedro nero poco chiodato, ma per fortuna la fessura sul suo fondo accetta volentieri dadi e friends, sudo ma arrivo al tettino che lo chiude.
La relazione mi porterebbe a destra ma io, non so per quale strana ragione, mi accaponisco e provo ad uscire a sinistra, la cosa non mi piace, insisto, pianto un chiodo da sotto in su che non mi solleva nemmeno un po’, riesco ad uscire con difficoltà ma a questo punto mi convinco definitivamente che sto sbagliando.
Torno, faticosamente, sui miei passi e provo a destra, sembrava ostico ma si va e appena metto fuori il naso alcuni chiodi fanno capolino, libero le staffe e con alcune acrobazie sono fuori dal tettino, riprendo ad arrampicare un po’ in libera ed un po’ in artificiale. Sono in sosta ma che scomodità, urlo e dopo un po’ Adriano mi segnala la sua partenza sbuffa e fatica con lo zaino che gli impedisce i movimenti ma arriva. Siamo ormai ad un paio di tiri dalla cengia di uno dei bivacchi dei primi salitori che segna la fine delle difficoltà e l’inizio dei camini d’uscita che ci auguriamo asciutti.
Adriano parte supera il breve strapiombino sopra la sosta ed inizia la fessura strapiombante successiva ma procede con fatica e dopo un po’ si ferma e si fa calare in sosta. Solo ora mi dice che la notte ha avuto problemi intestinali e ora si sente stanco e privo di energie. C'è poco da fare ci scambiamo materiale e corde e riparto. La fessura è praticamente pulita, era stata superata quasi quarant'anni fa con l’ausilio di numerosi cunei di legno;i pochi rimasti ci indicano la strada ma servono a poco ed anzi ora uno fa bella mostra di sè nel soggiorno di Adriano. 
Fatico non poco, mi muovo con costanza anche se lentamente, friends e stopper mi consentono di proteggere bene
la fessura e le staffe mi permettono di superare i passaggi più ostici. Non so quanto ho impiegato e nemmeno mi interessa, ma finalmente sono in sosta, mi assicuro, grido, sono stanco ma felice e penso per un attimo a Rolando che qui, l’anno scorso, è passato in libera. Veramente tanto di cappello. Adriano non è sulle sue, fatica ma c’è la fa e pare anche aver discretamente recuperato; mentre arrampicavo sulla fessura ha mangiato e bevuto.
Sopra di noi la famosa “fascia monolitica di 10 metri con l’uscita su cengia a carponi” che tanto ci ha incuriosito leggendo la relazione, ma non vuole proseguire, lo incito, ci sono i chiodi a pressione ed io ho bisogno di recuperare un po’, parte ed in breve la placchetta e la traversata a carponi sono dietro di noi. 

Siamo sulla cengia del quarto bivacco di Navasa e compagni, alcune scatolette arrugginite mi fanno pensare a come potevano essere stati quei momenti e mi chiedo cosa poteva passare loro per la mente, ma squilla il cellulare e ciò mi riporta alla realtà è un amico, uno dei pochi che sapeva della nostra meta, che ci chiede come sta andando; poche parole e poi Adriano ormai rinfrancato attacca i diedri d’uscita. Sono asciutti, la roccia nera è fantastica e solida, si arrampica con scioltezza e velocemente. Sono le 16.00 e siamo sulla cengia Garbari, ci guardiamo negli occhi, una stretta di mano, un “Berg Heil” che vola alto nel cielo, brevi momenti, sensazioni intense ma non è finita dobbiamo scendere. Ancora gesti usuali, le corde sulla schiena, il materiale nello zaino e poi giù lungo le Bocchette Alte fino alla Bocca di Tuckett tristemente senza neve e ancora giù a raccattare l’altro zaino. 
Una pausa per dividere meglio il materiale, un’occhiata alla parete ed alla linea di salita che ora sentiamo un pochino nostra e poi giù per la Val Perse verso casa, senza parlare ognuno nuovamente immerso nei propri pensieri.
Un sogno si è realizzato, sembra di aver perso qualcosa ma non è così, c’è Adriano, c’è la nostra amicizia, il nostro affiatamento ancora una volta rinsaldato e che anche oggi ci ha consentito di superare momenti difficili e vivere emozioni forti, ci sono Renata, Pierangela e i bambini che ci aspettano.
Un sogno si è realizzato e subito un altro ne prende il posto nella mia mente e sicuramente anche in quella di Adriano.
Sono le 18.00 quando siamo nuovamente al rifugio Croz. Non c’è più nessuno. 
La folla dei turisti domenicali e ritornata a valle ma Felice ci sta aspettando, ci dice che ci ha tenuto d’occhio e non lo dubitavamo, rispondiamo, con poche parole, alle sue precise domande e poi alla macchina e giù verso casa non senza un ultimo sguardo alla parete rossa.

 

Mauro Loss

Trento, aprile 2006