L'Adige.
08/01/2010 - Articolo di
Guido Pasqualini
L'impresa più grande è quella che Elio Orlandi non avrebbe mai voluto
compiere
L'impresa più grande è quella che Elio Orlandi non avrebbe mai voluto
compiere.
«Ha fatto una cosa che mai nessuno aveva nemmeno mai tentato: recuperare
da solo il corpo del compagno di spedizione senza prima avvisare i
soccorsi. Non lo dimenticheremo mai».
A parlare, con un accenno di lacrime agli occhi e la voce rotta dalla
commozione, è Giorgio Giacomelli, fratello di Fabio, l'alpinista di 51
anni morto il primo gennaio travolto da una valanga sul Cerro Torre.
Giorgio in montagna ha perso Fabio e Gigi, un altro fratello morto nel
1980 precipitando da una parete del Brenta. Giorgio, che si occupa di
alpinismo giovanile e del circuito Sat di corsa in montagna intitolato
proprio a Gigi, sa cosa significa trovarsi da solo su un Cerro Torre
spazzato da folate di vento terribili e scavare per 46 ore per trovare
il cadavere dell'amico sommerso da metri di neve fresca.
Elio Orlandi ha rischiato la propria vita pur di riportare alla luce il
corpo di Fabio, ha corso consapevolmente il pericolo di morire pur di
riuscire a dargli una sepoltura.
Sapeva bene che, se fosse prima sceso a El Chalten a dare l'allarme, le
probabilità di ritrovare il compagno di cordata sarebbero diminuite in
modo drastico.
Così, con la forza in più fornitagli dal pensiero fisso della moglie e
delle sue ragazze e una incredibile lucidità mentale, non si è concesso
un attimo di tregua.
Dopo la tragedia, accaduta alle 21 dell'1 gennaio, è rimasto in parete
per tre giorni e tre notti con l'unico obiettivo di trovare Fabio.
Con pala, mani e sonda ha battuto palmo a palmo il terreno per 46 ore.
«A un certo punto - racconta Giorgio Giacomelli - era convinto di averlo
ritrovato e invece non era vero. Si è rimesso a scavare». Fabio
Giacomelli era finito in fondo a un crepaccio.
Elio Orlandi lo ha individuato con la sonda e poi, rischiando di
rimanere a sua volta sepolto, è riuscito a liberare l'amico dalla morsa
del ghiaccio e della neve, se lo è caricato sulle spalle e ha camminato
alcune ore sul ghiacciaio prima di trovare una truna, un anfratto, in
cui custodire il corpo del compagno.
Soltanto a quel punto l'alpinista di San Lorenzo in Banale è sceso verso
El Chalten, il paese più vicino al Cerro Torre che ai tempi della prima
spedizione in Patagonia di Orlandi, nel 1982, manco esisteva.
Vi è arrivato sfinito, con le energie psico-fisiche pericolosamente in
riserva.
L'impresa di Elio ha lasciato incredula pure la comunità internazionale
di alpinisti che anima il piccolo paese della Patagonia. Forse anche per
questo a El Chalten si sono mobilitati tutti per risalire sul ghiacciaio
e recuperare il cadavere di Giacomelli.
Esemplare, in questo senso, la testimonianza di Carolina Codò, la
dottoressa cognata di Andrea Fava (la figlia di Cesarino) che sta
coordinando la macchina dei soccorsi:
«Normalmente - ha detto - di fronte ad un incidente come questo le
persone sono scioccate e corrono a chiedere aiuto. Elio no. In 17 anni è
la prima volta che vedo una persona, da sola, continuare a cercare il
compagno, riuscire a trovarlo e a liberarlo dalla neve. Noi riteniamo
Elio uno dei più grandi scalatori delle Ande patagoniche. È incredibile,
davvero non ci sono parole: se non lo avesse fatto, probabilmente il
corpo non sarebbe mai più stato trovato».
«La Patagonia insegna - ha affermato Orlandi in un'intervista rilasciata
all' Adige la scorsa estate - che anche un insuccesso ti dà la
possibilità di portare a casa qualcosa di positivo, come i rapporti
umani».
Elio è rimasto a El Chalten per riprendersi, nella casetta che ha
acquistato e che è diventata il campo base per le sue spedizioni
patagoniche. Ma ieri ha voluto incamminarsi di nuovo su quel sentiero
che conosce come le sue tasche, per andare incontro a Fabio. L'ultimo
omaggio all'amico scomparso.
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