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La Provincia di Lecco.  11/02/2009


Makalu l'ultimo brivido. Moro lo scala in inverno

 

Adesso che l'ha fatto, anzi adesso che l'ha rifatto, anche quelli che spaccavano il capello in quattro - quelli del sì però, sempre pronti a trovare una ragione per alzare il ditino e metter lì un distinguo - dovranno rassegnarsi.
Certo, Simone Moro potrà continuare anche a non essergli simpatico, se così stessero le cose.
Però dovranno prendere atto che l'ex ragazzo di Bergamo, 41 anni, è entrato di prepotenza nella storia dell'alpinismo italiano e mondiale. Ha salito il Makalu in inverno, l'ha salito con un altro fuoriclasse come il kazako Denis Urubko, lo ha salito lunedì bissando il successo del '95 sullo Shisha Pangma, quella volta con il polacco Piotr Morawski.  

E adesso il nome di Moro, tra l'altro il solo di un alpinista occidentale, lampeggia a caratteri cubitali nella scarna lista (tutta polacca, tra l'altro) dei superspecialisti dell'esercizio più estremo dell'himalaismo.
Più di lui hanno fatto solo leggende dell'aria sottile come l'indimenticabile Jerzy Kukuczka (Dhaulagiri nell'85, Kangchenjunga nell'86, Annapurna nell'87) e Krzysztof Wielicki (l'Everest nel 1980, il Kang nell'86, Il Lhotse nell'88).
E a quota due, Simone ha affiancato Maciej Berbeka, a segno d'inverno sul Manaslu nel 1984 e sul Cho Oyu nell'85.
Non ci va nessuno, su un ottomila, nella stagione più dura.
Perché andarci significa gettarsi in pasto a un esercizio estremo - i venti più furiosi, il freddo più devastante, le condizioni peggiori della montagna - da superman modello matrioska.
Intendiamo un formidabile atleta calato dentro l'involucro di un fachiro capace di reggere livelli quasi inconcepibili di sofferenza. Intendiamo - perché ancora non basta - questa creatura già bicefala innestata nel corpo di un alpinista non solo capace di tutto, ma anche in stato di grazia e accompagnato da quel po' di fortuna senza la quale le imprese "impossibili" restano tali, cioè incompiute.
Sono almeno dieci anni, ormai, che Simone Moro ha alzato vertiginosamente l'asticella del suo alpinismo, rilanciando a un livello tale da consegnarsi a insuccessi quasi sicuri e dunque, talvolta, anche da esporsi a un'ingenerosa accusa di velleitarismo.
Ha tentato e ritentato invano la traversata Everest-Lhotse, cioè il concatenamento più alto del mondo, e in un'occasione è stato proprio con Urubko dopo aver avuto accanto una leggenda come Anatoli Bukreev.
Lui, il gigante dell'Est che Simone considera il suo maestro e che è restato per sempre sull'Annapurna, travolto da una valanga proprio durante un tentativo nella stagione più dura.
L'inverno, appunto.
Moro gli ottomila, come dire?, al loro peggio li ha provati e riprovati.
Sullo Shisha Pangma – lo ricordavamo - aveva fatto centro.
Sul Broad Peak è andato a vuoto due volte, nel 2007 e nel 2008, arrivando vicinissimo a spuntarla.
Ora il blitz sul Makalu, il Grande Nero.

Impresa formidabile e perfetta: tentativo di vetta dopo una sola puntata preliminare sopra i 7000 metri, seguita a un acclimatamento su cime minori.
One push, in gergo: tre giorni memorabili, quella che si dice una (ulteriore) consacrazione.
Partenza dal campo base sabato con approdo al campo 2 a quota 6900.
Da lì domenica il balzo oltre il colle del Makalu La, con approdo a 7700 metri per l'ultimo bivacco, da dove i due alpinisti potevano scorgere la cima.
La spallata decisiva, lunedì mattina: Moro e Urubko si sono mossi subito dopo le sei e sette minuti prima delle due del pomeriggio, nonostante il forte vento e le temperature vicine ai 40 gradi sotto zero, non avevano più niente da scalare.
«Siamo saliti bene, regolari - è riuscito a far sapere Simone in diretta telefonica - Ma è stata incredibilmente dura, specie nelle ultime tre ore. Abbiamo lottato con il vento che ci buttava giù. l Makalu non voleva che arrivassimo in cima. Mi spiace, l'abbiamo fatto. Un'altra piccola pagina di storia è stata scritta».

Con la quinta cima della Terra, 8463 metri, sono saliti a nove i giganti himalayani scalati in inverno.
All'appello mancano tutti gli ottomila pachistani, dunque il K2, i due Gasherbrum, il Nanga Parbat e il Broad Peak.
Su quest'ultimo è impegnata da quasi due mesi una piccola squadra formata (ridagli) dai polacchi Artur Hajzer e Robert Szymczak e dal canadese Don Bowie.
Gli "eroi" del Makalu, dal canto loro, dopo il rientro di lunedì pomeriggio al bivacco a quota 7700 (e dopo una notte di bufera) ieri hanno affrontato l'ultimo tratto di discesa e, stanchissimi, sono rientrati al campo base con gli ultimi e non meno decisivi passi della loro grande avventura.
Adesso è davvero finita.
E adesso c'è davvero un posto nella storia della montagna anche per Simone Moro da Bergamo, uno dei pochi italiani (il solo?) che di alpinismo di prestazione campa, che ci sa fare con le lingue, gli sponsor e i media; uno con in tasca una laurea a pieni voti in Scienze Motorie, medagliato per soccorsi in altissima quota, capace di gestire tecnologie e di alimentare siti Internet anche dai luoghi più remoti del pianeta, uno che qualche volta può forse anche avere sbagliato qualche curva - a chi non è accaduto? - ma che ha sempre saputo in che direzione andare.
Uno capace di scegliere i compagni e gli obiettivi, di respirare e farsi bastare l'aria più "sottile", di costruire sogni controcorrente e di scalarli.
Per essere più felice.