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      La Stampa.  12/06/2011 - Articolo di Enrico Martinet
 

K2, un giornalista americano racconta in un libro
la notte del 2008 in cui morirono 11 alpinisti

 


AOSTA
Non trovava le parole, forse fu la fatica, ma Alberto Zerain, 46 anni, basco, si era sgolato qualche ora prima per spronare quegli alpinisti troppo lenti. La sua voce si era persa nell’aria sottile degli 8000 metri.
E quei compagni di salita non trovavano la forza necessaria.
Ora che tornava dalla vetta del K2, seconda montagna del pianeta, voleva dir loro di fermarsi, di rinunciare:
«Troppo tardi, è troppo tardi». Li salutò, tornò verso la spalla degli Abruzzi, sulla via individuata nel 1909 dal Duca Savoia-Aosta. Veloce, quasi un uomo in fuga dalla sua stanchezza perché sugli Ottomila si «muore al ritorno», quando l’euforia della vetta sembra darti un’energia. Illusione.
E c’era un altro alpinista professionista in quella stramba colonna di ritardatari, l’italiano Marco Confortola, uno che «mangiava le rocce». Zerain superò chi aveva aiutato in salita, arrivò in vetta al K2 alle 15.30; Confortola quattro ore dopo, quando l’arancio del tramonto aveva già lasciato spazio al blu intenso del crepuscolo.
E altri arrivarono dopo di lui. L’italiano, la guida alpina di Santa Caterina Valfurva, lo stesso paese di Achille Compagnoni, che nel 1954 fu il primo uomo al mondo a raggiungere la sommità glaciale del K2, in discesa s’infilò nell’inferno, si prodigò per salvare chi imperizia e destino avevano già consegnato alla fine.
L’estate del 2008. Il 2 agosto muoiono 11 alpinisti dei 71 che avevano organizzato il campo base.
La più grande sciagura sull’Ottomila più difficile.
Errori imperdonabili, valanghe di ghiaccio, una salita che avrebbe dovuto essere abbandonata.
Uomini folli di paura, altri consegnati alla storia dell’alpinismo come eroi. Naufraghi di una notte.
Graham Bowley, giornalista del «New York Times», ha raccolto ogni testimonianza possibile, è andato alla base del K2, ha incontrato i sopravvissuti e ha scritto «No Way Down», libro-reportage che martedì uscirà in Italia, edito da Mondadori. Negli Usa è stato un successo, così come lo furono i reportage sul quotidiano.
Dice Bowley: «Guardando il K2 ho cominciato a capire perché uomini e donne rischiarono la vita per salirlo. Sono loro grato per avermi aiutato a vedere la via».
Quella notte la morte si manifestò nel punto più complesso e pericoloso dell’intera salita, il passaggio obbligato tra gli 8000 metri e gli 8400 in direzione di un grattacielo di ghiaccio, un seracco pensile in equilibrio instabile.
Non c’è modo di evitarlo. Due passaggi chiave: il Collo di bottiglia e il Traverso.
Pendii ripidi spazzati dal vento dove occorre piazzare corde fisse per aiutarsi, darsi sicurezza.
Il seracco quella notte tremò più volte, spazzò parte delle corde fisse, piazzate anche male, e ghermì gli alpinisti.
E lì Marco Confortola si abbandonò sul ghiaccio.
Pensò: «Ci siamo». La sensazione della fine. Aveva perso un guanto, aveva freddo, era stato sfiorato da una valanga dopo aver tentato il salvataggio di due coreani e uno sherpa sotto il Traverso.
Scendeva con l’irlandese Gerard McDonnell. Gridò: «Vieni qui, Gerard».
Sulla destra, sul pendio di ghiaccio pendevano tre corpi intrappolati dalle corde.
Avevano passato la notte così e in quell’alba a 20 gradi sotto zero erano ancora vivi. Ma a testa in giù.
«Dammi una mano, se sollevi la testa del primo provo a liberarlo dall’imbracatura», disse Marco a Gerard.
Confortola ricorda che dopo un’ora si accorse che l’irlandese era strano: «Lo vidi all’improvviso risalire verso il ciglio del ghiacciaio e gli gridai: “Dove vai?”. Senza risposta».
Assicurò i tre, uno di loro gli chiedeva aiuto. Aveva perso uno scarpone e Confortola si tolse un sovraguanto e glielo infilò sulla calza. «Lasciai lì anche la piccozza per poterli ancorare alla parete», dice.
Gerard era sparito e Marco affrontò da solo il Traverso che non aveva più corde fisse, poi più sotto trovò una piccozza sfuggita a qualche alpinista e tentò di raggiungerla, inciampò e scivolò per 30 metri.
Non si ferì, ma il seracco si scrollò di dosso centinaia di metri cubi di ghiaccio, la valanga lo sfiorò, travolse gli uomini appesi e in quel candore Marco vide qualcosa di giallo, gli scarponi di Gerard McDonnel.
«Mi alzai, vidi sangue e resti umani». Perse forza, si abbandonò.
«Marco, Marco»: qualche ora dopo fu uno sherpa, Pemba Gyalje, a svegliarlo e a salvargli la vita.
Entrambi, immersi nella nebbia, sfuggirono ancora a una valanga.
E Marco fu colpito da una bombola sollevata dal turbine candido, ma Gyalje lo afferrò prima che precipitasse.
Confortola si congelò i piedi, gli furono amputate tutte le dita.

[ Nota della Redazione: Per la segnalazione di questo articolo ringraziamo http://www.iborderline.net/ ]