La Provincia di Sondrio.
27/05/2009
NIVES MEROI sognava di fare del Kangchenjunga il suo dodicesimo ottomila,
ma ha rinunciato scegliendo
qualcosa di meglio,
e allora quelli convinti che
nell'alpinismo non ci sia più cuore forse dovranno ricredersi.
Buone notizie dall'Himalaya, notizie splendide
proprio perché "normali", notizie entusiasmanti perché rimettono in fila
le cose nel modo giusto per quanto raccontino quello che le statistiche
ridurranno, fatti loro, a un obiettivo mancato.
E' Nives Meroi ad avere voltato le spalle alla montagna per la quale
faticava e sognava da mesi, una montagna che era grande, anzi era
gigantesca, era bellissima e possibile, e proprio per quello stava in
cima ai pensieri della regina italiana dell'aria "sottile".
Anzi no, a guardar meglio il Kang stava solo sull'anticima, di quei
pensieri, ed è così che in un amen è diventato una cosa piccola e
insignificante di fronte alla meraviglia della vita e dell'amore, cioè
di quanto dà senso a tutto e dunque non può essere messo a rischio.
E' successo tutto all'improvviso, sul
Kangchenjunga, quando dopo due mesi di travagliatissima spedizione
(l'iniziale cambio di programma, il tentativo all'Annapurna, la rinuncia
dettata da una situazione troppo carica di pericoli, il ritorno
all'obiettivo originario) sembrava che il momento "buono" fosse
finalmente venuto: acclimatamento completato, una finestra di bel tempo
in arrivo, tanta quota già guadagnata e la strategia pronta per la
spallata decisiva, cioè per l'ultimo balzo verso la vetta. Invece no.
Romano Benet, il marito di Nives al suo fianco in ogni
spedizione e su ogni cima, al dunque ha capito che
questa volta le cose stavano andando diversamente da sempre: era troppo
stanco, era salito fino a 7200 metri (dove il vento aveva imposto un
giorno di stop, chissà se malaugurato o provvidenziale) ma non lo aveva
fatto con il solito ritmo. Non aveva recuperato, Romano, e dunque -
conoscendosi a fondo, leggendo tutti i segnali del suo corpo - si è
detto che proseguire sarebbe stato un azzardo troppo grande.
C'era un altro campo da montare, 500 metri più su, e da lì l'indomani
c'era da rilanciare la scalata fino a dove non ci sarebbe più stato
niente da salire, a quota 8.586.
La scelta della Meroi, la scelta che non dimenticheremo, è arrivata a
quel punto.
Lei era in gran forma, poteva proseguire da sola (cosa che del resto il
marito la esortava a fare) e invece ha rinunciato per stare accanto a
Romano nella discesa lunga e pericolosa verso il campo base: 2200 metri
di dislivello che lui avrebbe dovuto affrontare in condizioni fisiche
precarie e senza neppure avere con sé la tenda, che sarebbe stata
indispensabile a Nives per continuare a coltivare il suo sogno più
avanti, più in alto.
Forse hanno persino discusso, lassù, le due metà di un team
straordinario che della leggerezza e della assoluta
autosufficienza - poco materiale, niente aiuto dagli sherpa e
naturalmente niente ossigeno - fa il segno distintivo del suo alpinismo.
La verità però è che non c'era niente da discutere, semplicemente perché
Nives non aveva dubbi: poteva fare solo ciò che ha fatto, la sua scelta
era semplicemente coerente con la sua vita, e dunque era nelle cose, non
negoziabile.
Naturalmente non sappiamo se la tarvisiana sarebbe davvero riuscita a
toccare la cima e a infilarsi nello zaino il dodicesimo ottomila.
Quel
che sappiamo è che, decidendo di non provarci neppure, la Meroi potrebbe
avere pregiudicato la possibilità di diventare la prima donna capace di
infilarsi al collo la straordinaria collezione delle 14 cime.
E' vero,
lei ha ripetuto più e più volte di non sentirsi impegnata in una corsa
alla vetta, e anche con più forza ha sottolineato di non sentirsi in
gara con qualcuno.
Che avverta tutto lo straordinario fascino della
sfida e della grandiosa avventura che la accompagna, però, Nives ce lo
dice con il suo passare di spedizione in spedizione, di montagna in
montagna.
E dunque quel traguardo non può esserle indifferente.
Arriverà in fondo?
Sarà la prima?
Il colpo a vuoto sul Kang, inutile
nasconderlo, allontana questa possibilità.
Perché altre cose sono
successe in questi stessi giorni in Hìmalaya.
Perché le due grandi
rivali dell'alpinista italiana - eccoci tornati alla logica da
competizione - hanno portato a dodici i loro ottomila.
La spagnola Edurne Pasaban lo ha fatto proprio
sul Kang, dove dopo la cima (come era accaduto tre anni fa al K2) è
stata protagonista di una drammatica discesa che è durata tre giorni e
che le è costata gravi congelamenti.
Edurne deve la vita agli amici che
le sono stati accanto passo passo.
E' arrivata al campo base ridotta a
un fantasma, facendo appello a ogni energia fisica e psichica, e riesce
difficile immaginare che possa tornare in Himalaya già nei prossimi mesi
come sperava.
E' dunque l'austriaca Gerlinde Kaltenbrunner, arrivata a "meno due"
ottomila salendo in questi giorni il Lhotse, ad apparire in vantaggio
nella lunga dirittura finale.
Anche la Kaltenbrunner, come la Meroi, aveva accanto il marito nella
salita.
E ha salutato un doppio successo perché lui, il tedesco Ralf Dujmovitz, andando a bersaglio ha scalato anche l'ultimo dei colossi
himalayani (vuole tornare all'Everest, però, perché lì a suo tempo aveva
usato l'ossigeno).
Nella corsa tutta
al femminile, però, sbuca di rimonta la coreana Oh Eun-sun, che sul
Dhaulagiri (scalato a due sole settimane dal successo sul Kang, dopo il
poker di vette del 2008) è arrivata a sorpresa a quota 11 come Nives
Meroi e sembra voglia tentare al più presto anche Gasherbrum I e Nanga
Parbat.
Spera di poter chiudere il cerchio nella primavera del 2010
sull'Annapurna.
Imprevedibilmente, dunque, la sfida delle regine dell'aria "sottile"
diventa a quattro, anche se lo stile della coreana - che avrebbe fatto
ricorso all'ossigeno su più di una montagna, benché non sia chiaro su
quante - sembra lontano da quello di Nives, Gerlinde ed Edurne.
A chi la
prossima mossa, in questa corsa che è anche una partita a scacchi?
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