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Via Maestri alla Rocca di San Leo

di Gabriele Villa

"Abbandonata la strada prima di salire alla rocca, voltando a destra verso Sant’Igne, subito al primo tornante, dopo cento metri si svolta a sinistra su strada bianca verso una casa colonica abbandonata dove si parcheggia l’auto."
E’ proprio lì che arriviamo alle nove di sabato 5 novembre, ma la casa non è abbandonata, come diceva la guida: c’è un signore in tuta che sta innalzando il muro di una costruzione attigua.
Ne approfittiamo per chiedergli informazioni sull’avvicinamento alla parete nord-est della Rocca di San Leo, sulla quale ci attende la via di Cesare Maestri ed Ezio Alimonta.
Ci mette sull’avviso che la traccia è poco battuta e la vegetazione fitta a causa delle frequenti piogge dell’ultima estate, ma ci dà un riferimento preciso su dove passare nel fitto della sterpaglia.
Appena pronti c’incamminiamo con il materiale tintinnante appeso all’imbragatura, non senza avere risposto alla raccomandazione paterna rivoltaci dal nostro amico, con la caratteristica cadenza romagnola: “Fate attenzione, ragazzi. Non si sa mai, su per quelle pareti lì”.
Per fortuna l’attraversamento è breve perché la traccia è veramente labile, soprattutto poco piacevole il tratto che passa in mezzo alle ortiche: non è sufficiente percuoterle con un ramo di fico selvatico per renderle inoffensive. Arriviamo sotto la parete con le braccia che prudono: un muro di arenaria, bianco e giallo, si erge per cento metri sopra di noi, dritto e liscio come fosse stato piallato.
Proprio al centro della parete e sulla verticale del terzo bastione del forte che ha imprigionato il Conte di Cagliostro, parte una fila di chiodini a pressione arrugginiti che, con dirittura pressoché lineare, arriva fino al termine della parete.
La via fu aperta nel 1968 da Cesare Maestri ed Ezio Alimonta, in due giorni il 26 e 27 maggio, con un bivacco in parete e uscita il giorno successivo. Fu ripresa nel 1998, bonificandone la vecchia chiodatura e affiancandola con nuovi tasselli resinati e catene alle soste; successivamente, per festeggiare il trentennale della salita, fu invitato Cesare Maestri che ripercorse la via da lui aperta.
Da allora le ripetizioni sono aumentate, in ragione, più o meno, di una decina all’anno.
Mentre ci prepariamo per iniziare la scalata, entrambi abbiamo una leggera agitazione: un po’ è l’emozione di ripetere la via di un grande dell’alpinismo (anche se questa con l’alpinismo non ha molto a che fare), un po’ la desuetudine all’arrampicata artificiale. L’ultima salita l’abbiamo fatta, sempre assieme, sulle rocce di Primolano e sono oramai trascorsi tre anni pieni.
I primi movimenti risentono della leggera tensione, sono un po’ legnosi e non sempre fluidi, poi la ripetitività dei gesti aiuta a ritrovare la giusta scioltezza.
Dalla sosta do il comando di partenza a Davide, mentre guardo le corde penzolare nel vuoto, distaccate circa tre metri dalla parete, nel punto di partenza, trenta metri più sotto. Una delle cose che mi piacciono di più delle vie in artificiale è la grande presenza del vuoto; un vuoto che ti circonda e ti avvolge, soprattutto quando sei fermo in sosta, appeso all’imbragatura e con i piedi a malapena appoggiati alla parete.
L’arrampicata, invece, è abbastanza monotona, soprattutto sulle vie con i chiodi a pressione, dove si va sistematicamente da chiodo a chiodo, quasi senza toccare la roccia. Davide arriva madido di sudore, anche perché non fa per niente freddo; io stesso sono arrivato alla sosta con la sola maglietta. 
Il secondo tiro prosegue in verticale e, solo da ultimo, piega pochi metri a destra per arrivare sotto ad uno strapiombino dove c’è la sosta. Qui Maestri e Alimonta bivaccarono in occasione dell’apertura dell’itinerario e qui è stata posizionata anche una cassettina in legno per contenere il libro di via.
Quando arriva Davide compiamo le solite manovre per scambiarci la posizione senza correre il rischio di aggrovigliare le corde; i rintocchi di campana che annunciavano il mezzogiorno sono già suonati da un pezzo. Irrinunciabile uno sguardo al libro di via, ben legato con uno spago per evitare cadute accidentali, come anche la biro del resto.
Lo sguardo corre a quanto ha scritto Maestri in occasione della ripetizione effettuata nel 1998: “Grazie per avermi riportato indietro di trent’anni”.
Nella pagina seguente, con la data del giorno dopo, sempre uno scritto di Cesare Maestri: “Salita del trentennale. Solitaria”, poi la firma e niente altro.
Riparto per l’ultimo tiro di corda. Dopo pochi metri un passaggio “lungo”, l’unico di A2, consiste in un buon appiglio su cui fare presa per un innalzamento sul gradino alto della staffa, fino a raggiungere il chiodo successivo. 
Da qui si obliqua a destra, poi si piega un po’ a sinistra e si esce ai piedi del bastione circolare della fortezza di San Leo, esattamente dentro ad un rovo che le piogge hanno alimentato e irrobustito e, le scarse ripetizioni della via, preservato intatto.
Quando, dopo avere recuperato le corde, do il via libera a Davide, sono già passate le tredici e il cielo si è ingrigito. Per lui sarà un tiro “sofferto” perché, mentre filava la corda, ha preso un crampo all’avambraccio sinistro; lentamente, resistendo alle contrazioni dolorose, approda, dopo oltre un’ora, al ripiano nel quale il rovo ha ceduto spine e rami all’incalzare dei miei piedi.
E’ una stretta di mano molto forte quella che ci scambiamo al suo arrivo.
Poi rientriamo attraversando il piazzale della Rocca e scendendo al paese con il nostro materiale penzolante dall’imbragatura e tintinnante.
Se fosse carnevale saremmo già perfettamente “travestiti” da alpinisti.
Al rientro all’auto, parcheggiata nel cortile della casa colonica, ci viene incontro il nostro amico muratore. E’ curioso di sapere cos’è quella “targa” che si vede sotto allo strapiombo e io gli dico della cassetta che contiene il libro di via.
Pietro Bartolini, così si chiama il nostro gentile interlocutore, ci racconta che fu Maestri a “piantare i primi chiodi” sulla parete e lui se lo ricorda perché già abitava in quella casa colonica che la guida dava per abbandonata.
“Hanno anche bivaccato; si vedevano le lucine là, sospese. –
ci racconta – Mia figlia piccola era andata nel prato chiedendo se avessero bisogno di qualche cosa, ma loro risposero che era tutto a posto e non serviva nulla”.
Noi lo ascoltiamo con curiosità e finto stupore, perché la storia la conosciamo bene, ma ci piace che lui ce la racconti, così come l’ha vissuta in prima persona.
“Il giorno dopo, quando sono arrivati in cima, c’era il Sindaco che li aspettava e ci furono dei festeggiamenti e dei brindisi. Quando sono tornati qui li ho invitati in casa a bere un bicchiere di vino; che poi sono diventati due”,
aggiunge ridendo divertito.
Ricorda anche i frequenti passaggi di quattro ragazzi che attraversavano il cortile di casa dopo essersi calati dall’alto ed essere rimasti a lungo appesi alle corde per lavorare sulla parete.
Una volta gli ho chiesto se loro erano più furbi degli altri, che invece di salire scendevano, facendo tanta meno fatica. Mi hanno spiegato che stavano sistemando i chiodi, per la festa del trentennale e che Maestri sarebbe tornato per fare ancora la via. Infatti, era il 1998”.
Racconta, infine, dei lavori di disgaggio e consolidamento della parete, per evitare il ripetersi di crolli; lavori che attualmente ancora proseguono interessando il versante est della Rupe di San Leo.
“Ci ho lavorato anch’io per un periodo –
ci dice -  e mi ricordo bene quando camminavo sul muro della rocca, con il vuoto sotto, ma solo quando c’era la nebbia e non vedevo giù. Quando c’era il sole e vedevo il vuoto non ero mica capace di farlo!”.
Alla fine ci salutiamo. Lui torna al suo muro da edificare, noi all’auto che ci riporterà a casa, soddisfatti per la giornata. Una volta tanto, rientriamo con il muso dell’auto rivolto in direzione nord, anziché sud, come invece solitamente succede. 

Gabriele Villa


Ferrara, 11 novembre 2005