Te regòrdeto
Jorge …el spigol Delago?
di
Gabriele Villa
Non
avete mai notato che nella vita di ogni persona c’è sempre almeno una
giornata "particolare", intendo dire una di quelle di cui, anche
a distanza di anni, ci si ricorda la data precisa senza doverci pensare,
il posto nel quale ci si trovava, quello che si è fatto e con chi.
Ma non solo.
Si ha la precisa sensazione che quello che è successo in quella
particolare giornata ci abbia in gran parte cambiato la vita, modificando
il corso delle cose, perché in quel giorno le regole che ispiravano il
nostro consueto agire sono state in qualche modo sovvertite.
Voglio dire che in quella giornata il timido ha trovato il coraggio di
dichiararsi alla ragazza che gli piaceva, il pavido ha trovato la forza di
reagire al torto subito da parte di un prepotente, lo sciocco ha avuto
un’intuizione geniale, il prudente ha superato la timorosa ritrosia per
lanciarsi in un’impresa temeraria.
Insomma, per farla breve, io credo di avere vissuto una di queste giornate
il 15 agosto del 1975, il giorno in cui, riuscendo a vincere timori, dubbi
e paure, effettuai la prima arrampicata della mia vita sullo spigolo della
Torre Delago, al Vajolet.
Ma uno non s’inventa alpinista dall’oggi al domani, né va ad
arrampicare così all’improvviso se non lo muove la passione.
E io la passione ce l’avevo dentro.
Come lo avevo capito?
Tanti piccoli particolari rivelatori, come ad esempio un libro di Cesare
Maestri sul Cerro Torre acquistato di sera e letto d’un fiato nella
stessa notte, la curiosità verso tutte le notizie che riguardassero
l’alpinismo e l’interesse con cui leggevo gli articoli che trattassero
di arrampicate, le ore che passavo le estati in montagna sotto alle pareti
a guardare gli "scalatori" con il binocolo per cercare di capire
i segreti di quell’attività così pericolosa, eppure tanto
affascinante.
Purtroppo, durante un’escursione estiva di qualche anno prima, una di
quelle cose da incoscienti che riescono tanto facilmente agli adolescenti,
ero scivolato sulle rocce al fianco di una cascata che stavamo tentando di
risalire.
Solo per puro miracolo la scivolata si era interrotta prima che io
precipitassi nell’inghiottitoio in cui finivano le acque evitandomi un
tuffo che mi sarebbe, quasi certamente, costato la vita.
Ero poi riuscito a riprendere il controllo della situazione sottraendomi
al rischio mortale, ma quell’episodio mi aveva segnato, scavandomi un
"buco" nella mente talmente grande da riuscire ad inibire ogni
ulteriore velleità arrampicatoria, trasmettendomi anche la fobia del
vuoto.
Da quel giorno mi ero sempre dovuto accontentare di dedicarmi, durante i
miei soggiorni estivi in montagna ospite dello zio Mario nel piccolo
paesino di Pecol nell’agordino, ad interminabili escursioni con gli
amici Bruno, Gualtiero, Giorgio (detto Jorge) e mio cugino Giulio (detto
Giòb), anche arrivando in cima a qualche montagna, ma sempre per la via
più facile e senza alcuna difficoltà alpinistica.
Solo una volta, durante un’escursione ai piedi del Civetta, mi ero
lasciato convincere ad affrontarne la via normale: ero arrivato al rifugio
Torrani semi terrorizzato e, una volta riguadagnato il sentiero Tivàn,
avevo giurato a me stesso di non ripetere più simili esperienze.
Tre anni dopo però, avevo ceduto alla tentazione di salire una via
ferrata, la Cesco Tomaselli, e ne avevo riportato con sorpresa sensazioni
molto piacevoli, quasi esaltanti, pur se frammiste a momenti di autentica
paura.
Così, quell’estate del ‘75, ero giunto a Pecol per le vacanze estive
avendo in animo di vincere le mie paure per provare ad arrampicare.
Il disegno era di convincere Jorge a farmi da capocordata su di una via
facile che consentisse un approccio psicologicamente blando.
Dopo l’esperienza al Civetta, Giorgio aveva cominciato ad arrampicare
con Bruno, il fratello maggiore, e, con la rapidità tipica dei montanari
che hanno le "crode" nel sangue, erano diventati una forte
cordata.
Quando gli proposi di condurmi su una via di secondo grado scoppiò in una
sonora risata, dicendo: "Te vòl andàr a rampegàr su per en giaròn".
Come spiegargli che il suo giaròn per me sarebbe stato un impegno
sovrumano e che mi accontentavo più semplicemente di cominciare a
"fare cordata", per capire qualche cosa in più di quella
passione che mi sentivo dentro così forte?
"Se proprio – mi disse per rispondere alle mie insistenze – andòn
a far el spigol de la Delago al Vajolet".
Mi si materializzò davanti agli occhi quella lama di roccia che ben
conoscevo: era riprodotta nella foto di copertina dell’unica cartina che
possedevo, la Tabacco del gruppo del Catinaccio.
Mi uscì di getto, in dialetto veneto, un: "Ma ésto màt".
Ma non c’era spazio per alcun tipo di contrattazione, Giorgio era
irremovibile: prendere o lasciare.
"E come scendiamo? Non so neanche fare la corda doppia". Dissi
in un estremo tentativo di trovare una scappatoia.
"Domàn te vegne su da mì con Giulio e te fàze veder come se fà".
Allora Giorgio abitava a Piaia, il paesino poco sopra Pecol, con la madre
e il fratello, nello stabile delle scuole elementari, una costruzione
molto grande con un tetto di lamiera grigia.
Il giorno dopo, assieme a mio cugino Giulio, salimmo la strada per Piaia
per andare a lezione di corda doppia.
Giorgio non aveva perso tempo; aveva ancorato la corda da arrampicata alla
ringhiera del grande giro scale interno alla scuola, al terzo piano: non
restava che provare.
I particolari di quel pomeriggio sono sfumati nelle nebbie dei tanti anni
trascorsi.
Però ricordo bene il cordino girato ad "otto" in cui bisognava
infilare le gambe e a cui si agganciava il moschettone nel quale poi si
faceva passare la corda per poi girarla sul petto e la spalla e quindi
dietro la schiena, per prenderla infine con la mano che avrebbe regolato
la velocità della discesa.
C’era infine quel cordino sottile che andava girato attorno alla corda
doppia per formare il nodo autobloccante.
"Chesta l’è la Comici – ci aveva spiegato Giorgio che aveva
letto i manuali di alpinismo presi a prestito da Benedetto, un ragazzo del
vicino paese di San Tomaso – e chesto l’è ‘l prusik. Se te mòli la
corda, el te tièn sù".
Dopo alcune discese di prova sotto l’occhio vigile di Giorgio avemmo
infine l’imprimatur del nostro capo cordata: eravamo stati giudicati
"pronti" per la "grande impresa" dell’indomani.
Di buon’ora, con la mia Cinquecento, effettuammo il trasferimento a
Gardeccia e salimmo ai piedi delle Torri del Vajolet.
Se nella foto della Tabacco mi erano apparse bellissime, ora che mi ci
trovavo sotto ne ero affascinato e soggiogato.
Mano a mano che si avvicinava il momento di scalare quella torre
meravigliosa il mio stato di "trance" aumentava; sentivo lo
stomaco che si chiudeva progressivamente e la paura lievitare fino a
raggiungere livelli difficili da controllare.
Il mio stato d’animo faceva contrasto con quello di Giulio che era
tranquillo, mentre Giorgio, pregustando il momento dell’azione, più si
avvicinava, più rendeva palese l’entusiasmo per l’imminente scalata.
Io al contrario di lui, più ci avvicinavamo alla Torre e più avrei
voluto continuare a camminare, forse anche all’infinito, per non
iniziare quell’arrampicata che tanto temevo e desideravo allo stesso
tempo.
Invece ci trovammo sotto la parete, estraemmo le corde dagli zaini per
cominciare le "operazioni". L’imbragatura, allora, non era
entrata nell’uso corrente per cui Giorgio insegnò a me e a Giulio come
realizzarla con un capo della corda di cordata.
Avevo però il casco; me lo aveva regalato la moglie premurosa, dopo aver
visto le foto scattate sulla ferrata Tomaselli.
Era il giorno di ferragosto per cui alla base della parete c’era
fermento; ci mettemmo diligentemente in coda ad aspettare il nostro turno.
Davanti a noi una cordata di tedeschi iniziò la salita, prima lui,
velocemente, poi lei che, dopo una decina di metri, si trovò in difficoltà.
Non riusciva a salire una placca di rocce bianche e soffiava come un
mantice.
Guardai Giorgio con occhio interrogativo.
Capì il mio stato d’animo e cercò di tranquillizzarmi.
"No stà far caso. Noi andòn più a destra che la è pì fazile."
Per lui sembrava un gioco divertente; io avrei voluto slegarmi e
cominciare a correre giù per il sentiero fino a Gardeccia per proseguire
fino a fondo valle e sparire non so dove. Cominciavo a maledire me stesso
per essermi cacciato in quella situazione.
"Méti la corda sota ‘l braz e fàme sicura" disse Giorgio
sistemandomi la corda per l’assicurazione a spalla.
Cominciò a salire e io realizzai in quel momento che, oramai, la via per
uscire da quella situazione passava per la cima di quella torre che vedevo
slanciarsi nel cielo azzurro sopra la sagoma di Giorgio che arrampicava
sopra di me.
Poco dopo, al suo comando, cominciai a salire e tutto quello che avevo
avuto intorno fino a quel momento, sparì.
Esisteva soltanto la roccia di fronte a me, di cui cercavo di carpire i
segreti per poterla salire. Non me la cavai male su quei primi trenta
metri, anzi, mi sarei potuto quasi divertire se la paura non mi avesse
attanagliato lo stomaco.
Mi sistemai al fianco di Giorgio a guardare Giulio salire, mentre le
cordate alla base si preparavano a loro volta all’azione.
Arrivato che fu Giulio, Giorgio preparò le corde e me le mise in mano.
"Chésto l’è ‘l mezzo barcaiolo – mi disse – se mi casche ti
te céni la corda".
Dovevo avere un’espressione inebetita; la paura mi aveva anestetizzato
il cervello.
"Asto capì?". Disse Giorgio alzando la voce.
Feci un cenno affermativo con la testa e lui partì verso il bordo dello
spigolo.
Non mi riesce di spiegare cosa provai quando a mia volta mi affacciai
sullo spigolo e vidi il vuoto da capogiro che stava oltre.
Dopo pochi metri mi trovai quasi a cavalcioni di quella prua di roccia: il
vuoto intorno era totale, la paura era aumentata e il cuore batteva a
mille.
Nonostante ciò, quasi con sorpresa, notavo che i movimenti
dell’arrampicata continuavano a susseguirsi in maniera ordinata.
Soltanto le mani, quando prendevano un appiglio, stringevano
all’inverosimile, come se le dita avessero voluto entrare dentro la
roccia.
Anche il secondo tiro fu fatto, la parete sovrastante si era
"accorciata" e la mia paura era calata di qualche punto
percentuale.
Il più sembrava fatto e, quando lo spigolo perse di verticalità
lasciando il posto ad una parete di roccia articolata, capii che la cima
era oramai prossima.
Vi arrivammo, finalmente, ma la mia ansia non si placava.
Anzi, non avere più nulla sopra la testa da salire, ma tutto sotto ai
piedi da scendere mi rese ancora più inquieto.
La cordata avanti a noi stava lanciando le corde per la calata in doppia.
Giorgio e Giulio erano ben contenti di avere un momento di attesa e si
sedettero con lo zaino tra le gambe per accingersi a mangiare qualcosa;
nel mio stomaco non sarebbe potuta entrare nemmeno una fragola.
Smaniavo per scendere immediatamente, ma alle mie insistenze Giorgio
rispose secco: "Calma, adess se magna".
Dagli zaini uscirono due panini di misura "extra large" e
l’odore della soppressa invase rapidamente la cima della Torre Delago.
Dovetti rassegnarmi all’attesa, sedendomi in posizione fetale, guardando
il rifugio Re Alberto, laggiù, grande come una scatola di fiammiferi
svedesi.
Venne, come una liberazione, il momento di scendere a nostra volta.
Giulio, che non aveva certo i miei problemi psicologici, scese per primo,
mentre io, che ero l’anello debole della catena, scesi per secondo,
sotto il controllo attento di Jorge. Mi ero sforzato di non guardare in
basso perché il vuoto mi dava sgomento e avevo seguito con scrupolo tutte
le indicazioni ricevute.
Finalmente cominciai a scendere, anche se molto lentamente.
Guardavo la roccia davanti a me, ma questa dopo alcuni metri di discesa
cominciò ad allontanarsi fino a che non riuscii più a toccarla nemmeno
con le punte degli scarponi.
Probabilmente le corde erano un po’ attorcigliate per cui, appena mancò
l’appoggio dei piedi, entrai in rotazione oraria, lenta e inesorabile e,
dopo avere compiuto un mezzo giro, mi trovai con la faccia verso quel
vuoto che avevo cercato in tutti i modi di non guardare.
Non potevo certo chiudere gli occhi e, del resto, ciò non avrebbe
migliorato di nulla quella situazione terrorizzante.
Le mie mani intanto, senza che me ne rendessi conto, si erano chiuse come
due morse attorno alle corde e la mia discesa si era arrestata.
Rimasi in quella posizione senza più pensieri nella mente.
Il cervello era di nuovo anestetizzato dalla paura.
Sentii, lontana, la voce di Giorgio.
"Gabri, mòla pian le corde e va in dù".
Qualcosa si rimise in moto nella mia testa; forse chiusi gli occhi, non
ricordo, ma fatto sta che la discesa riprese anche se con lentezza e il
terrazzo sotto si avvicinò infondendomi un po’ di coraggio.
Finalmente toccai la roccia e potei raggiungere Giulio che aveva assistito
con una certa apprensione alla mia tribolata discesa.
Giorgio ci raggiunse rapidamente e cominciò il recupero delle corde.
L’ancoraggio della doppia seguente era sul versante che guarda il
rifugio Re Alberto e ricordo con quale senso di liberazione mi vi
affacciai, lasciando il vuoto mozzafiato che mi aveva paralizzato.
Lanciate le corde verso il basso, Giulio si accinse a partire dopo che
Giorgio, preparato il nodo prusik, in mancanza dell’imbragatura glielo
aveva ancorato allo spallaccio dello zaino.
Non che Giulio fosse entusiasta di quella assicurazione, ma tant’è,
sembrava che di meglio non si potesse fare e già si sentivano le voci
della cordata che seguiva, in arrivo al terrazzino.
Sparì rapidamente alla nostra vista, mentre Giorgio teneva una mano sulla
corda per capire quando sarebbe arrivato e poter disporre subito la
manovra per la mia discesa.
Dopo un tempo ragionevole la corda aveva perso la tensione dovuta al peso
di Giulio, ma non era ancora recuperabile.
Giorgio provò a sporgersi per vedere che cosa stesse succedendo, ma
Giulio era nascosto dalle rocce sporgenti e non si riusciva a comprendere
perché ritardasse a liberare la corda; si capiva che non vi era più
appeso, ma nemmeno era completamente scaricata e resisteva alla trazione;
Giorgio si stava spazientendo di quel ritardo.
Prese la corda con entrambe le mani e diede un paio di strattoni con
forza, gridando:
"Alora Giòb, la moléto stà corda, sì o no?"
Dal basso di udirono giungere, acute, urla di dolore e solo quando fummo
scesi a nostra volta riuscimmo a capire cosa fosse realmente accaduto.
Chi, come me, non è più giovanissimo ricorderà certamente gli inizi
degli anni ’70: erano quelli in cui andavano in gran voga i Beatles e i
Rolling Stones ed i tanti complessi musicali nostrani; tutti portavano i
capelli molto lunghi, tanto che era diventata una moda imperante; i
"capelloni" si diceva, e Giulio, allora ventenne non si era
sottratto alla regola.
Cosa era successo, dunque?
Durante la discesa il prusik di autoassicurazione si era avvicinato
pericolosamente alla zazzera ridondante di Giulio e quando questi aveva
guardato verso il basso avvicinando ulteriormente la testa, aveva
"risucchiato" un’abbondante ciocca dei lunghi capelli. Giulio
aveva tentato di sottrarsi alla presa, ma, non potendo mollare le mani
dalla corda, si era rassegnato a proseguire, mentre il prusik continuava
la sua inesorabile opera di risucchio.
Era arrivato dolorante al terrazzino con i capelli imprigionati nelle
spire del prusik e, finalmente con le mani libere, aveva tentato di
districarsi.
I due violenti strattoni dati da Giorgio alle corde avevano, infine,
risolto brutalmente il problema ed il prusik era rimasto sulla corda con
l’intera ciocca di capelli avvolta tra le sue spire.
Dopo la mia calata e quella di Giorgio ci ritrovammo al terrazzino e ci
facemmo una sonora risata alle spalle di Giulio.
"Così te impàre a non taiarte i cavèi" disse Giorgio che era
il più giovane dei tre e ancora non aveva seguito la moda dei capelli
lunghi.
Potevamo pensare ora all’ultima corda doppia.
Quell’episodio aveva definitivamente stemperato la mia angoscia e la
vicinanza della base della parete mi aveva restituito una relativa
tranquillità.
Più tardi, davanti al rifugio Re Alberto, ci fermammo a guardare le tre
Torri del Vajolet, un’autentica opera della natura.
Giorgio mi guardò soddisfatto.
"L’è bèl rampegàr, véra?
"Si – risposi – però ho avuto troppa paura. Non so se avrò
ancora voglia di ripetere un’esperienza simile".
Ero sincero in quel momento, ma mai come in quell’occasione le parole
furono smentite dai fatti.
Sono passati ventisette anni da quel giorno e, verosimilmente, tra luglio
e agosto salirò la mia settecentesima via, quasi cinquecento delle quali
da capocordata.
Sì, credo proprio di poter dire che quel 15 agosto del 1975 sia stata la
mia giornata "particolare", quella che, più di ogni altra, mi
ha cambiato la vita.
Gabriele
Villa
Ferrara,
25 febbraio 2002
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